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[tab title=”Italiano”]Ci sono pochi artisti che nella musica elettronica possono vantare una carriera di oltre trent’anni, la maggior parte dei quali rimane ancorata al culto che li ha resi famosi, quello del vinile, cercando di resistere ad un sempre più torreggiante approdo dell’era digitale applicata al djing. Chris Clayton, in arte Karizma, ha sempre invece considerato la tecnologia un fido alleato per migliorare le proprie qualità come entertainer, mantenendo fama di funambolo tanto dietro i giradischi che, soprattutto, di fronte ai CDJ, divenuti per lui un’autentica arma con cui stendere il dancefloor a colpi di cut, loop e scratch. Il suo è un racconto che spazia tra Baltimore Bump, The Basement Boys, il grande amico di sempre DJ Spen, momenti duri ed un album di addirittura 37 tracce. Abbiamo avuto occasione di farci quattro chiacchiere ed abbiamo trovato un ragazzo che, dopo tutto questo tempo, non ha ancora perso la scintilla.
Prima di tutto vorrei partire dove tutto è inziato: Baltimora. Se ci pensi, non è esattamente il primo posto a cui si pensa quando si vanno ad analizzare le città che hanno fatto la storia della musica elettronica negli Stati Uniti. Eppure tu ed artisti come Spen, Teddy Douglas, DJ Oji, Neal Conway e DJ Pope siete riusciti a mettere il cosiddetto “Baltimore Bump” sulla mappa. Qual è stata la scena musicale in cui sei cresciuto? E poi come è cominciato tutto?
Devo dire che abbiamo avuto una storia musicale tutt’altro che povera. Partendo per esempio dal fatto che tutti i grandi del jazz sono passati a suonare da queste parti, James Brown aveva era il proprietario di una stazione radio di qui. Inoltre avevamo New York, Philadelphia e Washington DC a farci da corollario, quindi immaginerai che la forbice musicale da cui trarre ispirazione a quel tempo era tutt’altro che risibile. Quindi direi che tutte queste influenze unite ad un po’ del nostro tocco personale hanno portato al risultato che tutti hanno potuto ascoltare.
Qual è stata la chiave per riuscire ad esportare il vostro suono anche fuori dai confini cittadini?
Il fatto di avere rapporti costanti con persone ed artisti che vivevano al di fuori dei confini della città è stata senza dubbio la chiave di volta.
In particolare ci piacerebbe discutere dei The Basement Boys, che abbiamo avuto il piacere di vedere riuniti lo scorso anno al Southport Weekender, e l’omonima etichetta, che ha ospitato alcuni degli artisti e performer che hanno fatto la storia dell’house mondiale. Come è nata la tua relazione col gruppo ed in che modo sei finito a farne parte?
A quel tempo alla moglie di DJ Spen piaceva molto il modo in cui mettevo i dischi e mi chiese se ero interessato a collaborare con loro. Quella è stata la chiave per entrare nella crew dei Basement Boys. In quel momento oltretutto stavo già producendo musica tramite un altro progetto (UNRULY) dove facevo Baltimore club music, quindi la transizione fra le due cose è stata fortunatamente molto naturale.
Un altro progetto a cui sei stato molto vicino è stata la Jasper St. Company, personalmente una delle cose che più mi ha colpito vedere dal vivo negli ultimi anni. La dimostrazione che gospel ed house possono non solo convivere, ma persino fondersi in qualcosa di davvero energetico e meraviglioso. In fin dei conti tanta dell’influenza della black music nasce proprio dalla centralità nell’infanzia di molti della musica gospel. Sei d’accordo con questa affermazione?
Sono fermamente convinto che un sacco di ottima musica sia venuta fuori dall’ambiente legato alla Chiesa e al gospel.
Andando a sfogliare la tua discografia notiamo che nei tuoi primi anni di carriera fino quasi agli anni 2000 hai dato meno sfogo al tuo talento da un punto di vista produttivo, concentrandoti maggiormente sul djing. E’ così?
Non è così, mi sono sempre dedicato alla produzione musicale. Il fatto è che fuori da Baltimora non è stato possibile ascoltare ciò di cui parlo. Quando ero più giovane avevo una residency in un club dove provavo molte delle tracce che producevo, alcune delle quali sono anche state pubblicate in periodi successivi.
Proprio in relazione a questo discorso, le tue skill ai giradischi (prima) ed ai cdj (poi) sono da anni uno dei tuoi punti di forza. Tanto da valerti il ruolo di Pioneer Pro DJ nel 2010. Qual è stato il tuo processo di apprendimento e come si è evoluto anche e soprattutto il tuo modo di approcciare le nuove tecnologie che negli ultimi anni hanno rivoluzionato il mondo del djing?
Non credo di aver fatto niente di sensazionale se non per il fatto di considerare il CDJ non solo come un lettore con cui riprodurre la mia musica, bensì come un vero e proprio strumento musicale. Ho sempre cercato di mantenermi al passo coi tempi in termini di tecnologia per non rischiare di cadere nel dimenticatoio.
Se c’è un nome che più di tutti è stato accomunato al tuo è quello di Sean Spencer, ai più noto come DJ Spen. Come descriveresti il tuo rapporto con lui? E quali sono stati i momenti significativi che hanno segnato (positivamente o anche negativamente) la vostra sinergia?
Siamo fratelli musicali. Non penso esista un modo migliore per definire il nostro rapporto.
Nel 2013 è uscito il tuo ultimo album “Wall Of Sound” che conteneva addirittura 31 tracce nella sua versione stampa e ben 37 in quella digitale. Sappiamo che nel periodo immediatamente precedente avevi messo in discussione tutta la tua carriera, trovandoti di fronte ad un bivio: smettere o continuare. Ci piacerebbe capire cosa passa nella testa di un artista in quei momenti. Quali sono stati i meccanismi mentali che ti hanno portato dal pensare di ritirarti al comporre 37 tracce? Ci sono state delle persone che ti sono state particolarmente di aiuto in questo processo?
Francamente non ci trovo nulla di sbagliato o inaudito nel produrre 37 tracce. Molti artisti compongono un sacco di materiale che poi non confluisce interamente in un album e nel mio caso invece è rimasto tutto. Per quanto riguarda quel periodo è semplicemente una fase personale e, credimi, ad ogni artista capita di attraversare un periodo di cambiamento e di messa in discussione, ma quello di cui mi sono reso conto è che ogni volta che qualcuno smette di produrre musica l’asticella, in termini di qualità, tende ad abbassarsi.
Abbiamo letto che durante la creazione di “Wall Of Sound” avevi addirittura pensato di nominare le tracce con il giorno in cui erano state composte, un po’ come a voler tenere una sorta di diario di bordo. Perché hai poi deciso di non andare fino in fondo con questa idea?
In effetti può sembrare un po’ eccentrica come idea, ma allo stesso tempo credo che sia anche interessante lasciare qualche briciola di pane riguardo a come si è sviluppato un album durante la sua creazione ed a come i puntini si sono uniti piuttosto che metterlo semplicemente sul tavolo come prodotto finito e tanti saluti.
Durante la tua lunga carriera immagino che ti siano rimasti nel cuore parecchi luoghi. Ci piacerebbe sapere quali sono stati quelli dove hai sentito di poter suonare davvero qualsiasi cosa ti venisse in mente, senza timore di non essere capito.
Devo dire che presso che ogni venue giapponese in cui mi sono esibito possa essere la mia favorita.
Terminiamo questa bella chiacchierata con una domanda di prospettiva: cosa vede oggi Karizma nel suo futuro?
Nel mio futuro vedo la possibilità di continuare a puntare su me stesso e la mia musica e soprattutto mi piacerebbe investire tempo insieme ad altri artisti. Fare da mentore è qualcosa a cui, col passare del tempo, mi sono appassionato sempre più. Mi piace molto l’idea di poter trasmettere alle nuove generazioni un po’ della mia conoscenza.[/tab]
[tab title=”English”]There are only few artist who could gather a 30+ years career in electronic music business, and most of them are still keeping the faith in the old school way of spinning tunes, aka vinyl, trying to keep themselves relevant out of the always increasing digital takeover. Chris Clayton, aka Karizma, has always regarded technology as a staunch ally to improve himself as an entertainer, maintaining his tightrope reputation from turntables to CDJ, which have become his genuine weapon with which he can easily roll out the dancefloor with cuts, loops and scratch. Karizma’s one is a story that ranges through Baltimore Bump, The Basement Boys, his all time “musical brother” DJ Spen, doubtful times and a 37 tracks album. We had the opportunity to have a talk and what we’ve found is an artist that, even after three decades and more, has not yet lost his spark.
First of all I would like to start where it all started: Baltimore. If you think about it, it is not exactly the first place you think of when you go to analyze the cities that have made the history of electronic music in the United States. Still you and artists as DJ Spen, Teddy Douglas, DJ Oji, Neal Conway and DJ Pope have managed to put the so-called “Baltimore Bump” on the map. What was the music scene in which you grew up? And how did it all begin?
We have a rich history of music, I mean all of the jazz greats used to come and play here, James Brown owned a radio station here, we had NY, Philly, Washington DC surrounding us so they was a rich pool of music to get inspired from. So I guess with all of these influences and our own touch…and this is what you hear.
What was the key to export your sound as well outside the city limits?
Have relationships with people and artists outside of Baltimore was the key.
In particular we would like to discuss The Basement Boys, that we have had the pleasure to see gathered last year at Southport Weekender, and the homonymous label, which hosted some of the artists and performers who have shaped the history of House music. How did your relationship with the group started and how did you get to be part of it?
DJ Spen’s wife at the time really liked what I was doing dj wise and thought we should work together, so that was my introduction into Basement Boys. I was already working on my production skill via another group (UNRULY). I was doing in Baltimore Club Music, so it was kind of a natural progression.
Another project that you have been very close to was the Jasper St. Company, personally one of the things that most impressed me to see live in recent years. That was the proof that gospel and house can not only coexist, but even merge into something really energetic and wonderful. In the end part of the influence related to black music could come from the centrality that gospel has had in many artists’ childhoods. Do you agree with this statement?
I really think that a lot of good music comes from the roots of church.
Browsing your discography we’ve noted that back in the day (almost until the 2000s) you have given less outburst to your talent from a productive point of view and you focused more on DJing. Is it true?
No, I was always producing. it’s just that outside of Baltimore you didn’t hear it. I had a residency where I was testing a lot of stuff that eventually came out after that period.
Just in relation to this topic, your skills with turntables (first) and CDJs (then) have been one of your strongest points. Enough to avail yourself the role of Pioneer Pro DJ in 2010. What was your learning process? And how have you approached the new technologies that in recent years have revolutionized the world of djing?
I don’t think I was doing anything different except that I didn’t look at the CDJS as just a player for my music, rather it was an instrument. I always keep up with technology because I don’t want to be left behind.
If there is a name that most of all has been linked to yours is that of Sean Spencer, best known as DJ Spen. How would you describe your relationship with him? And what were the significant moments that have marked (positively or negatively) your synergy?
We are musical brothers, that’s the best way I can put it.
In 2013 you released your last album “Wall Of Sound” that contained 31 tracks in its printed version and even 37 in the digital one. We know that in that period you were questioning a lot about your career, lying in front of a crossroad: to quit or to continue. We’d like to understand what goes through the mind of an artist during those moments. What were the mental mechanisms that brought you then from thinking of retiring to compose 37 tracks? Were there any people that have been especially helpful in this process?
For me I don’t think it’s unheard of. A lot of artists do a lot of material that doesn’t make the album. For me it was personal because every artist goes through a period of change and self doubt, but I realized for everyone who stops doing music the bar gets lowered on what is quality.
We read that during the creation of “Wall Of Sound” you had even thought to name the tracks with the days in which they were conceived and composed, like it was a little logbook. Why have you decided not to go through with this idea?
It maybe weird but I think it’s cool when you find out little tidbits about albums or stories about how things came to be instead of just putting it all out there.
Throughout your long career, I imagine that many venues have remained in your thoughts. We’d like to know which ones were those in which you felt you could really play anything you could think of, without any fear of not being understood.
Pretty much anywhere in Japan is my favorite venue.
Ending this nice chat with a perspective question. What does Karizma see in his future today?
My future is to keep pushing myself musically and to push other artists. Mentoring is also something I have gravitated to. I like passing on what I know to the next generation.[/tab]
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