Ora lo si può dire. Ora lo si può davvero dire. E non solo perché una volta il calendario ha fatto sì che la cosa avesse un senso cronologico: ma ora davvero si può finalmente assistere, per certi versi, ad un “passaggio di consegne” reale e non farlocco tra un festival italiano e il Sónar. Il festival catalano è alle porte, inizia infatti domani 18 luglio (eccezionalmente, invece delle solite date di metà giugno), il Kappa FuturFestival è invece terminato invece da una decina di giorni: ecco, mai come questa volta abbiamo avuto in Italia un evento di statura mondiale, non solo a livello di qualità – perché di festival di qualità in Italia ce ne sono parecchi – ma anche a livello di numeri e grandiosità produttiva, un festival capace di parlare da pari a pari coi grandi giganti mondiali di pregio.
Il percorso di crescita e di maturazione del nostro più grande evento open air nazionale dedicato a house e techno è impressionante, soprattutto se analizzato con attenzione e in maniera diacronica. Ormai tutta una serie di vecchi pregiudizi hanno smesso di avere senso: poi certo, i motti, frizzi e lazzi di Realh Clebbers sono sempre divertenti, noi per primi ci scherziamo sopra, ma il dato di fatto è che l’aria che si respira al Parco Dora è riuscita a mantenere sì la propensione al divertimento e la mancanza di snobismo che l’ha sempre caratterizzato (insomma, un festival “popular” e non per fighetti), ma forse anche per l’incredibile innervatura di presenze straniere – quest’anno, ad occhio, almeno un terzo dei presenti arrivava da fuori Italia, un dato che nessun’altro evento del genere dalle nostre parti può vantare – non c’è mai stata la percezione di aggressività, di maleducazione, di tamarrismo fine a se stesso. La vibrazione, nei due giorni dell’evento, è stata veramente ma veramente bella. Lontana mille anni luce dalle brutture che, purtroppo, hanno reso famosa l’Italia nel campo del clubbing… o almeno, di un certo tipo di clubbing con un certo tipo di artisti. E ci siamo capiti.
Non si arriva per caso, a questo risultato. Non si arriva per caso ad avere il 30% e passa di presenze straniere (parliamo di stime ad occhio: i dati ufficiali potrebbero essere ancora più generosi). Lo dovrebbero sapere bene gli altri che dalle nostre parti ci hanno tentato e ci tentano ancora; e chiarissimo in tal senso l’esempio dell’Home Festival di quest’anno, che si è trasferito a Venezia, ha iniziato a postare su Facebook solo cose in inglese con immagini lagunari da cartolina (poi beh, il festival era in un parco a Mestre, ma ok…), ha messo su una line up poderosissima (una delle uniche quattro date del 2019 di Aphex Twin: hai detto nulla, ed è solo un esempio fra tanti), insomma, in teoria ha fatto tutto quello che doveva fare ma il risultato alla fine è stato tendenzialmente catastrofico (come abbiamo raccontato qui e qui, e come abbiamo riscontrato da molte testimonianze, che rendono un po’ troppo nordcoreano il comunicato ufficiale fatto circolare a fine festival).
Non si arriva per caso, a tutto ciò. Si arriva investendo. Si arriva dopo anni. Si arriva sopportando delle perdite nella fase iniziale. Si arriva credendo nella necessità di trovare partner stranieri e collaborazioni efficaci anche a livello comunicazione. Si arriva offrendo sempre uno spettacolo di livello (la base di partenza c’era già: l’incredibile bellezza paleo-industriale del Parco Dora, qualcosa che ogni volta ti lascia a bocca aperta). Si arriva capendo che questo spettacolo di livello va però ogni anno migliorato in qualcosa: ingrandendo, affinando. E quest’anno il Kappa FuturFestival è stato davvero grande come non mai: il “quarto palco”, che l’anno scorso era stata una novità interessante ma con dei problemi, quest’anno si è ingrandito diventando in molti frangenti un vero e proprio co-Main Stage (quando ci hanno suonato la Lens e Cox, per dire). L’edizione dei record – si parla di 60.000 presenze complessive, e sono dati che suonano veritieri, al contrario di quelli che vediamo girare per altri eventi – ha comunque portata ad una esperienza per l’utente più che buona: file sotto controllo, passaggi fra un palco e l’altro praticamente sempre fluidi, approvvigionamento di cibi e bevande corretto, sistema di pagamento con card (o bracciale) che ormai sta diventando un’abitudine virtuosa, ed è sicuramente preferibile ai token (anche se è adottabile solo quando si hanno economie di scala grandi, sennò è un salasso senza senso; per quanto riguarda i token, non sono comunque una “truffa” come molti dicono – si vede che non viaggiano all’estero – ma una necessità per un evento con vari punti cassa e che magari vuole pure offrire la possibilità di pagare digitalmente).
(un video recap di questa edizione 2019; continua sotto)
Non abbiamo ancora parlato di musica? Vero, non abbiamo ancora parlato di musica. Ma questo non perché sia stata deludente, in questa edizione 2019. Anzi, abbiamo riscontrato una qualità media alta praticamente in tutti, l’unica delusione forse è stato il gruppetto legato al Fuse londinese che ha proposto una tech-house da cui ci si aspettava molta più personalità e molta meno routine. Per il resto però hanno suonato tutti bene, e se ovviamente Amelie Lens non suonerà mai come Gerd Janson è altrettanto vero che qui la Lens dà il suo meglio e si sente a suo agio (…così tanto da acconsentire a sostituire, last minute e con un set a sorpresa, la paccara Peggy Gou, che ormai comunica meglio e più tempestivamente con Instagram che con i suoi agenti e i promoter), e altrettanto fa comunque Janson, che anzi al FuturFestival arriva concedendosi a un back to back con Prins Thomas (partito all’inizio perfino un po’ troppo quasi-techno, poi quando hanno mollato gli ormeggi è stato meglio). Difficile fare una classifica dei migliori: dovendo elencare una sorpresa diciamo che personalmente da Boris Brejcha non ci aspettavamo granché ed ha tirato invece fuori uno dei migliori set del festival, per giunta sul Main Stage, risultando perfino ben più efficace del Vitalic che lo seguiva dopo in line up.
Ma soprattutto, se c’è un vincitore da questa edizione 2019 del festival (oltre che il festival stesso nel suo insieme, come spiegavamo), questo è sicuramente Enrico Sangiuliano, zero dubbi: nel momento in cui ci siamo fatti una lunga chiacchierata con lui qualche mese fa avevamo già il sentore che “qualcosa stava succedendo” e sì, il Kappa di quest’anno ne è stata una dimostrazione plastica ed impressionante. Messo a suonare nel palco più assolato alle 16 del pomeriggio (ma in un festival così già gli slot dalle 14 iniziano ad essere “pesanti”…) sotto una canicola assassina, ha iniziato davanti a un centinaio di persone e ha finito di fronte a, boh?, almeno cinquemila. Quel che più conta, era palese che fossero tutti veramente, veramente contenti di essere lì e per certi versi era altrettanto palese che quanto questo fosse per lui una consacrazione: non più simpatico nome marginale esoticamente italiano per Drumcode, ma invece artista a tutto tondo che afferma con forza il fatto di avere un suono “suo”, di saper costruire un dancefloor, di avere una visione personale della techno, di gestire con enorme maestria frequenze, armonizzazioni, equilibri melodici quando necessario e, soprattutto, di essersi costruito senza scorciatoie una fanbase reale (ed internazionale) che lo ama, lo conosce, lo apprezza e lo supporta.
Tutto questo non coi post su Instagram a favore di brand o ammicco-con-hashtag ma nemmeno facendo ormai il personaggio teatrale di sé, come invece fa il Villalobos, uno che a questo punto potrebbe suonare anche lo stesso disco per un’ora (beh, spesso lo fa…) ma in un modo o nell’altro, oh, te la svolta sempre bene, ti dona sempre il buonumore. Quest’anno a Torino ha fatto ancora di più, visto che la console era veramente un caravanserraglio di persone che irradiava presabbene con lui centro gravitazionale carismatico e sorridente, e guest star assoluta un signore – una specie di Julio Iglesias marpione, pronto ad offrire da bere a tutti – che a quanto pare era suo padre, oh yes.
Il punto è questo: siamo sicuri che riascoltato in registrazione il set di Ricardo sia in realtà un po’ mah, ma vi assicuriamo che lì per lì erano contenti tutti – ed è bene ricordare che la regola numero uno del clubbing non è essere intelligenti, ma essere divertenti e divertirsi (…poi chiaro, l’intelligenza e la qualità aiutano a divertirsi bene; ma qua siamo già ad uno step successivo del discorso).
(per dire: questo era il palco “minore” di quest’anno; continua sotto)
Ma ecco, in generale – tolta l’eccezione che dicevamo qualche paragrafo più su – hanno suonato tutti a modo, a partire dagli artisti arrivati in quota-brand, vedi Anabel Sigel per Burn e Stomp Boxx per Jägermeister, solida e preparata nel campo tech-house la prima, interessante e vario nel territorio techno il secondo. In passato gli artisti che salivano “per forza” sul palco era una specie di tassa da pagare; ora invece sono pure loro un valore aggiunto. E non parliamo di Lollino, che proprio passando per la vittoria della prima Burn Residency mondiale ha finalmente dato una “scossa” al suo profilo, passando da simpatico “djetto” locale torinese buono anche a portare molti amici vista la sua socievolezza per l’arrivare invece ad essere, come effettivamente è, uno dei più interessanti e talentuosi (e coinvolgenti!) dj italiani in campo tech-house. Poi chiaro: lui non è uno che si prende sul serio, pure su di lui ci saranno sempre i motteggi di Realh Clebbers (su cui riderà e commenterà lui per primo), ma l’esperienza Burn ha finalmente iniziato a rendere giustizia ad un dj/producer che può avere veramente qualcosa da dire, non solo su scala italiana.
Scala italiana che ormai non c’entra nulla col Kappa FuturFestival, in definitiva. Loro, ormai, giocano nella serie dei grandi. Nella serie dei Sónar, dei Time Warp, degli Awakenings, dei Nuits Sonores, cose così. Non ci sarà magari la componente “arty” che piace alla gente che piace, ma francamente pensiamo che l’equilibrio sia proprio quello giusto: e in realtà la stessa gente-che-piace-alla-gente-che-piace, venisse al Parco Dora, alla fine si divertirebbe, si troverebbe gran bene, l’atmosfera positiva che ormai si respira è contagiosa ed è lontana mille anni luce dall’aggressività cupa e tamarra ma non solo, lo è anche dalla ieraticità di chi un giorno idolatrava la Perlon schifando la commerciale, poi il Berghain schifando la minimal, ora il Dekmantel schifando il Berghain (…oppure l’Atonal, schifando il mondo intero). Credeteci, questa è una gran bella, liberatoria sensazione.
(Anabel Sigel in azione; continua sotto)
…una delle tante belle sensazioni che la “edizione più grande di sempre” di Kappa FuturFestival ci ha dato. E’ stata veramente tale: non solo nella quantità, ma anche nella qualità esperienziale. Non vediamo l’ora arrivi l’edizione dell’anno prossimo, già; e se per puro caso Torino riuscirà a perdersi pure questa (ci sono già comitati di quartiere che si lamentano, per la musica – che finisce a mezzanotte – e per la quantità di folla che si raduna nel quartiere), allora veramente le vette di masochismo ed idiozia sfonderanno ogni metrica possibile. Puoi andare a dormire a mezzanotte invece che alle dieci, due giorni all’anno; puoi poterci mettere cinque minuti in più a trovar parcheggio sotto casa, due giorni all’anno. Soprattutto se tutto questo significa lavoro, medaglie per la città, impresa, divertimento delle persone, internazionalità, innovazione, buone vibrazioni. Ovvero tutto ciò che rappresenta il vero investimento per il futuro, quello di qualità, mentre una città vuota e silenziosa dalle otto di sera trecentosessantacinque giorni all’anno in realtà non porta a un cazzo, e mai lo farà, soprattutto ora che FCA sta un po’ a Detroit, un po’ ad Amsterdam, un po’ nell’immaterialità degli indici di borsa e del lavoro globalizzato.