Nel 1989, Prince pubblicava “Batman”, colonna sonora del primo film sul super-eroe (Jack Nicholson fa Joker): non un disco fondamentale tra quelli di Prince, eppure uno dei più belli, dei più riusciti e dei più divertenti dopo “Purple Rain” e “1999” e sicuramente meglio di “Graffiti Bridge” e dei successivi.
Non era un capolavoro “Batman”, eppure ha girato e gira ancora, fiero, sul giradischi a distanza di trent’anni. L’hype, il delirio da social, le campagne marketing di attesa, i comunicati stampa sensazionalistici in cui si annuncia che un producer ha messo il culo sulla poltrona dello studio per iniziare a lavorare ad un album che uscirà (nella migliore delle ipotesi…) dopo due anni – Purity Ring recentemente, o i Chromatics – hanno sempre più stabilizzato l’obbligo apparente di pubblicare in serie solo capolavori o dischi brutti, dimenticando i dischi normali.
Nella mia personale definizione, i dischi normali sono quelli che ascolti senza particolare attenzione, senza particolare concentrazione, per intenderci: i BoC. per intenderci non faranno mai un disco normale, nemmeno Squarepusher, nemmeno Aphex Twin. Sono dischi normali però quelli di Sampha, di Bonobo; potremmo discutere di “Wonky” degli Orbital, rimanendo nell’indecisione tra un disco normale per me e un capolavoro per altri. Anche “R.A.M.” dei Daft Punk era un disco normale, nonché prima vera vittima dell’obbligo da capolavoro di cui parlavamo prima.
Piccola domanda però, un invito ad una riflessione: quante volte negli ultimi periodi avete sentito un disco bello, complicato, tecnicamente ineccepibile e quante volte avete sentito un disco “normale”? Siamo nell’ambito delle opinioni, tra nerdismo, ossessione e, appunto, normalità. Nella mia personale visione mi capita spesso di scrivere di grandi dischi, parlandone come di capolavori, e di ascoltarli tuttavia molto meno dei dischi di cui scrivo poco, ma che alla fine mi accompagnano nelle 29 fermate di metro quotidiane di A/R lavorativo che faccio ogni giorno.
(eccolo, il Kaytranada “normale”; continua sotto)
Ecco spiegato, in questo prologo più lungo della recensione stessa, perché Kaytranada con “Bubba” ha fatto un disco normale ma bello: pronto a deludere chi desiderava il capolavoro, a bruciare nei purgatori dell’intellettuale-per-forza, e al tempo stesso però a divertire chi senza troppe aspettative voleva un disco con cui arrivare a Natale, con cui fare interminabili code alla cassa di Hoepli per comprare il libro di Gio Ponti a Milano o mentre si scrollano avidamente le immagini di Forgotten Architecture imparando di architettura radicale e brutalismo.
Quello di Kaytranada è un disco per vecchi breaker con l’artrosi, un album per vecchi tromboni di quarant’anni e più che hanno fatto petting con l’hip hop e che nel pot-pourri di samples, vocalizzi e mini groove ritroveranno se stessi. E tutti gli altri? Materiale leggero per imparare l’arte del beatmaking senza arrangiamenti sofisticati (e magari imparando ad usare whosampled.com).