Beat Machine è decisamente una delle etichette più interessanti nate negli ultimi anni in Italia (…e con uno standard, va da sé, che va ben oltre il “Bravi per essere italiani” ma si inserisce in un solco globale, come giusto che sia). L’uscita di DayKoda ci aveva stregato, facendoci sbilanciare moltissimo, e a distanza di un anno riconfermeremmo le stesse identiche parole, anche a mente fredda. Disco spettacolare. Il progetto Karu, collettivo ideato&guidato dal polistrumentista Alberto Brutti, per certi versi ripercorre traiettorie simili: la musica black presa dal passato e portata nell’iper-futuro. Lo fa con piglio più “musicologico” in certi frangenti, in maniera magari meno scintillante, ma il suo “Kuru” è molto, molto, molto denso ed interessante. Abbiamo già scritto “molto”?
Tanto per riannodare i fili, i DayKoda (aka Andrea Gamba) e Karu (progetto figliato da Alberto) non solo stanno sulla stessa label ma hanno anche collaborato ad un pezzo di questa nuova release, “Zaliwa”, che siamo felicissimi di offrirvi qui in anteprima. Molto facile vi incuriosiremo e vi ingolosiremo: settate allora i vostri calendari sull’1 ottobre, data d’uscita ufficiale dell’intero EP (o album breve), dove le tracce sono tutte davvero interessanti (compresa la “footworkizzazione” di “Upya” nel remix di Guedra Guedra). Qui sotto la traccia; ma visto che Karu è un progetto che merita fin da subito di essere approfondito, abbiamo strappato un po’ di parole ad Alberto. Perché “strappato” sia un verbo adatto, lo potete leggere dalla prima risposta… Molto contenti di averlo fatto!
Partirei con ordine, ed inizierei col tuo background. Anche perché a leggere le press release attorno a Karu vedo che le “nascondi” un po’. Si parla genericamente di “contrabbasso jazz” e poi di “conservatorio a Roma”. Ti va di fare un racconto/ resoconto un po’ più particolareggiato?
Premetto che faccio fatica a parlare di me e della mia vita privata, e per questo nella press release mia è descritto solo a grandi linee il mio stile musicale e l’idea che ne scaturisce. Sono cresciuto in una famiglia in cui la musica ha sempre preso parte della quotidianità: difatti, oltre a me, anche mio fratello e i miei quattro cugini condividono questa passione e stile di vita. Ho vissuto per molti anni a Roma, ed ho frequentato il Conservatorio Santa Cecilia dove mi sono diplomato in contrabbasso jazz; sono stati anni molto importanti per la crescita della mia persona, soprattutto in ambito artistico. Ho avuto l’opportunità di suonare con persone che mi hanno dato tanto a livello umano e non solo, partendo dall’ambiente del Conservatorio, agli incontri nei vari locali romani, alla mia vecchia casa in via Tuscolana. Roma rimarrà sempre la mia seconda casa.
Altra cosa che non appare nella press release: nei miei radar eri apparso prima di tutto come collaboratore di CRLN. Come è stata questa esperienza, molto lontana – almeno apparentemente – sia dai conservatori che dal jazz?
La collaborazione con CRLN è stata sicuramente costruttiva nel mio percorso da musicista. Ho scritto insieme a lei i brani di “Precipitazioni”, un lavoro che tuttavia si distacca molto dal progetto Karu.
Quanto è importante oggi fare parte di una scena? E far vedere chiaramente di farne parte?
Penso sia fondamentale per la nascita di movimenti musicali avanguardisti, che oggigiorno sono in minoranza, soprattutto nel nostro paese. Il mainstream ha avuto un forte impatto nella nostra cultura, e questo secondo me ha indotto ad un impoverimento a livello artistico/culturale. Inevitabilmente bisogna cedere a compromessi in questo campo, ma spero che, in un futuro, la fruizione della musica sia più libera da parte di tutto il sistema comunicativo e di produzione (label, radio, riviste, televisioni, festival…); questo per far sì che le varie sfaccettature della musica stessa prendano forma ed entrino piano piano nel nostro sistema culturale e, di conseguenza, nella nostra quotidianità. E lo facciano nella loro interezza, nella loro ricchezza, nella loro complessità. Un’utopia?
Qual è stato l’iter produttivo di “Kuru”? Quanti, quali e per quali vie e compiti sono stati i musicisti coinvolti?
Ho iniziato a comporre “Kuru” circa due anni fa: sono rimasto follemente attratto dal nome di questa malattia e dal suo significato tribale. Il kuru, in alcune zone della Nuova Guinea, viene identificato come un demone che si impossessa delle persone, rendendole schizofreniche e in casi estremi cannibali, e l’unico modo per accompagnare il malato nella guarigione è quello di circondarsi intorno a lui e ballare per scacciare via il demone. Ho cercato quindi di creare il mio rituale nella composizione dei suoni come fosse un mantra, per dare vita a tutto quello che volevo dire e che finora ho sempre fatto fatica ad esprimere. In questo percorso, sono stati di grande aiuto le persone che hanno preso parte alla registrazione dell’album ovvero: Mario D’alfonso (sax), Andrea Di Nicolantonio (chitarra), Cristiano Amici e Piera Zacchigna (batterie e percussioni). Ho seguito il metodo del “sampling my self”, ovvero ho campionato i miei strumenti e gli strumenti delle persone citate partendo da una semplice jam, per poi suonare fisicamente il tutto tramite Ableton e l’utilizzo di campionatori.
Quanto è profondo ancora il confine tra jazz ed elettronica? Sono due musiche nate profondamente diverse, ma che hanno tutte le potenzialità per influenzarsi sempre di più a vicenda (sempre di più, e sempre meglio). Corollario della domanda: quali sono secondo te le collaborazioni più riuscite, ad oggi, tra jazz ed elettronica?
In fin dei conti non penso ci sia un forte divario tra questi due mondi. Stiamo parlando di movimenti artistici che si sono influenzati fin dal secolo scorso: partendo dall’assunto che per musica elettronica si intende “utilizzo di strumenti elettronici”, basti citare album come “Bitches Brew” o “On The Corner” di Miles Davis; o anche “The Black Saint And The Sinner Lady “ di Charles Mingus (siamo agli inizi degli anni 60’), in cui il processo di “editing” è stato applicato in campo jazzistico in maniera geniale. Ad oggi, J Dilla ha creato uno stile e un sound in cui artisti come Flying Lotus ne hanno fatto un movimento o con artisti splendidi come Sam Gendel (sassofonista che ha inciso per Austin Peralta): il suo album con Sam Wilkes “Music For Saxophone And Bass Guitar” è davvero meraviglioso. Un altro musicista a cui sono personalmente affezionato è Makaya McCraven, un batterista e producer che spazia tra hip hop e jazz: il suo metodo del campionare se stesso mi ha ispirato molto, e il suo album “In The Moment” è un qualcosa di unico.
Come vedi il circuito più tradizionale del jazz? La mia impressione è che i musicisti siano molto più aperti, come attitudine, degli ascoltatori… E come vedi invece le scene elettroniche? Quanto è alto il rischio che siano troppo “sensibili alle mode”?
Durante la mia permanenza a Roma ho frequentato poco gli ambienti “tradizionali” jazzistici, ovvero locali dove si suonano per lo più standard. Non so come dirlo, ma sentivo molto di più la concezione e lo spirito “jazz” nell’elettronica, e passavo quindi le mie serate altrove. Penso che il pubblico vada educato nell’ascolto di entrambe le forme musicali. L’elettronica è un mondo vastissimo, così come il jazz: siamo abituati a racchiuderli in macro-categorie, quando sarebbe bello assimilarne ogni forma e sfaccettatura.
Abbiamo il piacere di presentare in anteprima “Zaliwa”. Come è nata questa traccia? Chi ci ha suonato?
“Zaliwa” è nata qualche tempo fa, nei pressi della mia casa a Grottammare nelle Marche. Tutto è partito da una grande jam con Mario e Andrea. Dopo un lavoro di editing e sampling, ho passato la traccia nelle mani di DayKoda, che ha concluso il tutto con il suo sound micidiale. Spero vi piaccia!