Tredici tracce tutte in perfetto stile Kompakt, tante sono quelle che compongono “1977”, ultimo lavoro di Kölsch, produzione quasi tutta in 4/4, prodotto complessivo del noto intruglio di techno, house e un costante crescendo di archi teutonici. Loro, gli archi, danno vita a quel neanche troppo sottile filo rosso che lega una all’altro quasi tutti i pezzi (“Eiswinter” non c’entra nulla con il resto, e ci entra poco perfino con la musica!), a partire dall’apertura, la bella “Goldfish”, sino ad arrivare a “Felix”. L’album, in fondo, altro non è che un susseguisri di pause e ripartenze, giri di basso e loops a volumi differenti, intervallati da sporadiche voci e qualche sussulto neopop: effetto phon psichedelico barra Einaudi barra Gui Boratto barra Youporn.
Ma torniamo seri. Il peso dell’etichetta si avverte parecchio, nel complesso, d’altronde il mood è quello che maggiormente caratterizza la label di Michael Mayer. Ritmo, notte, pulizia dei suoni. Un pò di rock? Perché no (ma non troppo, e sempre levigato). Ma la fantasia di Kölsch, fantasia tedesca, badate bene, non emerge da questo riassunto iniziale. Sbuca, piuttosto, in quelle tre o quattro tracce che si, esageriamo, possono anche inchiodarti a terra. Senza respiro. Quello lo lasciate in montagna, fra una cima innevata e un tornantino secco, un cerbiatto e un prato verde, un orso bruno con le cuffie. Un esempio perfetto è “Zig, la nona traccia, viaggione techno/sentimentale di quelli belli, ma belli! Oppure la già citata “Felix”, chiusura con la C maiuscola ma senza inutili esaltazioni. Last but no least la cara vecchia “Opa” – ah giusto, dimenticavo, il disco è la summa di pezzi vecchi e nuovi messi insieme. Tutto questo in un braciere di di vari generi che, mescolati, producono una bella filigrana di musica elettronica.
L’unico neo? La traccia che ha reso Kölsch, non dico celebre, ma conosciuto. A voi l’onere di scoprire quale sia. Vi do un’indizio: cercate fra la quattro e la sei.