Dopo il buon episodio inaugurale, tocca a Kölsch firmare il secondo episodio della rediviva serie targata fabric. La scusa ci sembrava interessante per parlare con un artista che ha di fatto scritto un nuovo capitolo di Kompakt Records. Ne è venuto fuori un lungo e conviviale scambio di parole, idee e opinioni su i tanti temi caldi di questo periodo: dal Fabric ad Avicii, alla crisi dei club fino a quanto sia stramaledettamente difficile mixare i suoi pezzi
In ogni tuo disco della recente trilogia hai raccontato una storia. Succede anche in questo episodio del fabric? Ho letto qualcosa a proposito di voli e spostamenti tra una data e un’altra.
Per il fabric ho pensato qualcosa di completamente diverso. È vero ciò che dici riguardo alla trilogia che ho realizzato per Kompakt, che raccontava diversi periodi della mia vita; questo fabric però è più un racconto di emozioni e di sicurezze. Hai ragione riguardo la storia dei voli: i titoli sono sigle di alcune tratte d’aereo che ho preso tra una data e l’altra. Ho provato ad immergermi nelle sensazioni che provo durante queste esperienze. Secondo me, sono stati d’animo che si avvicinano molto a ciò che puoi provare nel club, quando sei nel tuo angolo ad osservare e la musica è altissima: e qui ho provato ad imitare ciò puoi sentire all’interno di un club come il fabric. L’idea è quella di creare qualcosa che si possa ascoltare senza prestarci una grande attenzione, qualcosa che possa scivolare via anche con un ascolto distratto. A volte la musica richiede attenzione o concentrazione, ti richiede un confronto; altre volte la musica vuole solo creare sensazioni che possano essere solo tue: intime, private.
Qualche giorno fa ho visto girare su internet un meme che descriveva molto bene la vita di voi dj. Una vita di solitudine, credo tu possa capire cosa intendo, la maggior parte delle volte siete tu e il tuo zaino. Cosa pensi di questa parte del tuo lavoro e delle difficoltà direttamente connesse a questo tipo di lavoro. È chiaro non stiamo parlando della pesantezza di un lavoro in fabbrica, ma non credo sia solo un fatto di feste, alcool e donne.
Ho sviluppato un’idea rispetto a questo: io credo che lo stress e la solitudine ad esempio tra un viaggio e un altro, siano le ragioni per cui siamo pagati per farlo. Amo stare sul palco e amo comunicare con la gente attraverso la mia musica, questo è da sempre il sogno della mia vita e l’ho realizzato. Il viaggio e tutto il resto, il fatto di non dormire o di essere sempre per strada, fanno parte della sfida. Tutte le persone hanno le proprie difficoltà sul lavoro; se ci pensi, quanta gente fa un lungo viaggio per raggiungere il proprio posto di lavoro? Certo un viaggio non sempre può essere interessante, ma d’altra parte è l’opportunità per preparare te stesso al palco, o per leggere un libro o cose di questo tipo. Sai che ti dico poi?
Vai…
Penso che il viaggio possa essere un buon motivo per rendere la tua performance ancora più bella, più affascinante. Pensaci: viaggi, magari dodici ore, per poi arrivare sul palco e suonare per due. È una cosa di per sé bizzarra, ma che secondo me rende il risultato più eccitante.
La morte di Avicii ha acceso i riflettori sullo stress, la solitudine e la frenesia di questo lavoro fatto di lunghi viaggi e come dicevi tu poche ore di sonno. Cosa pensi possa essere fatto di concreto per cambiare i problemi legati al tuo lavoro? credi che un associazione, un sindacato possano essere una soluzione giusta?
Sono d’accordo con te. La morte di Avicii ha aperto uno squarcio rispetto a un qualcosa di cui nessuno aveva mai parlato prima. La percezione è che tutto sia cosi rock ‘n roll e pieno di divertimento…beh, non è così! In questo momento è vero, il dj è la cosa che più si avvicina ad una rock band o a una rockstar. Siamo in tour per molti mesi, sta diventando una cosa incontrollata, so di persone che suonano per duecento, duecento cinquanta date all’anno, mi chiedo come questo sia possibile. Mi chiedo cioè come sia possibile convivere con la solitudine e la fatica che certi numeri automaticamente portano. C’è anche una grande differenza: noi sul palco stiamo da soli, e da soli riceviamo sensazioni, emozioni, sentimenti, che invece una rock band divide tra ogni membro del gruppo. Capisci che sono percezioni che cambiano di persona in persona, non credo ci possa essere una soluzione, o che tra le tue proposte possa esserci una reale soluzione. Molto dipende dalla forza interiore di ognuno di noi e dalla propria forza mentale. Se veramente si vuole cominciare a fare qualcosa, bisogna cominciare a ragionare sul numero di show che un dj può sostenere in un anno. Come puoi pensare di essere in forma facendo una vita così? Ma proprio, come puoi pensare di resistere ad una vita così..
Credi che questo senso di solitudine molto melanconico possa esserti stato d’aiuto nel produrre un certo tipo di musica?
Sì, credo tu abbia ragione. Se penso ad alcuni miei lavori, specialmente i primi, è vero. È vero anche che non è scritto da nessuna parte, e non è necessario, vivere una sofferenza o soffrire di qualcosa per creare buona musica. Sfatiamo questa idea che solo chi soffre crea buona musica, oppure che tutti i migliori musicisti jazz fossero strafatti di eroina… Io capisco vi possa essere un fascino maggiore associando questi sentimenti e queste storie alla musica, ma la musica stessa può avere mille e più fonti di ispirazione e le idee possono arrivare da più posti e situazioni anche contemporaneamente. Esiste musica che arriva anche da cose felici, o ispirata a cose felici; e altra musica che in realtà è molto distante dalla emozioni che sta vivendo chi la scrive
Tornando all’album, posso farti una domanda magari difficile? il disco suonava così anche nella tua testa? Mi spiego: a volte nella testa immaginiamo cose che non sempre riusciamo a realizzare in maniera uguale a come le avevamo immaginate. È un disco che valuto otto, sia chiaro, ma alcuni momenti sono trionfali, in altri è come se la mancanza dell’orchestra ad esempio fosse stato un problema.
Oh non so! Forse sì. È un album con un approccio sicuramente diverso rispetto ad uno “stand-alone” album. Inizialmente volevo fare un normalissimo dj mix, poi ho pensato che volevo fare un dj mix ma con all’interno solo la mia musica. Ho cercato di assemblare la mia musica in un dj mix che suonasse come una serata al fabric.
Ed è stato facile? Tu sei sia un dj che un producer, pensi sia facile mixare i tuoi pezzi? Ho fatto il dj per qualche anno e chiaramente ho suonato anche i tuoi pezzi, beh non mi sembrava affatto facile! Certo io non sono bravo come te ma non mi sembrava per niente facile credimi.
(Ride, ndr) No! per niente, ho capito benissimo cosa intendi non è facile. Quella che ascolti nei miei dischi è musica elettronica e penso abbia un valore diverso, maggiore, rispetto ad un dj tool. Capisco le tue difficoltà nel mixing, molto spesso i miei dischi sono impossibili da mixare anche per me che li ho fatti (ride ancora, ndr).
(Kölsch goes fabric, saltando da un aereo all’altro; continua sotto)
Sei felice dei risultati del tuo ultimo album “1989”?
Per me quello è uno dei dischi, una delle prove più difficili che ho superato, c’è stato davvero un sacco di lavoro dietro, forse se ci ripenso addirittura troppo lavoro. Alla fine è uscito un disco con un sacco di orchestra e molto epico, credo la prenderò molto più tranquillamente la prossima volta.
Per me era perfetto così! Adoro tutta la parte orchestrale, per me ad esempio “Khairo” è un pezzo perfetto, dove gli scambi tra te e l’orchestra sono bellissimi. Credo di aver pianto più volte ascoltando quel pezzo, spesso alla fine di qualche litigio o di una giornata faticosa (l’album racconta i problemi e la rabbia interiore di Kölsch nel periodo del divorzio dei suoi genitori, ndr). Non è facile piangere con la musica elettronica non ci sono i testi a farti rivivere certe sensazioni ad esempio.
Grazie davvero. non è sempre facile capire le emozioni che si celano dietro certa musica, ma credo di aver capito le tue sensazioni e cosa hai provato e davvero mi fa un sacco piacere tu abbia colto certi sentimenti.
Tu sei legato a Kompakt Records che ha publicato i tuoi tre album. Quando è uscita “Der Alte”, secondo la mia opinione, Kompakt era abbastanza in difficoltà, è come se le idee fossero all’improvviso finite, poi sei arrivato tu ed è cambiato tutto. Possiamo dire che ti sei preso tutto il peso di Kompakt sulle spalle, dando alla label una nuova energia e una nuova vita? Anche perché di fatto da lì la label è ripartita con un nuovo slancio.
È una bella domanda a cui però è difficile rispondere, questo perché molto spesso la percezione è molto soggettiva. Se vuoi la mia opinione, Kompakt era, è e rimane una label incredibile. Certo ogni label ha questi periodi di up and down dove alcuni momenti sono di successo e altri un pochino meno: quello che Kompakt ha sempre avuto, anche davanti a questi periodi, quello che mi fa amare questa label, è che non sono mai scesi ad alcun compromesso, è sempre stata unicamente una questione di cosa gli piaceva. Non ho mai visto o ascoltato nessun ragionamento commerciale di fronte ad una release e questo davvero mi fa impazzire, è una cosa che ammiro tantissimo, è questa la vera potenza di Kompakt. Non so se la mia musica possa aver contribuito in qualche modo al successo della label, non voglio prendermi meriti che non credo in fondo mi spettino, ho troppo rispetto per loro, però se lo pensi questo mi fa felice, incredibilmente felice.
Tra l’altro visto il tuo background, mi viene da dire che non era facile portare il suono di Kompakt in una compilation del fabric. Spesso i fabric raccontano suoni molto diversi rispetto a quelli che un artista mette nei suoi album. Qui è diverso ed è bellissimo, perché è un disco del fabric che suona come un disco Kompakt.
Oddio questo è un bel complimento e vuol dire che sono riuscito ad assorbire molto bene il suono di Kompakt per cui direi grazie, ben fatto!
Anche perché il fabric è un po’ un club a sestante rispetto ad altri club, è un posto con un suono abbastanza definito a volte anche distante dal mondo reale.
È vero, è un posto dove puoi suonare una musica super astratta e immergerti in tutte le sensazioni che ne nascono. È un posto davvero lontano da qualsiasi altro club che suona musica elettronica, la gente credo lo ami per questo e si diverta proprio per questo motivo. La gente si sente parte di quel posto, c’è una realtà identitaria molto forte al fabric più che in qualsiasi altro club al mondo.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Un nuovo album una nuova trilogia?
Sì, sto lavorando a qualcosa di nuovo. Ho più di venti demo registrati e qualcosa lo sto già testando nei dj set. Non credo ci sarà una nuova trilogia quella è stata fatta e rimane lì. Penso qualcosa di diverso.
Sempre con l’orchestra?
Non ne sono sicuro, non ho ancora deciso. Visto che sei curioso, ti posso dire che sto ascoltando un sacco di jazz da Coltrane a Gillespie per cui credo mi muoverò in direzioni diverse rispetto alle cose precedenti.
Promette bene…
Speriamo.
Ho solo un’ultima domanda: in Italia in questi giorni ha chiuso ed è fallito il Cocoricò. È stata una bruttissima notizia per tutti, forse la conseguenza di questa crisi del club che in Italia si avverte parecchio. In Italia la gente non va più nei club, molti vanno ai festival anche in giro per il mondo, ma non vanno più nei club. Quello che chiedo a te, che sei un dj di fama mondiale, è se anche tu avverti questa crisi in giro per l’Europa o nel mondo.
Sta succedendo un po’ in troppi posti. Specialmente d’estate, la gente ha questa tendenza ad andare più nei festival. È vero, la gente non frequenta più i club, quello che mi racconti l’ho visto succedere sia in Inghilterra che in Germania ed è una vergogna per me. Non ho nulla contro i festival, mi diverto un sacco nei festival, ma per me il club è davvero il posto dove puoi realmente vivere l’esperienza della techno music. Nei club, forse per il fatto che generalmente si rivolgono a platee più piccole, puoi davvero vivere e immergerti nella musica e in un certo tipo di musica. Davvero, è vergognoso quello che sta succedendo. Amo suonare nei club, che siano piccoli o grandi: sono cosciente si tratti di cicli che si aprono e si chiudono, questo è vero, ma mi rende triste lo stesso, perché nei club ho vissuto davvero le parti più importanti della mia vita.