Mo’ vediamo come va a finire: sì, siamo molto curiosi di capire quale successo avrà questo nuovo album dei Justice. Perché i due francesi sono stati e sono i cocchi per eccellenza dei fashion victim di mezzo mondo, quelli che hanno sdoganato l’electro come colonna sonora preferita nei party gonfi di hipster (o wannabe hipster). Non solo: hanno sdoganato perfino un immaginario molto tendente all’heavy metal tra persone che, sinceramente, l’Ozzy dei bei tempi se le incontrasse per strada se le magnerebbe a colazione (Gaspard e Xavier stessi compresi), con disprezzo.
Stiamo sfottendo un po’ i Justice? Sì, li stiamo sfottendo. Ma non per scarsa stima della loro musica: per quanto molto, troppo ispirato dai Daft Punk, il loro primo album è una delle cose più incisive uscite nel campo dell’elettronica che ambisce ai grandi numeri negli ultimi anni, ed il successo che ha avuto è meritato. Il problema è quello che gli gira intorno: l’indotto di, appunto, hipsterismo che loro per primi hanno voluto, creato, calcolato, e non diteci di no.
Ora ci riprovano con “Audio, Video, Disco” e i casi sono due: o è una sfida estrema di manipolazione, o è un suicidio inconsapevole (o entrambe le cose, effettivamente). Già: perché se riciclare l’immaginario indie rock o o heavy metal fra gli sciami di modaioli in cerca di un’estetica da seguire o riverire poteva avere successo, e lo ha avuto, perché in fondo proprio i più fighetti sono attratti dalla possibilità di indossare immaginari o slavati o dal crasso cattivo gusto senza doverne sopportare il vero peso (il vero metallaro puzza, rutta e scoreggia, l’efebico studente dello IED con addosso la maglia dei Black Sabbath passa mezz’ora davanti allo specchio prima di uscire e profuma di violetta: se gli chiedete di non lavarsi, sviene), al contrario la sfida rappresentata da questo nuovo lavoro è invero folle: sdoganare il prog rock anni ’70. Ovvero la musica dei nerd musicofili per eccellenza, la cosa meno di moda si possa immaginare nel 2011 (ma anche nel 2001 e nel 1991, e pure nel 1981), il genere ascoltato da chi non esce mai di casa ed è, insomma, uno sfigato vero per i canoni hipsterici. Per altro, un genere che ha dato anche dei frutti bellissimi, a partire dai King Crimson – citati esplicitamente ad esempio nell’intro di “Canon”.
Ora: i bassi distorti e poderosi ci sono, la qualità produttiva pure, i richiami agli anni ’80 (una coperta di Linus, per molti) non mancano, e fondamentalmente appena senti le prime note lo riconosci subito che è un disco dei Justice. Potevano però cavalcare l’onda nu electro daftpunkiana che loro stessi hanno contribuito a creare e no, non l’hanno fatto: questo gli va riconosciuto. Si sono imbarcati infatti in qualcosa di un po’ più complesso, con più note, più riff, con richiami storici – per quanto assai semplificati e bignamizzati – più da sega intellettuale musicologica che accattivanti e fashionizzabili. Se hanno ragione loro, renderanno luccicante e modaiolo tutto ciò con la sola imposizione del loro marchio e del loro tocco, e sarà un mezzo miracolo; ma se hanno torto, questo disco sarà ricordato come un flop. Personalmente, riteniamo sia un buon lavoro: non geniale e non innovativo ma interessante e ben fatto, dove l’abituale loro tronfia retorica da “siamo i re della club culture” viene mitigata dall’evidente voglia di seguire proprie passioni musicali prima ancora delle convenienze immediate.