Jukka Reverberi è uno di quelli che vive per la musica. Non sono pochi i personaggi come lui, ce ne sono e ce ne sono stati a bizzeffe, ma Jukka, in particolar modo ha una visione della musica e del suono che affascinante, a tratti romantica, spesso bizzarra. Come il paesello della provincia emiliana che lo ha visto nascere; Cavriago. Quell’unico buco di culo, in tutta l’Europa Occidentale, ad avere eretto un busto di Lenin nella sua piazza principale. Cavriago, Reggio Emilia, il Maffia e ancora i Giardini di Mirò prima, Bastion e Crimea X fino ad arrivare a Spartiti, con il compaesano Max Collini, già voce degli Offlaga Disco Pax. Questi sono i punti cardine della nostra lunga chiacchierata, una delle migliori che io abbia mai affrontato, perché parte dalla musica e arriva alla vita e dalla vita torna alla musica. Perché è vera, carica di suoni e rumori e di una persona che è nata “in un posto che non voleva essere come come tutti gli altri” ed è arrivata ad essere l’esempio che se ci provi con il cuore, puoi arrivare dove non avresti mai creduto. Signore e Signori, Jukka Reverberi.
Vorrei non dover fare un’intervista specifica allo Jukka dei Giardini di Mirò e nemmeno allo Jukka di Crimea X, ma neanche allo Jukka di Spartiti. Vorrei poter chiacchierare con Jukka Reverberi, e basta.
Ok, mi piace.
Perfetto, quindi come e quando ha iniziato a suonare Jukka?
Ho iniziato come ascoltatore e, oltretutto, per molto tempo. Verso i quindici anni mi sono innamorato della musica “seria” e non dagli ascolti casuali che venivano dettati da un nome suggerito da un compagno di classe. Parlo di cose mainstream. Erano gli anni novanta, la gente ascoltava i Queen e Venditti, per citarti un album che ho acquistato e un concerto a cui ho assistito, il secondo. Poi ad un certo punto non me n’è più fregato nulla, improvvisamente. Credo che il momento preciso coincida con l’uscita della pubblicità della Levis che aveva come sottofondo “Should I Stay or Should I go”. Ho chiesto ai miei genitori chi fossero, perché quella canzone mi aveva fatto impazzire e me lo dissero.
Qualche giorno dopo, stavo tornando al mio paese da scuola, a Cavriago, e volevo fermarmi in un negozio di dischi per comprare il primo album dei Clash. Volevo qualcosa da mettere sul giradischi che avevo a casa e che, fino a quel momento, aveva fatto girare solo musica italiana.
Avevo pochi soldi, ma l’ho comprato lo stesso, sono tornato a casa, ho iniziato ad ascoltarlo. Ho sentito qualcosa di estremamente vivo. Ho iniziato a farmi dei giri alla fonoteca del paese, perché c’era il “prestito cassetta”, ovvero potevi andare lì e ascoltare gli album, come se leggessi un libro in una biblioteca. Da quel momento è partito tutto.
Poi ho iniziato a suonare la chitarra, ad onore del vero molto tardi, ma l’ho fatto perché mi piaceva troppo quello che avevo cominciato ad ascoltare. Però ho bruciato le tappe e addirittura, l’ultimo anno di superiori ho fondato, insieme ad una amico, una fanzine punk-hardcore. Mi sono avvicinato allo straight edge.
Ad un certo punto anche quello non mi bastava più, scrivere di musica – per modo di dire -era poco. Così, sempre tramite la fanzine, abbiamo iniziato a produrre dei gruppi, pubblicando alcune canzoni, per esempio un brano degli Altro, una canzone di Giulio Favero, ancora prima di entrare nei One Dimensional Man e Teatro degli Orrori. Però, come detto, quello non mi bastava più e ho comprato una chitarra, ho iniziato ad imparare e poi a suonarla in tre o quattro gruppetti, di cui solo uno di questi è entrato in sala prove. Con gli altri provavamo in camera mia, insieme all’amico con il quale avevo fondato la fanzine. Giocavamo con le tastiere Casio e c’improvvisavamo come duo alla “Massimo Volume”. In sostanza avevamo una grande esigenza di partecipare alla nostra passione, di farne parte attiva. Volevamo fare qualcosa. Poi, essendo io uno che non ha studiato musica e che non possa tutto il suo tempo ad imparare a suonare la chitarra – questo vale tutt’ora, non me ne frega niente – ho sempre provato a fare qualcosa con la poca tecnica che avevo e mi è sempre piaciuto, mi elettrizzava pensare che stavo creando senza averne tutti i mezzi. Era quello che volevo.
Beh, mi viene da pensare che, se mi dici di non avere mai studiato musica e comunque di provarci con i mezzi che avevi, forse stavi sperimentando in musica e questo, con il senno di poi, non lo vedo così strano.
Questo sicuramente. Ad un certo punto impari a riconoscere i tuoi limiti e diventano punti di forza. Ti devi ingegnare. Per esempio, io con la chitarra non potevo suonare pezzi degli altri, perché non ero capace. Quindi dovevo inventare roba mia. Forse ho anche la fortuna di avere parecchio orecchio. Questo mi ha aiutato molto.
Senti, come si chiamava la fanzine?
No More Pain, che era il titolo di una canzone degli Embrace, una della band di Ian MacKaye, coincidente nel breve periodo dopo Minor Threat e prima Fugazi.
Hai ancora delle copie?
Ho tutti gli originali.
E poi, dopo quel periodo?
Poi è arrivato un mio caro amico, Giuseppe Camuncoli (Cammo) che ora è un grande fumettista, molto conosciuto a livello internazionale, disegna per la Marvel americana. Lui aveva una band, si chiamava Giardini di Mirò, si muovevano nell’ambito del rock italiano degli anni novanta. Quindi tutte cose influenzate dai CSI, per capirci. Io andavo a sentire i loro concerti, perché Cammo mi invitava, fino al momento in cui hanno avuto un po’ di problemi e la formazione si è rovesciata. Così mi hanno chiesto di aiutarli. Insomma, c’era una sorta di gemellaggio culturale tra il comune in cui vivevamo, Cavriago, e un paesino della provincia tedesca nel sud della Germania. Le attività giovanili dell’uno e dell’altro venivano condivise in uno scambio e mi hanno chiesto di andare laggiù per un concerto e fare il “chitarrista rumorista” con loro, ovvero improvvisare solo dei rumori di chitarra, vista la mia passione per certi suoni. Così ho accettato, solo che nel frattempo è successo che il secondo chitarrista, Luca Di Mira – che oggi è il tastierista dei Giardini di Mirò, decise di non partire per questo concerto in Germania, quindi io diventai il secondo tastierista, che è una parte importante.
Ovviamente non ci riuscivo benissimo, ma gli ho detto: “Io non sono bravo, ma conosco molto bene i pezzi, voi siete alle strette e accetto, però devo suonare con il distorsore, perché se li suono puliti si sente che sono un brocco.” Alla fine siamo andati a suonare e alla fine del concerto erano tutti esaltati.
Una cosa che mi fa molto ridere è che il mio primo concerto è stato in Germania e non in Italia. Mi avevano addirittura prestato un amplificatore, perché non ce lo avevo. Però, ti dico, alla fine del concerto mi hanno fatto molti complimenti ed io ci ho preso gusto. Mi sono gasato.
Da quel giorno la storia dei Giardini di Mirò è cambiata parecchio. Sono passati diciannove anni da quel momento, io e Corrado Nuccini suoniamo ancora insieme e abbiamo ricostruito il gruppo. Forse mi va riconosciuto che, pur non essendo un mostro con la chitarra, ho avuto una buona attitudine e buone idee, quindi abbiamo potuto riformare un suono su quelle basi.
Chi se n’è andato dai Giardini di Mirò e chi è rimasto, a parte Giuseppe Camuncoli, di cui mi hai già accennato?
Cammo è uscito quasi subito, abbiamo fatto pochi concerti insieme a lui con la nuova formazione. E’ rimasto Luca Di Mira, come ti ho già detto, che ai tempi era tastierista e dopo un paio di anni lo abbiamo richiamato come chitarrista. Corrado è praticamente il fondatore dei Giardini di Mirò. Poi, nella prima fase ci sono stati altri ragazzi che sono stati pochissimo, fino a quando il gruppo ha trovato il suo nucleo centrale dal 1997 fino ad oggi e non è mai cambiato. Come l’arrivo di Mirko Venturelli, che aveva già suonato con me in uno di quei gruppetti da camera di cui ti parlavo. Il reparto ritmico ha visto i cambi più importanti di formazione; negli anni si sono seduti dietro i tamburi: Lorenzo Lanzi, Francesco Donadello (ora produttore affermato a Berlino), Andrea Mancin ed attualmente Lorenzo Cattalani.
Come è cambiato l’approccio al suono dei Giardini di Mirò negli anni?
Sai, sono passati quasi vent’anni da quando abbiamo iniziato a suonare insieme e in mezzo c’è stato di tutto. Ci sono state diverse passioni, per esempio, per me è una cosa fondamentale, perché il gusto cambia come cambia la storia e la storia, a sua volta, modifica gli eventi. Infatti, anche i nostri dischi testimoniano questo cambiamento. C’è un mondo in mezzo.
Quando mi dicono che i Giardini di Mirò hanno un loro suono e si sente chiaramente, io rispondo che è vero, ce l’ha e noi siamo riusciti a costruirlo, ma è anche vero che abbiamo sempre cercato di fare qualcosa di diverso. E’ chiaro che c’è un’impronta e non riusciamo ad andare in altri territori, a stupire facendo un disco completamente diverso. Però, nella nostra continuità credo ci sia sempre stata una differenza. C’è il disco dove c’è un po’ più di elettronica, c’è quello dove non ce n’è assolutamente, oppure quello in cui il rumore ha avuto un ruolo importante. Abbiamo imparato a conoscere meglio il nostro stile, ecco. In alcuni casi ci siamo trovati a conoscerlo fin troppo bene, rischiando di non prendere rischi, permettimi il gioco di parole sciocco. Si rischia di diventare fin troppo prudenti e invece occorre esserlo meno.
Invece come persone, come membri di un gruppo, come avete affrontato i periodi di crisi, che immagino ci siano stati, dato che ci sono quasi in tutte le band che lavorano insieme per molto tempo?
Credo ci sia stata un’evoluzione di noi, in quanto persone, che è sbalorditiva. Rimaniamo praticamente le stesse teste di cazzo del 1996, ma da ragazzi siamo diventati degli uomini.
Io ho iniziato nei Giardini di Mirò che avevo poco meno di vent’anni e adesso ne ho poco meno di quaranta. Abbiamo passato fasi importanti nella vita di una persona, è questo.
Suonare per così tanto tempo insieme ti costringe a crescere, soprattutto in un periodo, quello del cambiamento caratteriale in uomo adulto, in cui una persona affronta una quantità non indifferente di mutazioni.
Le tensioni ci sono sempre state in sala prove, anche latenti. Momenti in cui vivi male il la prova in sé e l’incisione di un disco, però grandi litigi o lunghi momenti di silenzio non ne abbiamo mai avuti. Facciamo ancora la cena di Natale tutti insieme, in modo non forzato.
Probabilmente non siamo mai stati migliori amici, quelli che stanno sempre insieme anche fuori dalla band, siamo stati sempre indipendenti, ma abbiamo un legame fortissimo, al di là dei nostri approcci differenti. Se ci osservi sul palco lo vedi che siamo diversi.
C’è sempre stata molta stima e fiducia e questo ci permette di suonare ancora insieme, dopo quasi vent’anni.
Ma infatti, il vostro essere molto diversi non si nota soltanto a vedervi suonare, ma anche a sentirvi. Ognuno di voi credo abbia un’attitudine sonora molto diversa ed è per questo che intorno ai membri dei Giardini di Mirò ruotano diversi altri progetti.
E’ una cosa che viene naturale, sarebbe stato un carcere avere solo i Giardini. Le energie di una vita non puoi concentrarle solo su di una cosa, posso dire che ce ne abbiamo messe tante, però è giusto rivolgere lo sguardo anche fuori. Non è un carcere, non è un matrimonio, è qualcos’altro; è un posto molto bello dove ci troviamo da anni a fare una cosa che ci piace molto, ma non è tutto.
E quindi gli altri tuoi progetti: C’è stata una breve parentesi, Bastion.
Hai studiato allora. (ride)
Certo. Credo sia 2009. Vedi quanto ho studiato?
La data non avrei saputo dartela neppure io, ma credo sia giusto.
Quel disco, che ho fatto insieme a Valerio Cosi, è nato sulla chat di Soulseek. Non ricordo come sono entrato in contatto con Valerio, onestamente, però ricordo che c’è stata una fase come ascoltatore e musicista che mi ha mandato in crisi, ed è stata incidere l’album “Dividing Opinions” dei Giardini. Voglio dire, con il senno di poi posso dire che, probabilmente, lì dentro ci sono le migliori cose che abbiamo fatto. Se uno oggi mi chiede cosa ascoltare come prima cosa dei Giardini di Mirò, io gli consiglio quel disco, però portarlo in giro è stato un dramma, una sofferenza atroce. Mi ha prosciugato e mi ha fatto venire molti dubbi su di me come musicista e sui rapporti che avevo con la musica.
Come mai?
Sono andato in crisi perché mi è toccato cantare ed è una cosa che non avevo mai pensato di dover fare e non m’interessava, ma per una serie di motivi dovevo fare. Mi sono caricato il peso sulle spalle, però ho sofferto tanto per tutto quel tour, perché non potevo più dedicarmi alla chitarra e al suono, che è la cosa che m’interessa di più. Poi, con il tempo l’ho superato, ma lì per lì non riuscivo ad uscire da quel momento di estrema tensione. Oltretutto io sono uno che non si ricorda i testi, alle elementari non riuscivo ad imparare le poesie a memoria, figurati i testi delle nostre canzoni. Comunque, al di là di questo, finito quel tour avevo voglia di fare dell’altro e fortunatamente c’è stata la parentesi del “Fuoco” in cui abbiamo iniziato a sperimentare. Nel frattempo però, io avevo studiato altre cose e volevo lavorare con altri suoni. In quel periodo ho cominciato a smanettare in casa, mi piaceva molto lavorare con i droni e mi comprai una loop station con cui campionavo i suoni e realizzavo droni vocali stratificati. Intanto, sempre in quel periodo, ho iniziato a scaricare una montagna di roba, perché volevo studiarmela. Per farlo utilizzavo Soulseek. Cercando i dischi da downloadare sono entrato in contatto con molte persone; Fabio Orsi, Valerio Cosi, Claudio Rocchetti. Gente italiana che si stava muovendo intorno a quel genere che si stava affacciando anche da noi, legata ai droni, per l’appunto, alla musica ambient e alla sperimentazione. Siamo entrati in contatto e ho iniziato a mandare a questi ragazzi i loop che facevo, perché si parlava di fare cose assieme e di provare a mettere in piedi alcuni progetti. Con Fabio Orsi, purtroppo, non siamo mai riusciti a finire un disco, Rocchetti per alcuni suoi dischi ha utilizzato come fonti sonore diversi miei suoni di chitarra, mentre con Valerio Cosi è nato questo progetto, Bastion.
E’ molto lontano nel tempo e lo abbiamo suonato una sola volta, improvvisando quasi tutto il concerto, però è stato uno scambio molto interessante, tanto che con Valerio ogni tanto ci sentiamo ancora.
Perché lo avete suonato una volta sola? Ha avuto poco riscontro?
Quel tipo di cose che facevamo con Bastion, era difficile avessero un grande riscontro, dovevi fare la gemma che s’imponeva, altrimenti restava una cosa molto di nicchia. Dovevi coltivare il nome, fare in modo che la gente iniziasse ad abituarsi e a riconoscerti. Con un solo disco ti perdevi. Poi io sono partito subito con il lavoro legato a “Il Fuoco” e non potevo stare più dietro ai miei progetti.
Oltre a questo, ad un certo punto, Valerio è scomparso nel nulla per due anni. Non riuscivo più a trovarlo nemmeno in rete, non so cosa gli fosse successo. Adesso è tornato presente. Dovrò chiederglielo. Comunque, il progetto si è spento in quel modo. Vedi, io non sono uno a cui piace lavorare da solo, ho sempre avuto la necessità di avere qualcuno con cui collaborare e provare a tirare fuori qualcosa. La condivisione. Quindi, quando Valerio è sparito, io ho abbandonato. Credo che il ruolo delle altre persone, in un progetto, sia molto importante. Fondamentale.
E la tua etichetta?
Secret Furry Hole, che ho fondato con Tommaso Belletti e con la quale abbiamo fatto uscire diverse cose, la maggior parte piccole, ma anche qualcosa di più grosso come un CD tre pollici di Peter Broederick, un’edizione limitata di 200 copie compresa di un mini-book con alcune mie foto, Hauschka, un progetto piano preparato da Volker Bertelmann. Ancora il batterista degli Slowdive, Simon Scott. Insomma, abbiamo e stiamo facendo cose carine. E’ stata una fase molto interessante, vivere un’esperienza dall’altra parte rispetto al musicista. Oggi devo dire che è un po’ più difficile trovare artisti di quel tipo che hanno voglia di fare una cosa così piccola.
Immagino. Quali sono le differenze che noti rispetto, che ne so, a dieci anni fa. Sia a livello di musicista che come proprietario di una label?
La prima cosa te la dico da musicista, anche perché la parte di gestore/proprietario di un’etichetta è veramente un hobby e quindi non l’ho mai fatto con la professionalità necessaria per poter parlare di cambiamenti. Vedo che è molto più difficile oggi, ma vedo anche che è più facile pubblicizzarla. Forse c’è una sorta di stanchezza latente, posso dirti questo. Dalla parte del musicista, invece, posso dirti che per me non è mai cambiato nulla, perché fare uscire un disco per una etichetta indipendente negli anni novanta e farlo uscire oggi, ha lo stesso grado di difficoltà. Cioè, è molto più facile entrare in contatto con le etichette, ma a causa di questo la soglia di difficoltà per essere visti è difficile.
Il primo disco dei Giardini di Mirò è stato pubblicato da una label californiana che si chiama Zum. Come li abbiamo contattati? Io avevo visto che avevano pubblicato un disco che mi piaceva, e lo volevo comprare. Allora ho preso dieci dollari per spedirli negli Stati Uniti. Per nasconderli bene, come avevo imparato a fare ai tempi del punk, li ho messi in una custodia di CD e già che c’ero ho messo dentro anche un demo dei Giardini. L’ho imbucato e dopo un po’ di tempo mi torna indietro il CD con una lettera, la quale recava scritto: “Bello il disco che ci hai mandato. Chi sono? Sono tuoi amici? Li conosci? E’ il tuo gruppo? Nel caso digli di contattarci o contattaci perché vorremmo pubblicare qualcosa di questo gruppo.”
Capisci cosa voglio dire? Era più difficile raggiungere un’etichetta, ma eravamo molti meno e quindi risultava più semplice essere notati. Oggi è il contrario. Quindi, in realtà, le cose non sono cambiate molto. Io non ho mai visto una lira con un contratto discografico anche se, per esempio, “Rise and Fall of Academic Drifting” ha venduto oltre le 10mila copie tra Italia ed estero. Ed oggi quando mi dicono che con i dischi non si fanno i soldi, mi scappa da ridere, perché per me è sempre stato così, non è cambiato nulla.
In che senso non ci hai mai visto una lira?
Nel senso che, alla fine, dopo i contratti, i casini, le vendite e tutto il resto, se ci vedevi duemila euro da un disco, era già tanto. Devo dire che lavorare con Santeria di Audioglobe, essendo un distributore, riusciamo a vedere esattamente quello che vendiamo, siamo coinvolti anche nei passaggi intermedi. Prima non c’era, perché le etichette giovani, anche se avevano un sacco di voglia di fare, erano scassate. Noi in realtà non ci siamo mai preoccupati dei soldi. Non siamo mai stati nemmeno troppo furbi, a dire la verità. Abbiamo fatto sempre tutto con molta passione ed essenzialmente per quella, ma va bene così.
Tu cosa fai nella vita?
Sono da dieci anni dipendente pubblico e mi occupo di campi nomadi.
Ovvero?
Lavoro per i servizi sociali di Reggio Emilia e mi occupo di vedere come funzionano i campi nomadi comunali, quindi quelli aperti dal comune di Reggio Emilia negli anni ottanta, e poi valuto anche tutte le altre aree dove ci sono i i sinti, quindi nomadi di origine italiana che vivono sul territorio di Reggio, che è la provincia dell’Emilia Romagna che ne vede di più rispetto a tutte le altre. C’è un ufficio dedicato.
Molto interessante. Senti Crimea X?
Sì, è un progetto che ho realizzato con Luca Roccatagliati, che è uno storico dj del Maffia di Reggio Emilia, club molto importante alla fine degli anni novanta e inizi duemila. E’ andata che io ho iniziato a frequentare molto il locale, perché due miei grandi amici, tra cui Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax avevano organizzato una serata, che si chiamava Cafè Noir, che si teneva il mercoledì sera, dove facevano concerti e volevano portare in uno storico locale di musica elettronica il rock, ma quello più particolare. Quindi mi avevano chiesto di aiutarli e di collaborare con loro. Noi tre eravamo amici fin da quando eravamo ragazzini e quindi ho accettato e abbiamo fatto questa cosa insieme. Poi loro hanno smesso e io ho continuato a frequentarlo in qualche modo, fino a quando ho iniziato a lavorare alla porta, se non suonavo andavo a strappare i biglietti. Lì ho conosciuto Luca, parlando di krautrock e di John Carpenter, che erano due passioni in comune che avevamo. Ci siamo passati un sacco di dischi, a lui piacevano i Giardini, mio padre aveva lavorato con suo padre, tutte queste cose di conoscenze. Insomma, ci siamo trovati bene e molti anni dopo abbiamo iniziato a suonare insieme. Sono andato nel suo studio con un basso, perché non volevo suonare più la chitarra, dato che la usavo già nei Giardini di Mirò, quindi era troppo. Mi sono detto: “Proviamo a suonare il basso, dato che non lo so suonare.” (ride)
Abbiamo fatto due o tre demo, una l’abbiamo mandata alla Hell Yeah Recording, di Marco Gallerani, che un altro ragazzo che aveva lavorato al Maffia, a lui è piaciuto parecchio e ha deciso di pubblicare un vinile. Da quel momento è nato il progetto Crimea X.
Luca ha deciso di usare il flauto – dato che aveva studiato flauto traverso – ed è venuta fuori questa elettronica cosmica, kraut, molto influenzata da Carpenter. Abbiamo fatto due album, due ep e adesso abbiamo questo show in cui rifacciamo alcuni pezzi di Carpenter reinterpretandone i temi e proiettando spezzoni di film.
Come siete arrivati a fare una cosa dedicata a John Carpenter, è stata solo quella passione comune?
Due anni fa, l’Ufficio Cinema di Reggio Emilia ci ha contattato dicendoci che ogni anno organizzano una serata di suoni e visioni e gli sarebbe piaciuto che a suonare fossimo stati noi. Io e Luca ci siamo guardati e ci siamo detti, all’unisono: “Carpenter.” Perché siamo nati così, con Carpenter addosso. Non avremmo fatto nessun’altra riflessione. Era scritto così: avremmo dovuto fare John Carpenter.
Allora l’abbiamo pubblicata e poi l’abbiamo portata un po’ giro. Per chiudere, ad un certo punto siamo andati a suonare in un posto davanti a 30 persone, una di queste era Luca Benni che è il proprietario di To Lose La Track, il quale ci ha detto che gli sarebbe piaciuto pubblicare un disco con quella roba e noi gli abbiamo detto che, in ogni caso, le stavamo per pubblicare su internet gratis, perché erano pezzi che noi stavamo reinterpretando, semplicemente. Insomma, alla fine ce l’ha pubblicato.
E’ una cosa che ci portiamo dietro dai primi anni duemila e finalmente riusciamo a farla.
Torno indietro nel tempo, un attimo, al Maffia. Tu frequentavi anche le serate di elettronica?
Lavoravo alla porta e collaboravo con il club durante le serate drum n bass e breakbeat. Quelli erano gli anni d’oro del Maffia. Mi sono sentito tanta di quella Jungle che potrei parlarne male all’infinito, era una roba che non mi è mai piaciuta per niente. Però mi piaceva stare lì.
Raccontami del Maffia, appunto, durante i suoi anni più splendidi.
Io lo adoravo per un semplice motivo: perché era un locale di Reggio pieno di gente, ma dove ci trovavi pochissimi reggiani. E’ un controsenso lo so, però in realtà è così. Migliaia di persone si tesseravano ARCI al Maffia, ma non erano residenti, perché i Reggiani non lo frequentavano. Questo è stato, però, anche il suo grande problema, perché quando è finito il periodo della jungle e della breakbeat, la gente ha smesso di viaggiare, poi sono arrivate le leggi sul l’alcol e la guida e il locale ha preso una mazzata fenomenale.
I reggiani, invece, non l’hanno mai capito, l’hanno sempre ritenuto un posto fighetto, di gente che voleva fare il londinese a Reggio Emilia.
Forse perché era proprio un locale molto importante in casa dei reggiani. Gli dava fastidio.
Reggio è un posto strano. Forse dovresti farmi una domanda a parte su Reggio e io ti risponderei in un certo modo.
Che domanda?
Com’è Reggio Emilia?
Ok, vai allora.
Reggio è un posto fantastico da un certo punto di vista, o almeno lo è stato – forse addirittura lo è ancora e io la conosco troppo per poterla guardare da esterno – però è anche un buco di culo in mezzo all’Emilia Romagna, schiacciata da due province che hanno una storia molto più importante della sua; Modena e Parma. Ovviamente non la Parma sbiadita di oggi, ma quella potente e ricchissima di qualche anno fa. Detto questo, Reggio ha sempre avuto una riconoscibilità all’interno della regione molto diversa, ovvero, nonostante fosse più piccola e, in qualche modo più debole, ci vedevi tutti i migliori concerti; ci hanno suonato i Tangerine Dream, i Police e suonavano al palazzetto dello sport. Centinaia di band di una caratura altissima sono passati da Reggio.
Io ho visto gli Sonic Youth alla Festa dell’Unità di paese, quando avevo quindici anni, per 10.000 lire.
A Reggio ci hanno suonato i Clash e fa veramente ridere. A Novellara, che è un paese di diecimila abitanti, in un locale che è un buco veramente – il Ritz – ci hanno suonato Nick Cave e gli Husker Du. Un’altra cosa; facci caso a quanti gruppi sono usciti da Reggio e che hanno segnato la storia dell’Italia. A Parma dopo Verdi si sono fermati. Noi abbiamo Ligabue, Zucchero, i Black Box, i CCCP e in mezzo c’è di tutto, dall’house che ha fatto faville nei primi anni novanta a questi artisti nazionalpopolari. Vuoi mettere da dove sono usciti i Raw Power, il gruppo hardcore-punk più importante d’Italia. C’è stata una produzione musicale incredibile.
Perché secondo te?
Perché la gente ha avuto la possibilità di ascoltare e ha trovato un posto che, siccome non ha avuto un passato glorioso, ha dovuto scriversi un presente glorioso. Nessuno aveva niente da perdere. La gente aveva voglia di sfida e non aveva paura di essere etichettato come il reggiano provinciale.
Ma se tu pensi ai Fratelli Cervi, che sono un po’ l’emblema dell’antifascismo sia italiano, ma anche locale, la famiglia catturata, torturata e poi fucilata nel poligono di tiro della città. Loro, sono anche i primi ad essersi comprati il motore agricolo per coltivare i campi, avevano studiato per capire come rendere i terreni più fertili. E’ la storia di gente ignorante che non aveva un soldi, ma che ha fatto di tutto per emanciparsi. Così abbiamo fatto anche nella musica. Se ci pensi i CCCP non sono la stessa cosa? Attaccare con lo sputo e il filo di ferro il punk all’italiana a temi culturali italiani.
A me Ligabue non piace e non m’interessa niente, però è innegabile che anche lui ha lavorato sull’immaginario e l’ha fatto in un certo modo, partendo da poche qualità e costruendo un prodotto vincente, ma non perché lo dico io. Lo dicono i dati che ha vinto.
Quindi per concludere con il Maffia, a te piaceva e ci stavi bene.
Sì, quando andavo al bar del mio paese sentivo parlare di calcio e di motorini truccati, ma a me non me n’è mai importato nulla. A me piaceva sempre immaginare la vita fuori dal paese in cui vivevo. Trovare qualcosa che non avrei mai potuto avere stando in camera mia o al bar del paese. al Maffia, potevi trovare gli incidenti culturali e cose in grado di influenzarti. A me non interessava la drum n bass, ma mi piaceva l’elettronica. Lì dentro ho ascoltato i Plaid ed è stato fantastico. Quando ero al Maffia, mi sembrava di stare a casa mia, ma anche essere in contatto con il resto del mondo. E’ una cosa stupenda.
Insomma, gli vuoi bene alla tua terra.
Beh, oggi mi fa un po’ incazzare, ma se sono la persona che sono, lo devo alla mia terra e alla gente che ci è cresciuta e passata, con tutti i difetti che ha dimostrato di avere con il tempo. Potrei dirti di no, dirti che fa schifo, ma non è vero. Quello che sono diventato è grazie, in primis alla mia famiglia, ma poi a Reggio Emilia e alla sua storia.
E perché ti fa incazzare adesso?
Perché si sta normalizzando, non ha più nessuna specificità, è uguale a qualsiasi altra città. E’ da anni che non c’è una produzione culturale che abbia qualcosa di vivo. Fino adesso abbiamo parlato di musica, ma anche in altri campi culturali Reggio ha fatto cose non secondarie. Oltre a questo mi fanno incazzare i miei concittadini, perché non gli va mai bene niente.
Sai, è uscito un libro l’anno scorso, “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo. Ecco, Reggio Emilia è diventata così, un paese che desidera essere come tutti.
Io sono cresciuto in un buco di culo che non voleva essere come gli altri: Cavriago. Anzi, si vantava di essere un po’ diverso. Nel suo essere diverso, era l’unico paese occidentale che aveva un busto di Lenin in piazza. In realtà è interessante la storia che c’è dietro quel busto. Cavriago è un paese piccolo con un fenomeno migratorio molto particolare; sono tutti immigrati a Parigi per motivi politici.
Oggi non è più così. Anche Cavriago oggi si è normalizzata.
Spartiti.
Ok. L’ultimo progetto che ho fatto, ma che in realtà è una cosa vecchia. Dal luglio 2013 si chiama Spariti, prima non si chiamava, semplicemente, ma io e Max Collini stavamo facendo cose insieme già da cinque anni. E’ iniziato tutto perché Max era stato invitato a fare un reading a Verona, da solo, ma si sentiva nudo e allora ha chiesto a me di accompagnarlo. Io ho collaborato un po’ con gli Offlaga Disco Pax, ho fatto anche due date del tour di “Socialismo Tascabile”. Inizialmente, lo facevamo uscire come uno spettacolo dal titolo “Droni e Letture quasi tutte Emiliane”.
Nel 2013 l’ARCI di Reggio ci ha proposto di fare uno spettacolo che avesse una forma più riconoscibile e che si concretizzasse anche con la produzione di un uscita, ovvero un libretto con i testi e con un CD dal vivo. Insomma, alla fine abbiamo superato le quaranta date.
Qual è il concetto che c’è dietro a Spartiti?
Non ci abbiamo mai pensato molto, in realtà, sul chi siamo e cosa facciamo. Siamo due amici che hanno un patrimonio culturale molto comune, seppur differente. Ci stiamo simpatici e la cosa funziona. So che può sembrare molto banale, ma è così, non c’è un elaborazione forte. Ci troviamo bene assieme e stiamo bene quando facciamo questa cosa.
So che Max è contento della parte musicale, la trova differente da quella degli Offlaga Disco Pax e questo lo rilassa molto, perché non sente il paragone.
Invece per quanto mi riguarda, m’interessa il fatto che sto lavorando con la lingua italiana ed è una cosa che non ho mai fatto con i Giardini di Mirò, a parte un paio di cose. E’ una cosa molto interessante. Insomma, questo è il mio gruppo in italiano.
Cosa hai pensato, e poi deciso di fare a livello musicale, nel momento in cui Max Collini ti ha chiesto di collaborare con lui?
Alla musica ambient, e Spartiti mi è sembrato il progetto giusto. Poi, ci sono molti modi di concepire e suonare l’ambient, mi sembra bello applicare la narrazione su quel tipo di basi musicali. Lavorare con pochi cambi armonici, generalmente nulla di suonato direttamente dal computer, ma suonato e rigenerato, oppure suonato e riprocessato dal vivo in tempo reale. Chiaramente con il tempo abbiamo aggiunto qualcosa che può ricordare una canzone. Abbiamo fatto anche una cover. Prima erano tutti testi di Max e racconti estrapolati da libri di altri autori. La cover, invece, è un pezzo dei Massimo Volume e anche per me è stata una cosa nuova, perché ho dovuto lavorare sulla partitura di un altro gruppo.
Secondo me ci viene molto bene, è molto bella. Siamo stati bravi, vedo anche che quando la suoniamo dal vivo la gente rimane colpita.
Cosa usi a livello strumentale quando suoni con Spartiti?
Ho una linea di effetti e un mixer da cui passa la chitarra dove filtro anche la voce. Poi ho un piccolo campionatore che ho comprato anni fa su e-Bay e su cui c’erano già delle basi, tra le quali una davvero bella e che non so di chi sia. Infatti, prima o poi mi denunceranno (ride). Tanto secondo me è un campionatore rubato, mi è arrivato con parti mancanti. Comunque, in ultimo uso anche il computer su cui ho registrato delle cose riprocessate.
Senti, ti fermerai mai?
Ogni anno ho un momento di crisi in cui mi dico: “Forse basta, è arrivato il momento di crescere e pensare alla carriera, oppure iniziare a coltivare anche altri interessi oltre alla musica, basta spendere troppi soldi in dischi e in abbonamenti di riviste musicali. Pensare di formare altri gruppi oltre ai cinquecento che ho già pensato o provato a formare. Basta, sono stanco. Sta diventando difficile gestire tutte le idee.”
E cosa ti rispondi?
Io non voglio essere nulla di speciale, ma voglio essere me stesso e quello che sono è questa cosa che vedi, almeno finché ne avrò voglia.
Ogni volta che salgo su un palco, ci sono quei trenta secondi che sistemano tutto, i trenta secondi in cui mi sento, in cui so che ci sono davvero. Pensare di poter perdere quella sensazione è il mio problema. Io credo di essere uno di successo, guarda come sono matto, perché so di aver raggiunto i miei obbiettivi e quelli sono i miei successi. Però quando sono sul palco, in quel momento, so che tutto è perfetto. Tutto è a posto.
Quindi mi rispondo: “No, non ancora.”