C’è voluto il proverbiale fiuto di Flying Lotus per portare allo scoperto Kamasi Washington, uno dei migliori talenti del nuovo suono americano, sottraendolo a quella che sarebbe stata una carriera da talentuoso comprimario per nomi altisonanti del ‘Black Star System’ come Kendrick Lamar, Raphael Saadiq, Snoop Dogg e regalandogli un posto di assoluto rilievo in quell’olimpo che sta riportando il jazz tra le nuove generazioni di ascoltatori accorti. Il monumentale ‘The Epic’ esce col doppio marchio Brainfeeder/Ninja Tune e, in tre ore spalmate su triplo cd e vinile, regala al trentaquattrenne di Inglewood la possibilità di esprimere tutte le sfumature del suo universo sonoro. Dentro c’è la lezione cosmica di Pharoah Sanders e Sun Ra ma anche la militanza afrocentrica di John Coltrane e Roland Kirk, senza elitarismi di maniera. Il suo poliedrico sax sa essere nervoso, onirico, scattante ed evocativo e trova sempre la chiave giusta per l’unisono con fuoriclasse della scena west coast, come Thundercat, Cameron Graves e Ryan Porter. Certo: qualcuno aveva letto il suo nome nei crediti di ‘To Pimp A Butterfly’, altri lo avranno notato come prezioso turnista accanto a leggende musicali del calibro di George Duke e McCoy Tyner, o in tour con Lauryn Hill, Mos Def e Quincy Jones ma è con questo importante lavoro discografico che l’omone tutto tuniche sgargianti, barba lunga e medaglioni sta segnando l’immaginario musicale black. In vista dell’imminente tour italiano (al Locomotiv di Bologna lunedì 9, al Monk di Roma il giorno successivo e al Tunnel di Milano l’11) lo abbiamo raggiunto telefonicamente a Los Angeles, la sua base operativa, per una bella chiacchierata che ora potete leggere ascoltando il mix che Mixology ha registrato mettendo insieme alcune delle tracce più suggestive dell’album e le collaborazioni celebri di Kamasi Washington con tanti artisti come Quantic e The Gaslamp Killer.
La prima volta che abbiamo letto il tuo nome è stato nei crediti dei lavori di Raphael Saadiq e Mos Def. Come ci sei arrivato? So che sei cresciuto in una famiglia di musicisti. Dicci qualcosa del tuo background musicale.
Mio padre è un musicista jazz e anche mia madre suona, seppur principalmente per diletto. Ho cominciato a studiare musica dall’età di tre anni, prima imparando a suonare la batteria e poi prendendo lezioni di piano. Al sassofono sono arrivato un po’ più tardi, a tredici anni. Da allora ho cominciato a prendere la musica davvero sul serio. Mi sono iscritto a una scuola di Los Angeles, la Hamilton High School Academy, per giovani musicisti che vogliono entrare nel mondo del professionismo. Subito dopo la scuola ho cominciato a suonare con Snoop Dogg e ho messo su una band con gli amici di corso, The Young Jazz Giants, per la quale ho iniziato a scrivere musica originale. Contemporaneamente suonavo con Chaca Khan, Freddie Hubbard, George Duke… molti musicisti in altrettanti contesti. Nel 2010 Flying Lotus mi ha chiesto di cominciare a pensare un disco per la sua Brainfeeder, lasciandomi totale libertà artistica di immaginare qualsiasi cosa io volessi realizzare. In conseguenza del fatto che, comunque, non ho mai smesso di andare in tour con i musicisti con cui stavo lavorando mi ci sono voluti due anni per finire quel disco.
Sei arrivato all’hip hop e al r’n’b attraverso il jazz o il percorso è stato inverso?
Il jazz è sempre stato nella mia vita. La mia casa era piena di dischi e strumenti. Ma sono cresciuto con l’hip hop della west coast, ascoltando artisti come N.W.A., Ice Cube, Snoop Dogg, Dre, 2pac. Era la musica che suonava tutto intorno al mio quartiere e con la quale una generazione intera stava maturando. Poi, ad un certo punto, è accaduto che uno dei miei cugini mi facesse ascoltare un mixtape con solo tracce di Art Blakey. Ecco: quello è stato il vero e definitivo ingresso nelle profondità del jazz, come una porta che si apriva verso un mondo che avevo sempre avuto attorno ma che non mi ero ancora preoccupato di conoscere a fondo. Da quel momento mi sono tuffato nell’ascolto e nello studio di John Coltrane, Miles Davis e, contemporaneamente, ho scoperto che il sax stava diventando il mio principale strumento di espressione, col quale mi sentivo totalmente a mio agio. È così che la musica è diventata la cosa più importante della mia vita.
Quest’anno hai arrangiato gli archi e suonato il sax su ‘To Pimp a Butterfly’ di Kendrick Lamar e hai fatto uscire il tuo debutto triplo ‘The Epic’. Come ci si sente ad essere l’anello di congiunzione tra due dischi così importanti?
Devo dire che sto vivendo un momento meraviglioso. Della collaborazione con Lamar ho appezzato soprattutto il fatto che lui abbia lasciato il proprio spazio e una grande autonomia artistica ad ognuno dei musicisti con i quali ha collaborato, chiedendo a tutti di spingere al massimo il proprio impegno creativo nel disco. Il risultato è così potente anche perché puoi sentire artisti di gran talento come Thundercut e Flying Lotus dare il massimo. Il punto di contatto principale che vedo tra quel disco e il mio è che anche io ho immaginato questo lavoro come un progetto corale, nel quale è stato fondamentale il contributo portato da ognuno dei tanti musicisti che hanno lavorato con me.
Più volte ti sei espresso pubblicamente elogiando l’ultimo disco di Kendrick Lamar. Dal tuo punto di vista, a parte le famose 600.000 copie vendute in tre mesi, cosa rende fondamentale ‘To Pimp a Butterfly’?
Mi pare evidente che esso combini in maniera strepitosa armonie, ritmi, melodie, texture sonore e liriche. Il modo in cui queste componenti sono state amalgamate tra loro è assolutamente unico e da al lavoro un carattere decisamente potente. Un’altra cosa rara che è accaduta con questo album è che ogni singola persona che ci ha collaborato è stata accreditata con gran cura, per una volontà specifica e personale di Kendrick stesso.
Considerando che hai dovuto scrivere e arrangiare tre ore di musica per un coro da 20 cantanti e un orchestra da 32 elementi, ci hai impiegato poco a registrare ‘The Epic’. Come hai fatto?
È divertente se pensi che mentre lavoravo a quel disco, almeno per il primo periodo, ero ancora impegnato in vari tour. La verità è che io stavo pensando e suonando la musica finita in ‘The Epic’ davvero da molto tempo. Dentro questo disco c’è la mia vita intera. Con i miei collaboratori siamo riusciti a restare chiusi in studio per un mese intero, registrando almeno il doppio della musica che è finita nella versione in commercio dell’album. Un altro fattore importante è stato che molti dei musicisti che hanno registrato con me per questo disco non sono solo collaboratori ma amici con i quali suono da molti anni e con i quali sono cresciuto nell’area di Los Angeles. Uno dei momenti motivazionali fondamentali è stato l’uscita dell’album di Thundercut: a quel punto ci siamo detti che era fondamentale far uscire la musica alla quale stavamo lavorando sodo da tanti anni. Ecco perché dico che ‘The Epic’ è solo un assaggio del nostro viaggio sonoro.
Sarei curioso di conoscere come ha funzionato una tipica sessione di studio durante le registrazioni di ‘The Epic’.
Considerate che il nucleo principale di musicisti era composto da otto persone oltre me. In quel periodo ognuno di loro era impegnato nella registrazione di almeno un altro disco. Per fortuna il mio bassista è un tipo molto metodico. Si è preso lui la briga di organizzare tutti gli incastri orari e gli impegni di ognuno di modo da ottimizzare i tempi di lavoro. Ogni giorno arrivavamo in studio alle dieci del mattino. Dalle undici alle quindici registravamo per il mio disco e dalle sedici ognuno entrava in sessioni di registrazione differenti. È stato un periodo duro e un lavoro stancante ma il risultato è che siamo riusciti a registrare davvero molte ore di buona musica.
Per me ‘The Epic’ è il viaggio cosmico di un guerriero afroamericano. Riesci a spiegarmi perché ho maturato questa sensazione dopo circa cento ascolti della versione in triplo vinile?
Come dicevo, questo album mi rappresenta pienamente. Nella mia vita, come in quella di molte persone che conosco, la politica è una componente importante e quotidiana che emerge come una urgenza appena cominci ad analizzare a fondo i problemi che ti circondano.
In ‘Malcolm’s Theme’ rileggi alla tua maniera l’elogio funebre al leader della Nation Of Islam, scritto dal regista-icona del cinema afroamericano Ossie Davis. Pensi sia appropriato descrivere ‘The Epic’ come un disco politico anche se, per buona parte, è strumentale?
Malcom X è sempre stato nella mia vita e devo lui a molto della mia maturazione personale. Quando cresci da afroamericano a South Central, Los Angeles, puoi sentire quotidianamente una pressione così forte che è capace di trascinarti in una pericolosa spirale di negatività prima che te ne renda conto. Per strada vedi soprattutto gangster, gente strafatta e tante cose brutte. La bellezza e la positività sono cosa rara in quel contesto. La prima conoscenza con Malcom X l’ho avuta leggendo la sua autobiografia. Quel libro mi ha completamente cambiato la prospettiva attraverso la quale guardavo quella situazione che avevo intorno. Ecco perché ho voluto quella traccia nel mio disco: sperando che ascoltandola qualcuno abbia una esperienza simile alla mia. Sono convinto che quella lezione così profonda valga tanto, ancora oggi.
Credo che un altro modo di guardare al tuo album sia quello di leggerlo come la trasposizione in musica di un Olimpo personale, nel quale rendi omaggio ai tuoi eroi. Penso a brani come ‘Henrietta’, ‘Cherokees’, ‘The Magnificent 7’. Possiamo parlare di un concept album da questo punto di vista?
Il presupposto di partenza del disco era che rispecchiasse, nella maniera più organica e veritiera possibile, la mia vita e la mia visione. Dato che mi vedo come il risultato di una serie di influenze fondamentali che ho avuto incontrando certe persone, certi artisti, e nutrendomi della loro arte è stato assolutamente naturale, per me, tributare loro il dovuto omaggio. Per aver fatto di me quello che sono ora.
Quando ho aperto, per la prima volta, il pacco speditomi dalla Ninja Tune ho notato subito questo poster con l’artwork di Woolf Haxton intitolato “Change of the Guard”, proprio come il titolo di una delle tracce contenute in ‘The Epic’. Ci racconti la storia dietro questo progetto?
Abbiamo registrato ‘The Epic’ in due sessioni temporali diverse. Nella prima di queste ci siamo immersi tutti insieme in studio per un paio di settimane, cancellando molte date dei nostri rispettivi tour; nella seconda ho registrato molte cose da solo. A quel tempo avevo messo a fuoco una decina di pezzi e l’idea era di fare uscire un solo disco. La prima di quelle canzoni era proprio “Change of the Guard”. In quei giorni continuavo ad ascoltarla ossessivamente, per capire cosa correggere e migliorare, e deve essere accaduto qualcosa che ha lasciato traccia nel mio subconscio. Mi piacciono molto i fumetti e i film di arti marziali e così è capitato che, una notte, io facessi questo strano sogno nel quale c’era un villaggio sotto una montagna, sormontato da una porta e l’unica cosa che gli abitanti di questo villaggio facevano era darsi il cambio a guardia di quella porta. Questo sogno ha cominciato a tornare ciclicamente nelle mie ore di sonno e la storia si arricchiva ogni volta di nuovi particolari, diventando una specie di racconto epico. Ho interpretato questi sogni come premonitori: non dovevo tenere nessuna delle composizioni alle quali stavo lavorando fuori dal disco. Non dovevo scegliere poche tracce per fare un album che fosse una sintesi, perché ognuna di loro era una componente fondamentale del racconto. Ecco cosa c’è dietro quell’immagine, il titolo di quella canzone e quello dell’intero disco.
Trovo molto affascinante questo respiro epico del tuo lavoro. Si traduce in immagini e suoni in un modo che pare molto organico.
La musica che sentite in ‘The Epic’ e le immagini che lo accompagnano sono solo una piccola parte del progetto complessivo. In realtà sto già lavorando ad una storia a fumetti che racconto l’intera visione emersa con quei sogni e quelle premonizioni. Mia sorella, che è una artista visiva molto brava, sta lavorando ai disegni. Io e la mia band stiamo pensando ad una ideale colonna sonora che parta dalla musica del disco. Anche se voglio specificare una cosa: alcune delle composizioni che potete ascoltare in ‘The Epic’ risalgono, addirittura, al 2002. Inoltre, dall’anno di registrazione del disco, il 2011, abbiamo registrato un sacco di nuova musica che ora capiremo come e dove far uscire. Infine stiamo lavorando ad un documentario sull’album e il tour mondiale in corso.
Credi che sia merito della collaborazione con la Brainfeeder di Flying Lotus se la tua musica e il tuo disco sono diventati motivi d’interesse anche fuori dalla scena del jazz d’avanguardia? Ti vedi come un musicista crossover?
Sicuramente è merito di Flying Lotus e della sua fantastica squadra se questo disco sta avendo tali consensi e riscontri. Uno dei meriti principali della Brainfeeder è stato quello di coltivare un pubblico di appassionati dalla mentalità molto aperta. Ogni singola uscita della label ha rappresentato un frammento importante e innovativo di un progetto artistico complessivo. Io faccio jazz da prima che anche solo i primi fan mi ascoltassero o conoscessero. Chiamo jazz qualcosa che non so definire in una maniera più precisa, dato che dentro ci sono davvero tanti elementi differenti che provengono da contesti musicali disparati. Riguardo alla definizione, che comunque mi piace, credo che tutta la musica sia crossover per natura. A volte, poi, il pubblico che ascolta è più crossover della musica stessa, per cui attraversare i generi è l’atteggiamento più naturale.
La componente magica e cinematica dentro la tua musica la rende perfetta colonna sonora per film immaginari. Ti piacerebbe lavorare sulla componente musicale di una produzione cinematografica?
In realtà, negli anni, qualche volta mi è capitato di lavorare alla composizione di colonne sonore per cortometraggi e documentari. Sicuramente mi piacerebbe molto e mi interesserebbe lavorare sull’idea di una vera e propria colonna sonora, per un progetto di più ampio respiro.
Se dovessi provare a descrivere in maniera sintetica la tua musica parlerei di una “energia calma”. Ti interessa un livello di ascolto legato al subconscio?
Credo che questo sia quello che avviene nella nostra parte più intima e profonda quando ascoltiamo musica che ci colpisce. Spesso ci sforziamo di raccontare la musica, di etichettarla, di dare dei titoli che possano essere evocativi perché quella musica possa essere rappresentativa di qualcosa. Io credo, però, che la musica venga da qualcosa che è contemporaneamente dietro e oltre questi nostri sforzi. Il livello reale al quale essa comunica con le persone è, certamente, un livello subconscio, quindi fuori dal controllo dei musicisti come degli ascoltatori. Accade ai primi nella fase di scrittura e ai secondi nel momento dell’ascolto: l’esperienza della musica è sempre qualcosa di più profondo rispetto agli sforzi di comunicazione e rappresentazione che ci facciamo attorno.