I Julie’s Haircut sono in giro da vent’anni. Ottima presentazione. Nel corso della loro carriera sono stati fonte d’ispirazione per gran parte di una certa scena indipendente italiana. Più che altro vengono fuori, come molti altri, dalla famosa scena emiliana. Quella stessa scena che spesso viene bollata come una cosa del passato, ma che mantiene ancora radici solide e viene portata avanti da band valide, come Giardini di Mirò, Offlaga Disco Pax, Massimo Volume (che abbiamo intervistato nelle vesti di Emidio Clementi) e via dicendo. Chiamo Luca Giovanardi, chitarra, voce ed ‘elettronica’ della band, che dal 1994, insieme a Nicola Caleffi, porta avanti un discorso che si lega tanto alle tradizioni, quanto ad un continuo sperimentare e, dunque, cambiare.
La vostra è stata una carriera lunga, dove e come vi siete incontrati, quali sono stati i vostri primi passi, i primi pensieri?
Devo andare molto indietro nel tempo. La primissima incarnazione del gruppo, con la quale non abbiamo pubblicato nulla, era formata solo da tre persone, ovvero io, Nicola Caleffi e Laura Storchi che ha suonato con noi il basso fino al 2005. Noi tutti suonavamo in altre band e avevamo i nostri progetti che, all’epoca, reputavamo anche più importanti. Ci eravamo uniti con l’idea di divertirci fra di noi. Non pensavamo nemmeno di andare a fare dei concerti. Semplicemente, avevamo l’idea di fare un trio molto minimale in cui, renditi conto, io suonavo la batteria. Pensa te. A dire la verità, nessuno dei tre era molto bravo a suonare gli strumenti. Volevamo fare qualcosa con un’impronta alla Velvet Underground, Sonic Youth. Le cose che ci piacevano all’epoca, ma cercando di virare verso quel tipo di noise più contemporaneo. Quindi abbiamo iniziato a registrare i primi demo con il mio otto tracce a nastro. Pensa che tutte le band della provincia venivano da me a registrare.
Avevi uno studio di registrazione.
(ridiamo) Sì, diciamo che avevo una stanza con un registratore, un microfono schifoso ed un mixer brutto e vecchio. Una cosa molto punk, ma che funzionava per farsi le demo caserecce.
Insomma, per tornare a noi, io come batterista non valevo veramente niente e nel frattempo mi sono appassionato alla chitarra. Dunque tirammo in mezzo Giancarlo Frigieri, che ora ha una sua carriera da cantautore davvero bene avviata, ma al tempo militava nei Love Flowers ed era un bravo batterista. Ora purtroppo non può più suonare la batteria perché ha un problema di tendinite abbastanza grave. Comunque, con lui diventammo un quartetto, io passai alla chitarra e iniziammo a girare l’Italia pur non avendo pubblicato ancora nulla.
Poi Giancarlo, come ti ho detto, dovette smettere di suonare la batteria, per cui noi ingaggiammo un altro batterista, Roberto Morselli, e registrammo il primo 7” e il primo album. Il resto è storia registrata. Siamo andati avanti per un po’ con questa formazione, abbiamo fatto i primi tre dischi, poi arrivati al 2005 ci siamo un po’ stancati di scrivere canzoni in forma tradizionale, sentivamo di aver dato tutto sotto quel punto di vista e volevo provare a buttare fuori il nostro lato più sperimentale e quindi approfondirlo. Entrammo per la prima volta in studio, a Bologna, senza aver mai provato niente e senza avere nulla di scritto. Registrammo per tre giorni consecutivi. Con noi c’era anche Andrea Scarfone, che ora fa parte della band in pianta stabile. Da quelle sessioni venne fuori “After Dark My Sweet”, che fu una sorta di nuovo inizio per noi. Una nuova direzione che privilegiava l’aspetto strumentale rispetto a quello lirico.
A proposito di questo, dove siete arrivati dopo e grazie a quel passaggio? Dove siete ora?
Credo che l’ultimo nostro album, “Ashram Equinox” sia il lavoro che meglio riesce a far quadrare tutto quello che abbiamo fatto fin dall’inizio. Recupera una certa dose di scrittura delle melodie, ma applicata in un nuovo ambiente sonoro basato in larga parte sull’improvvisazione sonora. Quello che mi fa molto piacere è che siamo riusciti, dopo un lungo lavoro durato anni, a trovare un modo di scrivere musica piuttosto originale. Questo mi soddisfa. Adesso abbiamo un modo di scrivere canzoni che è atipico. Sostanzialmente partiamo da improvvisazioni lunghe, registrandole in studio, poi lavoriamo di editing e sovraincisioni, riuscendo così ad avere una struttura che ha la forma della canzone, ma che non resta ingabbiata. E’ la nostra caratterizzazione; fare un tipo di musica che non sia solo seghe mentali, ma che abbia della sostanza melodica e armonica pur avendo una forma assolutamente libera, perché non nasce a tavolino.
Poi, è ovvio che continueremo a cambiare nel corso degli album che faremo, perché anche questa è una delle cose che ci caratterizza.
Guarda, ti dico, sarei molto contento se alla fine della storia del gruppo, io potessi guardarmi indietro e capire che, seppure abbiamo attraverso tante fasi diverse, abbiamo una personalità che le unisce tutte. Questo.
Tu parli di libertà espressiva e del non avere gabbie. E’ una decisione che avete preso oppure è stata una necessità?
Come ti dicevo prima, quando abbiamo composto “After Dark My Sweet”, siamo entrati in studio e abbiamo registrato tre giorni. Non avevamo in testa di pubblicare un disco, anche perché non sapevamo cosa sarebbe venuto fuori. C’è un’altra questione, comunque; seguendo questo metodo di sperimentazione, che tutt’ora utilizziamo, abbiamo realizzato che il caso e la fortuna cominciano a giocare un ruolo davvero importante. Non è detto che ti chiudi per tre giorni in uno studio e automaticamente escono cose geniali. Ci sono delle volte in cui si creano delle coincidenze di contesti e di spiriti in cui si viene a creare una congiunzione in cui tutte le note che butti fuori funzionano perfettamente. Succede, è una cosa che capita. Come capita altrettanto spesso che ci si sbatte per due giorni senza cavare un ragno dal buco.
Noi siamo stati stimolati dal fatto che, durante quei tre giorni, abbiamo tirato fuori un album che tutt’ora ci piace molto. Forse eravamo molto stimolati proprio dal fatto di non dover eseguire parti predefinite, ma semplicemente suonare insieme, dal vivo in studio, cercando di incastrare linee melodiche in mezzo a quelle degli altri.
Quindi, per chiudere, abbiamo deciso di andare in studio e provare a fare questa cosa, ma la decisione è nata da un’intuizione che non abbiamo avuto paura di provare. Da allora in poi è diventata la nostra tipologia di composizione che, con il tempo, abbiamo affinato.
E’ stata cercata perché avevamo bisogno di comporre in un certo modo.
Immagino che, per lavorare in questo modo, dovete essere molto uniti fra di voi.
Non è che siamo più bravi degli altri, è che sono vent’anni che suoniamo insieme. E’ una cosa che, perché funzioni, deve avere delle predispozioni, a cominciare dai membri stessi della band. Non è così scontato. In un secondo luogo occorre avere una certa telepatia musicale fra tutti e non credo che sia una cosa raggiungibile in un mese. Ci voglio anni. Oddio, può succedere, magari si trovano le persone perfette che si ritrovano nella stessa band.
Sia chiaro, non sto dicendo che sia un pregio essere vecchi. (ride)
Utilizziamo le cartucce che abbiamo in mano e una di queste è che suoniamo insieme da tanto tempo.
C’è qualcosa che non avete ancora sperimentato e che vorreste fare o che state facendo?
Spero di si. Se tu guardi la nostra discografia puoi vedere che non c’è un disco uguale all’altro. So che può essere considerata, da qualcuno, una mancanza di personalità, e invece io dico il contrario.
Ieri, la mia ragazza mi ha fatto ascoltare un vecchio disco dei Primal Scream e mi è venuto da pensare che loro probabilmente sono l’unico gruppo che ci assomiglia. Non dico stilisticamente, ma come concetto.
Tu ascolti i Primal Scream e ti accorgi che hanno fatto dischi di southern rock, dischi di elettronica sperimentale, dischi dub, dischi normalissimi, indie rock. Hanno fatto di tutto, eppure sono i Primal Scream. Credo che loro siano, come noi, dei grandissimi fan della musica e che trovino noiosa la ripetizione di certi stilemi. C’è gente che è in grado di utilizzare una formula per venti album senza mai scostarsi da questa, ad esempio i Ramones hanno avuto quarant’anni di carriera senza mai cambiare una virgola del loro suono, eppure sono tra i miei gruppi preferiti. Non dico che sia un pregio oppure un difetto, per i Julie’s Haircut funziona diversamente, siamo gente che ha fame estrema di cose nuove e in qualche modo capiamo dove dobbiamo andare soltanto mentre lo stiamo facendo. Non c’è mai una progettualità precedente.
Ultimamente, per esempio, stiamo abbandonando un po’ l’elettronica per riprendere un piglio più elettrico e più rock. Non so perché. Io mi ero annoiato delle cose che facevo con la chitarra, avevo l’impressione di non avere più tantissime idee o di fare cose che avevo già, in qualche modo, fatto precedentemente. Per cui per un paio d’anni mi sono dedicato di più allo studio dell’elettronica e all’utilizzo sia analogico che digitale, perché sentivo che era un tipo di suono che non avevo approfondito abbastanza. Adesso, invece, mi è tornata una voglia pazza di suonare la chitarra elettrica e mi rendo conto che mi stanno venendo molto più idee interessanti quando imbraccio la chitarra, piuttosto che quando sono davanti al sintetizzatore. Immagino che siano periodi e credo che sono cose che devono essere assecondate, perché arricchiscono il tessuto sonoro.
La gente non si deve aspettare delle conferme da noi, non devono aspettarsi di sentire gli stessi suoni del disco precedente. Anzi, noi ci stiamo mettendo addirittura nella difficile situazione in cui quando pubblichiamo qualcosa, ci si attende qualcosa di sorprendente.
E’ curioso.
Se tu vedi questo nostro continuare a cambiare con i nostri occhi, puoi notare che in realtà c’è un metodo e una continuità nel cambiamento.
Da dove avete preso ispirazione in tutti i questi anni? Dico questo perché mi accorgo, come abbiamo detto fino ad adesso, che le vostre influenze sono davvero tante e diverse.
E’ molto difficile rispondere a domande del genere. Io dico sempre che le ispirazioni musicali, per noi, contano sempre meno rispetto alle ispirazioni che ci arrivano da altri media. Ormai credo che siamo stati talmente tanto onnivori a livello musicale – come fan e come ascoltatori – che abbiamo raggiunto un bagaglio di esperienza da ascoltatore che riesce a infondere nella musica alcune cose che nemmeno noi riusciamo a capire da dove arrivino. Una soluzione armonica che, senza rendercene conto, mescola cose completamente diverse fra loro. Per cui quello ha smesso di essere un problema, non credo più che noi assomigliamo a qualcosa di ben definibile, cosa che invece avevamo durante i primi anni. Adesso credo che sia difficile definirci rispetto a qualcosa, è più facile che ti metti lì e mi dici “ah, senti quella chitarra che sapore pinkfloydiano, mentre il sintetizzatore mi ricorda i Kraftwerk. Ormai le cose le abbiamo talmente tanto mescolate. Infatti, noi non parliamo mai di riferimenti musicali, mentre componiamo. invece, ciò di cui parliamo molto sono i film o i libri che, in qualche maniera ci hanno colpito e allora prendiamo ispirazione. Per esempio, talvolta ripartiamo i brani musicali in base alla ripartizioni che ci sono all’interno di determinati romanzi di cui abbiamo parlato. Le influenze sono una cosa molto misteriosa da andare a sondare e sono interessanti solo nella misura in cui diventano inconsce. Nel momento in cui te ne rendi conto, ti accorgi anche che ti stai appropriando di qualcosa che non è tuo.
A proposito di film, le vostre sonorità sono molto cinematiche.
Nel mio caso il cinema mi da anche da vivere. Ovvero, insieme alla mia compagna gestisco una libreria dedicata al cinema. Quindi è una passione molto forte. Andrea Rovacchi è un frequentatore di festival di cinema a livello maniacale. E’ una passione che accomuna tutta la band e, come dici tu, è un’influenza molto forte. Ecco, una cosa che mi piacerebbe fare con i Julie’s è lavorare ad una colonna sonora. Io ho già fatto qualcosa per dei cortometraggi, ma da solo. Credo che noi potremmo dare veramente tanto alla musicalità di un film, se questo fosse sufficientemente interessante.
E’ ovvio che in Italia è molto difficile che questo accada, perché ci sono meccanismi piuttosto chiusi nel mondo del cinema.
Soprattutto in quello italiano.
Sì, ad esempio Teho Teardo, che probabilmente è tra i migliori compositori cinematografici del momento, lo ammette lui stesso che nel momento in cui c’è qualcuno che ha un’intuizione e riesce a realizzare una colonna sonora che si distacca da tutto il resto – come ad esempio è successo a lui – diventa immediatamente un nuovo canone. Tant’è che lui ora si sta trovando ad essere scopiazzato da tutta una serie di compositori che magari costano meno di lui e fanno cose “alla Teho Teardo”, ma senza avere quel tipo di gene musicale. E’ una copia carbone. Però, voglio dire, non basta mettere due beat elettronici, un violoncello e qualche suono ambientale e hai fatto Teho Teardo. Non funziona così, è una cosa più profonda.
Anche perché se Teho Teardo è arrivato ad essere Teho Teardo ci sarà un motivo.
Teho non si è alzato alla mattina e ha detto “ma sì, facciamo una cosa del genere”. Lui ha un’idea sonora importante che qualcuno ha intuito potesse funzionare all’interno del cinema. Il problema è che, nel momento in cui vinci un David di Donatello oppure la colonna sonora risulta particolarmente azzeccata diventa una nuova regola, un nuovo formato. Ora ci sono solo colonne sonore fatte in quel modo. Trovo che sia una cosa incredibilmente idiota. Lui non ha prodotto una colonna sonora “rassicurante” e che tutti potessero riconoscere, ha fatto l’esatto contrario; ha proposto un formato nuovo. Una cosa che nessuno aveva ancora fatto.
Purtroppo la forza di osare, nel cinema italiano, viene esplorata molto di rado.
Il mondo del cinema è molto intricato, molto di più di quello musicale.
Comunque, al di là di tutto, fare una colonna sonora per un film ci piacerebbe molto.
Infatti mi sembra abbastanza strano che qualcuno, magari una produzione indipendente, non ve l’abbia ancora chiesto.
Noi siamo ben disposti. (ride)
Ecco, un’altra cosa importante è che noi non siamo quel tipo di gruppi che si puntano i riflettori addosso. Non andremo mai a bussare alla porta di una casa di produzione proponendogli una colonna sonora. Non siamo capaci. Preferiamo lasciare che le cose accadano.
Cambiamo registro; voi avete visto, vissuto e toccato Reggio Emilia per molto tempo e in un modo piuttosto particolare. Per diversi anni ha ricoperto un ruolo davvero importante nella musica del nostro paese. Com’era e com’è cambiata?
Si parla sempre di Reggio e Modena, ma la verità è che tutte le band più particolari che sono riuscite ad emergere da questa zona, sono in realtà formazioni che arrivavano dalla provincia. I Giardini di Mirò non sono reggiani, arrivano da Cavriago e Cavriago non è Reggio Emilia, così come Sassuolo non è Modena. Io posso parlare per noi e dire che sicuramente essere nati e cresciuti a Sassuolo – una città industriale e ha vissuto della ricchezza dell’industria della ceramica negli anni ottanta, ma anche una città dalla mentalità molto gretta – che è un posto dove si è sempre pensato solo a lavorare e guadagnare soldi. Ecco, da lì è venuta fuori tanta musica anche come reazione a tutto quello che ho appena detto. Se tu non eri uno che aveva l’interesse di fare il piastrellaio, in qualche modo avevi una molla che tendeva a farti scappare da quella realtà. Io vivevo in un quartiere, Braida, dove non c’era niente, solo palazzoni costruiti negli anni settanta e capannoni di ceramica. Se tu vivi in un posto del genere, in qualche maniera sei spinto a cercare la bellezza altrove e, quindi, come reazione fai qualcosa.
Tutte le cose interessanti, secondo me, escono dalla provincia o quantomeno lontano dai grandi circuiti, proprio perché c’è fame di ricerca.
C’è da dire che questo avveniva molto negli anni pre-internet, perché ora la tecnologia credo ci abbia equalizzati tutti. All’epoca non era così, se non vivevi nella grande metropoli andavi incontro ad una sorta di isolamento sociale. Le cose belle nascevano da gente che si metteva in testa di voler fare un gruppo come The Cure, ma eri soltanto uno che viveva nella provincia emiliana – come anche quella milanese o di qualsiasi altra parte d’Italia – e allora veniva fuori un certo tipo di roba che era molto peculiare, perché tu non avevi niente a che fare con The Cure. La tua idea di rappresentarli era sicuramente fallimentare, ma in quel fallimento magari t’inventavi uno stile che era del tutto personale.
Onestamente fatico a trovare gente che sia venuta fuori dalle grandi città come Reggio, Modena o Bologna. Trovami un bolognese vero, per lo più le ossature di queste band erano formate tutte da gente che arrivava in città per fermarsi a studiare all’Università e che poi si è inventata il lavoro del musicista.
Adesso viviamo tutti a Reggio o a Modena o a Bologna, ma siamo tutta gente che non è nata e cresciuta qui. Anche i Giardini di Mirò vivono quasi tutti a Reggio, ma sono gente di provincia.
Tu mi chiedi com’è cambiata, ma io non so risponderti. Vivo qui da dieci anni, ma ancora adesso non ho le idee molto chiare di come funzionino le cose. Credo che in questo modo, grazie soprattutto al lavoro che sta facendo Olivier Manchion degli Ulan Bator, il quale ha aperto un posticino dove fanno concerti privilegiando band locali, è riuscito a tirare fuori un sacco di gente che non sapevo nemmeno esistessero. Ora, non che tutti facciano cose interessanti, ma effettivamente comincia ad esserci un certo fermento. Questa è una cosa che io ho visto sempre mancare a Reggio. Non c’erano posti dove suonare, dove vedere band della zona e capire cosa facessero. Non c’era nessun tipo comunicazione tra i musicisti.
Invece ora, grazie al progetto di Manchion e del Collettivo Arzån, delle cose iniziano a vedersi. Si sta creando una comunità di musicisti.
Ciò che credo sia cambiato molto è l’approccio alla questione artistica, un tempo c’era molta più fame culturale, voglia di esprimersi, esigenza e urgenza. Ora noto che i tempi sono cambiati e la curiosità ha pochissimo spazio. E’ tutto immediato e quindi la curiosità è soddisfabile nel tempo di un click. Questo rischia di generare una certa pigrizia culturale e creativa.
Per sviluppare quel tipo di creatività musicale vincente, oggi, occorre fare uno step superiore rispetto ai tempi in cui noi siamo nati come band.
Senti, ma l’elettronica nei vostri dischi? Me lo accennavi prima.
Guarda, è da qualche anno che io, per suonare, uso Ableton Live e devo dire che imparando ad usarlo bene posso dire che, finalmente, c’è qualcosa che funziona bene e ti permette di utilizzare l’elettronica in maniera organica all’interno di una live band. Noi utilizziamo tante macchine analogiche in fase di registrazione, invece per le versioni che suoniamo live io sono l’addetto a fare un lavoro certosino di campionamento di tutti i suoni che utilizziamo. Questo è importante perché è impossibile pensare di portare in tour tutta l’attrezzatura analogica che abbiamo, girando noi con un furgone con sette persone. Sono motivi pratici.
Quando troviamo il suono analogico giusto io faccio quel lavoraccio di mettermi a campionarmi nota per nota, le dinamiche, tutto il resto e metterlo poi su Ableton, in modo che possa avere esattamente il suono che ho utilizzato sul disco. Stessa cosa succede per dei campioni e dei loop che lanciamo. Sembra che stia facendo pubblicità a Live, ma in realtà è un software che mi ha aiutato molto. Finalmente ho la possibilità di avere uno strumento elettronico che è schiavo del mio batterista e non viceversa.
Credo che “Ashram Equinox” sia l’album che ha avuto la parte più preponderante di elettronica, nonostante abbiamo utilizzato Moog e sintetizzatori anche nei dischi precedenti. Per cui le chitarre hanno cambiato la loro natura all’interno delle nostre produzioni, sia per il ruolo che ricoprono sia per i fraseggi nelle canzoni, l’elettronica ha preso molto più spazio rispetto ad un tempo. Detto questo, c’è da dire che l’elettronica che usiamo nelle nostre canzoni e piuttosto vecchiotta. Utilizzo device più moderne soltanto sui campioni d’ambiente filtrati che spesso la gente scambia per chitarre distorte e invece sono registrazioni fatte al bar della stazione. (ride)
Comunque voi, anche quando non suonate con strumenti elettronici, avete un certo concetto di elettronica all’interno della stesura dei vostri pezzi.
Questa è la lezione che abbiamo imparato dal kraut-rock tedesco e non solo, perché prima ancora siamo stati appassionati di soul e funk. Secondo me il vero inventore di questo tipo di cosa è stato James Brown; l’ossessività di un riff, il non cambiare mai un accordo, il ripetere la stessa figura ritmica per sedicimila battute sempre uguali. Non esistevano le drum machine e quindi lo faceva fare alla band. Questo è, in qualche modo, quello che facciamo anche con i Julie’s Haircut, ovviamente la ripetizione è un elemento molto importante nella nostra musica, per quanto ci sia più organicità rispetto all’elettronica pura.
Allora, proviamo a sfatare un mito, è proprio il cantante dei Julie’s Haircut lo scemo che Max Collini degli Offlaga Disco Pax cita e non cita in Tono Metallico Standard?
Lui effettivamente si riferisce a me, però ha anche un po’ scazzato il tutto, perché nella mia testa il cantante dei Julie’s Haircut è Nicola, se proprio ce ne deve essere uno.
Io di questa cosa che lui racconta nel testo, non ne ho nessun ricordo. Lui giura che è successo e la racconta dal suo punto di vista, ovviamente. Secondo me c’è stato un grande fraintendimento, se mai la cosa sia successa, perché io proprio non me la ricordo. Però sarò onesto, sono talmente distratto che non posso nemmeno escluderlo. Se fossi una persona più lucida avrei maggiori armi nel mio bagaglio per dirgli “no, guarda sei un contaballe”, ma invece non posso escluderlo. (ride) Però credo che lui abbia frainteso qualcosa che io ho detto. Adesso i rapporti con Max sono anche buoni. All’epoca non lo conoscevo e poi sono cose di cui non mi frega niente. Devo dire che inizialmente mi stava un po’ sul culo, perché pensavo che questa cosa non fosse mai successa. Però poi è passato tutto. (ride)