Una forte presa di coscienza e l’assunzione di importanti responsabilità sono alla base dell’idea, quasi una follia, di mettersi sulle spalle un’intera label. La stessa follia con cui un’etichetta in pieno e conclamato blocco creativo decide di affidare ad un danese con la passione per gli arrangiamenti orchestrali la propria rinascita musicale, come fosse la fenice della propria storia. Questo sono stati Kölsch e Kompakt nel 2013. In quell’anno usciva “1977”, primo passo di una trilogia autobiografica a passo Kompakt che si chiude oggi con “1989”. Una trilogia partita con un primo disco che raccontava il contesto storico in cui Kölsch veniva al mondo: rabbia e frustrazioni socio politiche, conosciute per sentito dire o soltanto sfiorate. Un risultato eccellente in cui, come accennato prima, a vederci folle e chiaro sono stati in due: la label di Colonia e Rune Reilly. Il secondo disco, “1983”, serviva a sedimentare, a creare le basi per una perfetta maturazione artistica. Raccontava di vacanze al mare, di viaggi in auto, di spensieratezza. Bello, colorato, non entusiasmante come l’esordio ma valido a marcare un percorso. Con questo ultimo grande lavoro, invece, torna il grigio, inteso come umanità scura in volto. La rabbia non è più solo raccontata, ma sperimentata, vissuta, stretta dentro a pugni chiusi di ribellione adolescenziale. La separazione dei genitori, il ribollire interiore che ne deriva: è tutto ben descritto in “1989”.
Come detto prima, Kölsch arriva a questo disco con le certezze e le sicurezze di chi sa di svolgere ormai un ruolo fondamentale per Kompakt. Certezze acquisite in un processo di maturazione durato cinque anni o poco meno, tempo servito a Reilly per crearsi quel suono club-oriented, che parte dai primi Speicher; lo rielabora, lo fa proprio, aggiunge quella partiture per archi che sono via via diventate il marchio di fabbrica del produttore danese. In “1977” la cosa poteva suonare come mera e piccola sperimentazione, un surplus ben fatto ma non particolarmente innovativo – Agoria, per dirne uno, proposto già nel 2006 con “Les Violons Ivres”, una cosa simile). In “1989” l’orchestra è ormai diventata parte integrante del suono di Kölsch, così definito e, ribadiamolo, maturo da suonare assolutamente naturale. Certo è un’evoluzione, merito anche della preziosa e ormai simbiotica collaborazione con Gregor Schwellenbach, estroso direttore di archi e orchestra, ormai molto più di un semplice nome da featuring. Schwellenbach è uno che, in occasione del ventennale di Kompakt, ha fatto il greatest hits della casa di Colonia suonato da un’orchestra, una follia per pochi appassionati ma che ancora oggi ha più di un perché. Questa simbiosi, è così oramai che possiamo definirla, ha elevato e di molto il lavoro di “1989”. La famiglia si allarga, comprendendo in questo giro di ruota anche la Heritage Orchestra, ed è da qui che iniziano le sorprese.
Le partiture di archi non sono più il semplice accompagnamento di una scrittura ordinaria, che a braccetto con la cassa dritta e un buon synth basterebbero già (il successo di “Der Alte” lo dimostra abbastanza chiaramente), ma in questo lavoro vivono di luce propria, con la libertà di fare e strafare. Basta ascoltare la progressione incalzante di “Khairo”, in cui synth e archi dialogano mentre Kölsch “rulla” come un ossesso. Un esempio ancora migliore è “Liath”, apice dell’album. Qui Reilly espone tutto il suo sapere sull’argomento Kompakt, producendo un giro di Casio che sembra preso in prestito da Rex The Dog (quello di “I Look Into Mid Air”) e duetta con un violino malinconico che sa di notte buia e tristezza incolmabile. Sono solo due esempi di un lavoro con trovate furbe e formidabili. Si dirà che giocare sulle scale emozionali fa vincere facile, ma quando non si parla di Bon Iver, che a queste scale armoniche sovrappone anche un cantato, non è una cosa banale. Noi pensiamo che qui la situazione sia diversa. Suonare arrabbiati picchiando con la cassa in quattro può sembrare altrettanto facile, ma farlo con costruzioni come quelle sentite in “1989” certamente non lo è.
Ci sono idee, c’è un forte coinvolgimento. Nella traccia numero quattro, “In Bottles”, lo spazio dedicato all’orchestra viene condiviso da una vocalist, la norvegese Aurora, e le atmosfere viaggiano tra i primi Röyksopp e Trentemöller. Anche in un pezzo fuori dalla logiche fin qui elencate il risultato non cambia, anzi: in “14”, unica traccia in cui Kölsch rallenta e l’orchestra concede spazio ad un pianoforte solitario e malinconico, l’effetto è magnifico.
Kölsch firma un disco emo-zionale, fatto di immagini e sonetti da tragedia, dal forte sapore nord europeo, producendo uno dei più bei dischi Kompakt dai tempi di “From Here We Go Sublime” di The Field.
“1989” suona perfetto e avrà sicura vita facile sui cuori teneri e sensibili come quello di chi scrive, i quali – al netto di tutta la storia di Kompakt già raccontata – potranno annoverare questo lavoro tra i capolavori. Per tutti gli altri sarà un disco “semplicemente” bellissimo, molto vicino alla perfezione.