L’etichetta berlinese Killekill, quando ha ideato questo festival, lo ha immaginato con tentacoli capaci di sfiorare quante più sfumature possibili della musica elettronica, passando dalla disco dance ai soundscapes dell’ambient, dalla cassa dritta della techno fino ad arrivare ai ritmi spezzati della breakcore e i drop della dubstep.
Noi, come un plotone di bikers sulle nostre City Bike, parcheggiamo davanti alla Passionskirche, la chiesa sconsacrata del quartiere di Kreuzberg a Berlino, per gustarci l’Opening di questo Krake Festival. Naturalmente, come spesso accade, nonostante l’esserci imposti di arrivare presto, la coda alla porta è lunga e tra i controlli serrati della sicurezza e la calma tipica dei berlinesi, riusciamo a entrare solo durante l’applauso del pubblico all’ormai finito set di Pharoah Chromium. Nell’attesa che Prokyon salga sul palco, osserviamo la straordinaria bellezza della location; un enorme telo da proiezione nasconde per intero l’altare, ma lascia intravedere un suggestivo organo Karl Schuke, la navata superiore sembra quasi voler cadere tra le panche della chiesa, dove più o meno trecento ragazzi bevono birra e chiacchierano. E’ effettivamente un luogo incantevole. Poi le luci si abbassano. Prokyon è accompagnato ai visuals da Lasal, che genera una sorta di magma luminoso in liquido movimento. La selezione della parte visuale si rivelerà azzeccatissima durante tutta la serata. Quella concepita da Prokyon è un’ambient scura e introspettiva, dove ogni suono (udibile in quadrifonia) dà la sensazione di essere percepito quasi singolarmente ed espulso dal contesto di traccia anche quando la composizione si fa più complessa. E’ come cercare d’intuire quali strumenti musicali, vengono usati da un’orchestra classica durante l’esecuzione di un brano che puoi solo udire. Nella realtà è tutto calibrato e pesato in modo molto professionale, ovviamente.
Per il live di Cristian Vogel, l’artista Jana Linke ricrea sul palco un “ponte di scatole”, sulle quali sono poggiati, a livelli differenti, sei proiettori di diapositive. Ne esce un’installazione site-specific di fotografie astratte a colori caldi e freddi. Vogel presenta il suo ultimo album Eselsbrücke, uscito a luglio per Sub Rosa, sperimentazione libera di suoni, rumori e voci che sembrano estrapolati dai nastri delle musicassette, passaggi sonori derivati dai computer degli anni ’70/‘80 e “improvvisazioni spazio-orbitali”. Per un attimo abbiamo quasi la sensazione di essere personaggi dei primi sci-fi di David Cronenberg. A conti fatti, quello di Cristian Vogel non è un live set, è qualcosa che si avvicina molto a una performance, cosa nemmeno così bizzarra, conoscendo il suo personaggio. I suoni e i rumori, le immagini statiche alle sue spalle, Jana Linke che, nei secondi d’intervallo tra una composizione e l’altra, sostituisce due diapositive e poi sparisce di nuovo, il linguaggio del corpo dello stesso Vogel, sono tutte cose che lasciano presupporre che quello cui ci troviamo davanti è sicuramente un pezzo unico numerato. Qualche appassionato potrebbe anche venire voglia di comprarlo all’asta, se solo si potesse.
Robert Henke, aka Monolake, si presenta vestito di tutto punto: camicia color sabbia, pantaloni e cappello in tinta. Cravatta nera e scarpa classica. Anche per lui una live-presentazione del tour “The Ghosts in Sorround”, derivazione audio-clubbing-interactive-sound dell’album “Ghosts”. Un lavoro studiato a tavolino già da diversi anni, in collaborazione con Tarik Barri, giovane fenomeno di Max/MSP e Supercollider. Come già spiegato più volte dallo stesso Henke durante le interviste, questo tipo di live non è adatto ad un pubblico seduto, quindi l’organizzazione provvede spostando le prime file di panche, così da ricreare una sorta di dancefloor all’interno della chiesa. Questa idea risulterà piuttosto bizzarra ai nostri occhi, da lì a poco. Il live ha un impatto mostruoso, soprattutto per chi, come me, lo vede per la prima volta. La fusione tra le immagini e i suoni è una mossa decisiva, Barri gioca con le grafiche ricreando frattaglie di luci, lampi e artigli astratti che accompagnano e sorreggono il “Fantasma” di Monoloke, quasi a volere dare ancora più profondità e cupezza alle sue precedenti produzioni e al suo live. Henke trasforma lo show in un baratro sonoro fatto di sub-bass e synth in cui riecheggiano bordate drum & bass. La gente balla dentro le immagini e il suono, si confonde al centro di una cornice surreale che parte da una chiesa e finisce nell’elettronica, cadendo in una voragine di nebbia e vuoto.
La seconda serata del Festival, al Berghain Kantine, s’intitola “A Night of Glitter and Penis”. Non a caso, dato che in line up troviamo Anklepants, Hard Ton e Furfriend. Il primo si presenta sul palco, come consuetudine, con un costume da Dracula e il volto nascosto da una mostruosa maschera cui al posto del naso è stato trapiantato un lungo pene che, ingegnosamente, è animato di vita propria. Anklepants fonde techno e dubstep, electro e breakcore sorretti da vocalizzi effettati ed una presenza scenica non indifferente.
Presenza scenica che sicuramente non manca al duo italiano Hard Ton. Max Bastasi, abbigliato come la migliore delle drag queen, si muove sul palco con una potenza e un’energia che lascia a bocca aperta, accompagna con la sua voce i passaggi della più classica disco dance e dell’house: il miglior invito a ballare e lasciarsi andare definitivamente.
Furfriend vuol dire osare oltre i limiti, non tanto a livello musicale, in questo specifico caso, quanto nei testi espliciti (vedi Fist Fuck e Prayers for Perversion) e nell’atteggiamento senza filtri e decisamente porno-gay. Dingo Tush e Das Uberdog (si fanno chiamare così i due misteriosi individui mascherati da bizzarri animali pelosi) votano per una techno a tratti molto vicina al suono berlinese e scelgono un live non adatto ai minori.
Per la terza e la quarta serata, ci si sposta al Suicide Circus, la location storica del festival. La line up è piuttosto folta, distribuita tra i il palco in giardino ed il main stage all’interno. Con nostro grosso rammarico ci perdiamo il live di Dasha Rush, ma siamo in prima fila quando comincia quello di Phon.o ed entriamo nel suo immaginario techno dub con punte garage e UK-funk, uscendone soltanto un’ora dopo. Uno show molto coinvolgente in cui si balla a testa bassa ed occhi socchiusi, lasciando aperto giusto uno spiraglio per lasciarsi graffiare dalle strobo. Per quanto riguarda Untold, partiamo dal presupposto che è un dj-set e ci prepariamo a non avere troppe aspettative, soprattutto in relazione che, in passato, lo abbiamo visto sempre live, ma notiamo con piacere che la sua bravura in consolle non può essere messa in dubbio in ogni caso. Decide di restare sulla techno, sfoggiando uno stile ed un gusto da vero professionista. Va bene, nessuna aspettativa, ma non rimaniamo delusi. Bill Youngman, dopo qualche minuto iniziale di problemi ai volumi, si assesta su di una techno-electro che non lascia quasi spazio a pause, una trascinante ed ipnotica marcia nel caldo umidissimo del Suicide Circus. Altra cosa: in un’ora di set fuma qualcosa come diecimila sigarette.
Il giorno dopo, sempre al Suicide Circus, il bizzarro cielo tedesco decide di accoglierci a secchiate di pioggia, che però non ci spaventano. Fradici, entriamo quando è appena iniziato il live di Christian Fennesz. Fennesz e la sua chitarra. Fennesz che spiega la musica ambient. I lunghi capelli che sfiorano le spalle e uno sguardo serio, cupo. Nessun sorriso. Mai. Lo show è un volo in una notte calda, e senza stelle, che a tratti si spinge oltre, a lambire tempeste di droni e glitch, ma senza farsi risucchiare. La melodia e il rumore, l’analogico e il digitale. Ti prende lo stomaco e te lo mette nei pensieri, poi ti prende i pensieri e li sputa nello stomaco. A un tratto mi trovo a pensare come sarebbe bello sentire suonare Fennesz insieme a Brian Eno, lui che è uno dei guardiani di quell’enorme tesoro.
Frank Bretschneider, classe 1956, compositore, video artista e fondatore, insieme a Beytone, della Rastermusic (fusasi poi con la Noton di Alva Noto), confeziona un live che, a mio parere, è il migliore della rassegna. Particelle di suoni assimilate in maniera certosina, sorrette da un perfetto visual-show interattivo. Detto in due parole fin troppo conosciute: abstract-techno. Bretschneider è uno scienziato del suono, un chirurgo che usa il bisturi sul lato più minimal e sintetico di quest’astrattismo elettronico, impacchettando un live (e dei dischi) che, in ogni caso, non mancano di ritmo e movimento.
I Dopplereffekt salgono sul palco con maschere neutre d’argento, si dispongono davanti alle loro macchine ed eseguono. Professionali, senza una sbavatura come le altre volte che li ho sentiti dal vivo, delle macchine che suonano delle macchine. E’ quel bizzarro movimento delle dita di Gerald Donald mentre suona, che in effetti mi lascia sempre perplesso e continua a buttarmi nella testa il pensiero del playback. Ma io mi dico che no, non può essere. Io voglio fidarmi.
Nota di merito, tra i guest del second-stage del Suicide Circus, a Sebastian Kokow e al suo dj set dub-techno scurissimo e trascinante, che tra una secchiata d’acqua, uno spiraglio di pace dalla pioggia o dal caldo infernale del main stage, mi fa alzare il pollice. All’alba Traversable Wormhole, uno dei molti side-project di Adam X, cannonate sci-fi techno che provano a rispedire a nanna il sole, che si affaccia su Berlino, ma non dentro il Suicide Circus.
Tutti in piedi al mattino per l’open air di chiusura: poche ore di sonno alle spalle, termos di caffè e acqua, treni e bus, bus e treni, il Krake sta per finire e noi festeggiamo sulle rive sabbiose di un lago che bagna il Kiekebusch. L’atmosfera è rilassata, la gente prende il sole e balla, qualche baracchino vende cibo, birra e smoothies vodoo. Il main stage non è altro che una casupola costruita con assi di legno e rivestita di materiale termico-mimetico. Stessa cosa vale per il second-stage, situato appena dietro le fronde di alcuni alberi, location alla quale viene dedicata una programmazione più dub rispetto al primo. E’ qui che suonano i nostri italiani Dadub, i quali, probabilmente influenzati dal luogo, eseguono un live d’ascolto che non esplode mai, ma che cattura l’atmosfera del rosso tramonto dietro le nostre spalle. Io aspetto Nathan Fake, ma prima di lui Max Cooper, che fa emozionare tutti con la sua techno profonda: linee di basso che riscaldano l’imbrunire e melodie soffici. Un appunto: la programmazione evidenziava che quello di Cooper sarebbe stato un live. Non è andata esattamente così, diciamo che è stato un mezzo live. Nathan arriva con il buio. Testa bassa come sempre e il suono di Border Community tra le dita. Un’ora secca di live, di ritmi che si spezzano per poi tornare a ricomporsi, melodie che prima ti abbracciano e poi ti scagliano lontano. Non alza mai la testa verso la spiaggia, il ragazzo prodigio, nemmeno per guardare ballare i nostri corpi riflessi nel lago. Compone e scompone, legge l’idm con il suo personalissimo timbro e ci porta alla fine del viaggio, che quasi nemmeno ce ne siamo accorti.
Ci troviamo sul ciglio di una strada sterrata, aspettando dei bus che arriveranno troppo tardi. Forse non arriveranno mai. Qualcuno mi dice che, mettendoci d’impegno, potremmo raggiungere a piedi l’aeroporto di Schonefeld, a circa tre chilometri in linea d’aria da noi. Potremmo attraversare i campi. Invece ci sdraiamo nell’erba a guardare il cielo, contando le stelle cadenti mentre le orecchie ci fischiano.