Partiamo da una nota personale: una delle giornate più belle che abbia passato in vita mia. Il matrimonio di un amico, in Germania, in aperta campagna, terminato con una festicciola alle cinque del mattino con qualche decina di hardcore raver a ballare musica messa dai Modeselektor (sì, esattamente loro) da una console da feste delle medie e fra i ballerini, a danzicchiare tutto allegro i primi Depeche Mode più pop, quel Daniel Miller che dei Depeche Mode è stato lo scopritore. Ma un altro effetto&ricordo prezioso di quella giornata è aver stretto amicizia con Nicolas Bucci, un autentico privilegio. Da quella sera siamo rimasti in contatto, e piano piano mi si è dispiegato davanti il patrimonio delle sue conoscenze musicali e delle sue attività: in primis, per quanto riguarda queste ultime, Kiosk Radio, a Bruxelles. Una gran bella storia, una situazione particolarissima, in Italia forse inimmaginabile (riconducibile forse a Radio Raheem, per fare un paragone di casa nostra, ma con più ricaduta sulla città e molto più appoggio delle istituzioni). Fra pochi giorni Kiosk Radio, nelle strategie-da-pandemia, vara l’operazione Outsiders: un modo per coinvolgere strettamente oltre quaranta realtà mondiali di altissimo livello, fra le “unit” più qualitative per diffondere lo spirito e la sostenza della club culture migliore e più autentica. L’occasione perfetta per approfondire con Nicolas, in un’intervista davvero molto interessante, tutta una serie di aspetti. In attesa che l’Italia diventi un po’ come il Belgio, come Bruxelles: in fondo, sognare è gratis e lo si può fare (per ora) anche senza Recovery Fund.
Andiamo per ordine: prima di tutto raccontaci di te, di come ti sei ritrovato immerso nella musica e, poi, di come invece ti sei ritrovato a Bruxelles.
Partirei dicendo che sono cresciuto a pochi chilometri dalla Riviera romagnola. Tra i miei maestri, oltre a Baldelli, cito spesso David Love Calò e Nicoletta Magalotti (NicoNote): gli anni passati al Cocoricò e in particolare al Morphine – che purtroppo ho vissuto soltanto nei suoi ultimi anni – sono stati per me la formazione musicale più importante. Ed è proprio a Bruxelles che ho ritrovato l’ecletticismo e l’apertura musicale di allora. Un amico di Lille mi ha definito qualche anno fa un “…ex eurocrate italiano convertito intelligentemente in direttore artistico”. Credo riassuma perfettamente quello che è successo. Prima di occuparmi a tempo pieno di musica, lavoravo nella politica internazionale ed è proprio la “Eurobubble” che mi ha portato a Bruxelles. Però dopo qualche anno, il grigiume dell’Eurocrazia non sono più riuscito a tollerarlo. Ho deciso di tentare la sorte, di cambiare direzione e concentrarmi sulla musica, da sempre la mia unica vera passione. Pochi mesi dopo aver abbandonato la mia carriera “seria”, sono stato assunto come direttore artistico da un piccolo locale molto conosciuto a Bruxelles: il Bonnefooi. Locale che poi mi ha aperto tantissime strade, da Kiosk Radio a Forest Sounds Festival e Listen! Festival, di cui ho curato la programmazione musicale negli anni scorsi.
Com’è vivere a Bruxelles? E’ una città fuori dalla mappa abituale della club culture più celebrata ma, oltre ad essere ad un tiro di schioppo dall’Olanda e da Anversa, luoghi fondamentali in tal senso, in realtà ha anche qualche carta da giocare di per sé, dall’impressione che mi sono fatto andandoci.
Dici bene, Bruxelles è (inspiegabilmente) esclusa dalla mappa abituale della club culture. Non solo credo che abbia qualche carta da giocare, ma credo che negli ultimi anni sia diventata una delle migliori città europee in quanto a nightlife. Bruxelles secondo me è il punto d’incontro perfetto tra Amsterdam e Berlino, tra il Garage Noord e il Griessmühle (pace all’anima sua) – per citare due club che mi hanno colpito profondamente. A Bruxelles puoi trovare la stessa qualità e ricerca che trovi ad Amsterdam mantenendo l’anima ruvida e tagliente di una notte a Berlino. Anima che spesso ad Amsterdam si perde, tra gli spazi eccessivamente strutturati, puliti e fin troppo poco DIY. Basti pensare che, prima del Covid, le istituzioni locali hanno permesso a Kiosk Radio di organizzare veri e propri rave pomeridiani con migliaia di persone nel parco principale della città. Cosa impensabile ad Amsterdam, e sempre più difficile persino a Berlino.
Quanto è difficile occuparsi di musica, arte e cultura in Belgio e, nello specifico, a Bruxelles? Sai, fa abbastanza impressione vedere Kiosk Radio supportata dalla Municipalità di Bruxelles e anche dalla Regione a cui appartiene la capitale…
Credo che il Belgio sia uno dei paesi Europei che più supporta la cultura in senso lato. Ospita una miriade di eccellenze internazionali, dall’arte alla danza contemporanea, dal teatro d’avanguardia alla moda, fino ad arrivare al circo. Per quanto riguarda la musica, quello che più mi ha impressionato è che i finanziamenti pubblici non finiscano solo nelle tasche di pochi attori ben connessi con la politica e più commerciali – da italiano è difficile da credere. Kiosk Radio, un progetto nato solo tre anni fa, sta già ricevendo supporto da quasi tutte le istituzioni principali del paese. Ed è anche grazie agli attori pubblici che siamo riusciti a crescere costantemente ed in maniera organica. Un episodio in particolare mi ha lasciato sbalordito qualche anno fa. Nei mesi precedenti la prima edizione di Forest Sounds, Charles Spappens, assessore alla cultura del Comune di Forest (che finanzia il festival), mi disse: “Non ho mai sentito nominare nessuno degli artisti che proponete, ma mi fido ciecamente di quello che fate”. Mi chiedo quanti assessori in Italia avrebbero la stessa umiltà e lo stesso coraggio. È soprattutto grazie a questa apertura mentale che siamo riusciti a creare qualcosa di autentico e ad arrivare a 15.000 presenze in soli tre anni, con una programmazione alternativa che unisce talento locale ad artisti internazionali come Altın Gün, Mauskovic Dance Band e Ata Kak.
Come nasce Kiosk Radio? Che poi, è un vero e proprio chiosco all’interno di un luogo non banale della città, il Parc Royal…
Il progetto nasce da un post su Facebook, in realtà. Nei primi mesi del 2017, François Vaxelaire (anche lui di Bruxelles e fondatore di The Lot Radio a New York) condivise sul muro di un caro amico comune un appalto pubblico della città per la gestione di un vecchio chiosco in legno abbandonato a Parc Royal (parco centralissimo, di fronte al Palazzo Reale). Nel post scrisse “Io so bene cosa farei in quel chiosco”. Un chiaro riferimento implicito al suo stesso progetto che aveva lanciato da poco. Ecco, da quel giorno, io, quell’amico comune ed altri due amici abbiamo cominciato ad incontrarci e scambiarci idee definendo a grandi linee quello che oggi è diventato Kiosk Radio. L’appalto, alla fine, l’abbiamo vinto e quello che immaginavamo e sognavamo in quei primi attimi si è materializzato oltre ogni nostra aspettativa.
Kiosk Radio, un progetto nato solo tre anni fa, sta già ricevendo supporto da quasi tutte le istituzioni principali del paese. Ed è anche grazie agli attori pubblici che siamo riusciti a crescere costantemente ed in maniera organica
Con l’operazione di Outsiders metti in campo un network europeo veramente notevole: quanto è difficile costruirne uno? E ancora: quanto è difficile mantenerlo?
Europeo e mondiale! L’idea è stata proprio di includere una serie di partner che altrimenti il nostro format non ci avrebbe permesso di coinvolgere. Le restrizioni imposte dalla pandemia hanno avuto un duro impatto sul lavoro delle web radio che, come la nostra, si concentrano sul live. Da ormai un anno non ospitiamo più artisti internazionali. Sta diventando difficile persino mantenere le residenze di coloro che vivono a Gent o Anversa, per capirci. Con Outsiders, l’intenzione è da un lato di mantenere la programmazione live dal parco – che si concentrerà sugli artisti locali – e dall’altro di dare un taglio più globale alla nostra programmazione, permettendo a vari artisti di trasmettere sulle onde di Kiosk direttamente da casa loro. La risposta è stata da subito molto positiva. Gran parte delle etichette che abbiamo contattato si è mostrata immediatamente interessata e disponibile. Forse perché, al di là della residenza mensile – formato standard di ogni radio simile alla nostra – siamo riusciti a proporre un progetto con un’identità nuova e ben definita. Cosa per noi importante, anche per comunicare chiaramente ai nostri ascoltatori questo cambio di format.
(Una playlist curata da Kiosk Radio; continua sotto)
Come nasce precisamente Outsiders? Quali sono stati i primi passi per dare vita a questa serie così vasta e ben strutturata?
Come dicevo, il progetto nasce dall’intenzione di “globalizzare” una realtà locale come la nostra. Siamo partiti da quello che nella mia vita precedente avrei chiamato molto noiosamente “stakeholder analysis”. Un lungo foglio Excel di etichette indipendenti che più abbiamo apprezzato negli ultimi anni, con relativi indirizzi email. Abbiamo cominciato a contattarli, partendo ovviamente dagli amici. Da subito, abbiamo cercato di mantenere un equilibrio (non sempre facile) sia dal punto di vista geografico che musicale. Kiosk infatti nasce e vuole rimanere un progetto eclettico, non solo per i fan del clubbing. Per questa prima edizione, possiamo definirci molto soddisfatti. Tra i nostri nuovi resident, ci saranno quasi 50 etichette dai 5 continenti, tra i quali la leggendaria Crammed Discs (Belgio), l’afro-futurismo di Nyege Nyege (Uganda), l’americana Street Corner Music di House Shoes (che ha prodotto pure J Dilla!), il club sperimentale di SVBKVLT (Cina)… Insomma, sarà un vero e proprio viaggio globale dall’ambient all’hardcore (i Gabber Modus Operandi sono già al lavoro). Ovviamente ci sarà anche qualche italiano, tra cui Neroli (Volcov), Slow Motion (Mammarella e Franz Scala), Mannequin (Alessandro Adriani) e Artetetra (Luigi Monteanni e Matteo Pennesi).
(La ricchezza di Outsiders; continua sotto)
The full programme of our brand new Outsiders project is out!
We are thrilled to announce that Outsiders 2021 will…
Pubblicato da Kiosk Radio su Giovedì 28 gennaio 2021
Quali sono gli artisti a cui ti senti più vicino, per affinità umana o anche solo artistica?
In Italia, al di là dei maestri già menzionati sopra, non posso non citare Fabrizio Mammarella. Di fatto il primo DJ che ho ospitato al Bonnefooi e che, da quella sera, è diventato un amico. Al di là del suo talento infinito, Fabrizio ha passione vera, apertura mentale e umiltà – qualità rare nel clubbing italiano. A Bruxelles, ci tengo a menzionare tre artisti in particolare: Dj Athome che, assieme ad Hugo Sanchez, ha fondato i Front De Cadeaux (tra i miei progetti preferiti negli ultimi anni). Dj soFa, collezionista e selector allucinante, il classico dj al quadrato (“dj’s dj”), noto ai più per le sue compilation “Elsewhere”. Proprio con lui mi sono chiuso in studio dopo il primo lockdown l’anno scorso. Non si sa mai che ne esca un disco in futuro. Per finire, Céline Gillain, una sorta di versione contemporanea (e molto belga) di Laurie Anderson. Non si può non amarla.
Le fortune più “commerciali” e mainstream dell’elettronica da dancefloor sono secondo te una risorsa o un danno per l’underground? O, eventualmente, qualcosa di distante ed irrilevante?
Partirei dicendo che sono un fan del pop, o quantomeno di un “certo” pop. Un pop che purtroppo negli ultimi anni trovo con sempre più difficoltà, in particolare nell’elettronica da dancefloor. Ci sono senz’altro delle eccezioni, in particolare tra i più nostalgici. Mi vengono in mente i Bicep ad esempio, che sono letteralmente esplosi negli ultimi due anni e che ho apprezzato e supportato dai famosi “tempi non sospetti”. Su questo punto, sono costretto anche a menzionare Peggy Gou: le tracce che ha pubblicato negli ultimi anni (“ghost producing” o meno, la visione dietro è la sua) non sono affatto male. Per come la vedo io, la direzione e l’estetica di fondo sua potrebbero anche essere una risorsa per l’underground. Il problema è tutto quello che ci sta attorno. L’eccessiva glamourizzazione del clubbing e la favola del “supporto artisti underground nei circuiti mainstream” come mero strumento di marketing personale, finiscono per prendere il sopravvento sulla musica stessa. Dunque, per quanto possa apprezzare la sua estetica musicale, non posso sopportarne (e supportarne) l’incoerenza.
Com’è la scena italiana vista da fuori?
Personalmente, vedo la scena italiana come un ammasso, a tratti discontinuo e disordinato, di roba fighissima. Ci sono tantissimi artisti degni di nota che cercheremo di mettere in mostra con il progetto Kiosk Radio “Outsiders”. Mi pare ci siano pure parecchie realtà che spingono nella giusta direzione (giusta per me, perlomeno), sia tra gli attori più giovani (Terraforma e Fat Fat Fat, per citarne un paio) che tra quelli più longevi (come Club To Club o Dancity). Questi eventi stanno certamente aiutando la scena locale ad entrare nei radar di festival europei e mondiali, e mi pare ne stiano spuntando di nuovi ogni anno. Quello che forse ancora manca è ciò che credo abbia aiutato di più Bruxelles negli anni scorsi: ovvero collaborare e fare rete, sia all’interno delle città, che a livello nazionale. Mi pare lo si faccia ancora poco in Italia, forse per una certa diffidenza di fondo, o forse perché è talmente difficile realizzarsi nel circuito alternativo che tutti sono sempre troppo occupati a tenersi a galla.
Quello che forse ancora manca è proprio ciò che credo abbia aiutato di più Bruxelles negli anni scorsi: ovvero collaborare e fare rete, sia all’interno delle città, che a livello nazionale. Mi pare lo si faccia ancora poco in Italia, forse per una certa diffidenza di fondo, o forse perché è talmente difficile realizzarsi nel circuito alternativo che tutti sono sempre troppo occupati a tenersi a galla
A proposito di distanza: da qualche mese ti sei trasferito dall’altra parte dell’emisfero, in Indonesia, a Jakarta: cosa sta significando nel tuo rapporto con la musica? E com’è la vita lì, musicalmente e non solo?
In effetti, questa è la grande novità. La carriera diplomatica di mia moglie ci ha portato in Indonesia lo scorso ottobre, e per i prossimi quattro anni vivremo a Jakarta. Mi piacerebbe sicuramente costruire qualcosa di nuovo qua, anche se al momento il mio campo d’azione è molto ridotto dalla pandemia. Al contempo, il progetto “Outsiders” mi sta permettendo di mantenere un piede dentro a Kiosk Radio nonostante la distanza geografica, cosa per me molto importante. Per quanto riguarda il mio rapporto con la musica, è cambiato profondamente perché il mio centro di interesse si è spostato sull’Indonesia. Mi sto interessando alla storia musicale locale e Luigi Monteanni di Artetetra, esperto di antropologia e teatro sundanese, mi sta facendo un corso accelerato. Allo stesso tempo, mi sto avvicinando in punta di piedi al clubbing locale grazie soprattutto a Dea Barandana, uno dei miei DJ preferiti già da qualche anno (Gilles Peterson lo ha definito “il migilor DJ che abbia visto negli ultimi dieci anni”). È proprio con lui che vorrei cominciare un nuovo progetto. Ne stiamo già parlando, e spero di potervi dire di più molto presto.
Ti chiediamo un saluto in musica: qual è la traccia a cui più ti sei affezionato e che più ti ha “aiutato” durante i periodi di lockdown, vecchia o nuova che sia?
Ovviamente, durante i lockdown ho cercato perlopiù pace e tranquillità (nulla di più lontano dal clubbing). Nel primo lockdown ho rispolverato soprattutto “Sunset Village” di Beverly Glenn-Copeland, artista che ho scoperto qualche anno fa tramite Gary di Invisible City Editions (uno dei nostri “Outsiders”). Una raccolta fantastica di suoi pezzi è uscita qualche mese fa su Transgressive Records (tra le cose migliori del 2020). Nel secondo lockdown, ero in procinto di trasferirmi in Indonesia dunque avevo in loop “Lembur Kuring” di Yanti Bersaudara, capolavoro ripubblicato di recente da La Munai Records.