Ci perdonerete per la citazione battistiana contenuta nel titolo, ma non abbiamo resistito all’idea di mettere in chiaro fin da subito una delle componenti più in evidenza nel nuovo corso de La Batteria ovvero la carica sensuale del groove, quella che sprizza dai solchi del loro secondo disco sulla lunga distanza, chiamato proprio “II”. Quale occasione migliore se non la presentazione del disco dal vivo, avvenuta settimana scorsa presso il club romano Monk (concerto che sarà strepitoso: due ore filate dal forte impatto sul pubblico, con un suono sempre preciso eppure denso, dilatato e, per l’appunto, sexy) per incontrare Emanuele Butrini (chitarre), Paolo Pecorelli (basso), Stefano Vicarelli (tastiere/synth) e David Nerattini (batteria). Ci hanno raccontato, con dovizia di particolari e senza lesinare in aneddoti, la genesi del nuovo disco lasciandoci entrare, idealmente, nel loro studio di registrazione, lì dove viene rielaborata, anzi sarebbe meglio dire riattualizzata, la tradizione musicale italiana delle sonorizzazioni anni ’60 e ’70 (e leggerete… anche ’80), attraverso una sensibilità pop-prog-funk-latin-world-psych-fuzz-rock e chi più ne ha più ne metta. Ma badate bene, la loro musica è una questione serissima; ovvero, è un gran divertimento!
Un esordio omonimo cesellato in modo accurato e un seguito, a quattro anni di distanza, che mi piace definire “libero”, nell’accezione più ampia del termine, pieno com’è di influenze e di creatività, che dà all’ascoltatore tanti stimoli. Concordate?
Sì, l’interpretazione è corretta. Quest’ultimo è sicuramente un disco libero. Un altro termine che useremmo è “consapevolezza”, nel senso che riteniamo “II” davvero come il nostro disco consapevole. Il debutto è nato con l’intento di dare alle stampe un lavoro di “library music”, quindi di sonorizzazioni, e per questo a contare era più il progetto in sé che la band. David ci contattò proponendoci di lavorare per un paio di mesi sui pezzi, per poi entrare in studio, rifinire, registrare, missare e poi di nuovo ognuno per la sua strada. Per una serie di ragioni, poi, i tempi si sono allungati rispetto all’idea iniziale, ed è anche arrivata l’occasione di suonare dal vivo alcune date, così ci abbiamo preso gusto! La band si è formata su quei primi pezzi e si è consolidata strada facendo. Negli ultimi quattro anni non abbiamo mai interrotto il processo di scrittura, passando da quel primo repertorio, stilisticamente ben connotato, all’oggi che hai ben definito come libero.
“II” mi sembra anche un doppio album come quelli che si facevano negli anni ’70, quando si osava di più e anziché limare si abbondava. Laddove prima c’era un disco ora ce ne sono due, dove la materia era abbastanza oscura, ora ci sono tanti chiaro/scuri, mi pare una “extended version” del debutto. Senza nulla togliere al primo disco, è un qui e ora più “cangiante”.
Centro! Abbiamo suonato tanto assieme, abbiamo parlato molto di musica, insomma abbiamo condiviso di più, pur conoscendoci già, d’altronde è ciò che dicevamo prima, quando si macinano tanti chilometri insieme è diverso, si diventa un qualcosa di altro. Nello scrivere i nuovi pezzi abbiamo voluto fare qualcosa di più personale, pur rispettando quel pantheon di riferimenti legato alle sonorizzazioni degli anni ’60 e ’70, quindi mettendoci sì dentro le cose morriconiane, o proseguendo sul sentiero di certa musica melodica italiana, ma anche lambendo territori prima più lontani, per dire che dentro a “II” c’è anche della dance music, chi l’avrebbe mai detto!
Quindi, si può dire che avete fatto un disco “più coraggioso”?
Beh, sì. Diciamo che abbiamo capito che questa cosa delle colonne sonore è un po’ una scusa per non avere barriere in fase di scrittura e poter inserire in uno stesso calderone tutto ciò che ci passa per la testa, quindi dalla musica classica al rumorismo, passando per il funk e quant’altro. E’ chiaro che in tutto questo siamo rimasti riconoscibili come gruppo italiano, lo diciamo esplicitamente perché è ciò che vogliamo fare davvero, tornare alle radici melodiche italiane. Questa nostra vena viene particolarmente apprezzata anche fuori dai nostri confini, all’estero abbiamo praticamente più audience che da noi, almeno stando alle statistiche ufficiali di Spotify e a quelle di vendita del disco fisico ad oggi.
Provenite da mondi musicali diversi, dal post-rock al pop, passando per il jazz, l’hip hop la world music… Credo che questa varietà di stili arricchisca parecchio La Batteria. E’ realmente così? Oppure mi sbaglio e magari in fase di scrittura diventa tutto più complicato.
No, abbiamo grande libertà di espressione ed è un bene. Siamo tutti e quattro scrittori di musica e questo fattore aiuta, poi abbiamo stili abbastanza compatibili… Un nostro pezzo non viene mai scritto da una sola persona, c’è quasi sempre la mano di tutti. Anzi, recentemente è successo che ciascuno scrivesse le parti altrui (si apre un piccolo siparietto in cui Stefano sostiene che è troppo facile scrivere parti complicatissime quando l’esecutore poi è un altro ndr). Usiamo caricare il materiale musicale in delle cartelle condivise, in modo da avere accesso alle rispettive bozze. Poi, quando abbiamo abbastanza roba, ci si vede in sala per aggiustare l’arrangiamento in vista della registrazione dei pezzi. La difficoltà magari è quella di incontrarci per un periodo di tempo continuativo, considerato che abbiamo tanti progetti musicali paralleli, ma diciamo che facciamo del nostro meglio.
Reputo abbastanza deludente leggere recensioni che parlano di “colonne sonore per film immaginari o ancora non scritti”. Eppure non si può negare che nei vostri dischi ci sia una sorta di narrazione che contribuisce a veicolare alcune sensazioni anziché altre.
Anche per noi è un po’ deprimente leggere queste frasi fatte, ma è anche un po’ inevitabile cadere in questa rete di luoghi comuni quando si fa musica strumentale. In realtà noi, pur essendo onnivori musicalmente, condividiamo una spiccata sensibilità pop, ci piacciono le canzoni, anche se facciamo musica strumentale. Di conseguenza nei nostri brani c’è sempre una melodia ben chiara, anzi a pensarci bene il tema melodico è proprio la componente più importante, non come può accadere nel jazz in cui diventa il pretesto per fare gli assoli. La melodia probabilmente suggerisce un immaginario e quindi una narrazione, ma per quanto ci riguarda questa non è soltanto visiva, bensì è mutata dalla nostra infanzia, perché è quella l’epoca che ci emoziona e che ci dà spunti su cui lavorare. La prima materia che utilizziamo come ispirazione sono i nostri ricordi, magari anche confusi o romanzati, quindi in un brano ci può stare l’idea di un film o di uno sceneggiato come quelli che andavano di moda negli anni ’70 quando eravamo bambini, ma parimenti l’ispirazione può arrivare dal ricordo del percorso a piedi che facevamo da ragazzi da casa a scuola. Oltretutto in “II”, rispetto al nostro sguardo della memoria, chiamiamolo così, siamo anche andati più avanti, alcuni episodi pescano dai ricordi dei primi anni ’80, quando sei più grande e puoi fare cose che a quindici anni non ti sono permesse, come vedere film diversi o uscire di casa in macchina.
(“II” in tutta la sua qualità; continua sotto)
I titoli dei vostri pezzi predispongono di per sé a un certo tipo di immaginario. Avete mai pensato di lasciare i brani senza il titolo, per concedere all’orecchio massima libertà?
Quando componiamo e produciamo i brani, usiamo dei titoli di lavorazione, spesso non particolarmente significativi e a volte del tutto casuali. Solo alla fine del missaggio, poco prima di andare in stampa, decidiamo i titoli definitivi. Finora, nella maggior parte di casi, abbiamo scelto di utilizzare delle parole italiane in uso anche nella lingua inglese, coerentemente con la nostra musica, che ha delle evidenti e dichiarate radici in una certa tradizione italiana, ma che aspira a una dimensione internazionale. Detto ciò, le parole che usiamo hanno spesso più di un significato, e ci piace che questa ambiguità possa lasciare una certa libertà di interpretazione al pubblico. In generale, anzi, cerchiamo di far parlare soprattutto la nostra musica, senza altre interferenze. Anche durante i concerti limitiamo le parole al minimo indispensabile. Eliminare del tutto i titoli potrebbe essere interessante. Ci sono peraltro dei precedenti illustri, e poi anche nel mondo delle colonne sonore i brani vengono denominati semplicemente come “M1”, “M2”, etc. In ogni caso noi avremmo bisogno di chiamare in qualche modo i brani, almeno tra noi, ma chissà, magari per il prossimo disco…
Toglietemi un’altra curiosità legata alla scelta dei titoli. Come vi è venuto in mente di intitolare il vostro ep del 2016 “Fegatelli”?
Quello è un termine cinematografico, i fegatelli sono sostanzialmente degli scarti del montaggio. O, meglio, quando hai finito la giornata di riprese e ti è avanzato del tempo, giri della roba che ti potrebbe essere utile in seguito; possono anche essere considerati i finali delle scene, che magari allunghi per permetterti poi di montare le varie scene con più libertà. Similmente, noi avevamo un ammasso di roba in archivio, tra cui un brano, Superbum, scritto per un documentario, la cover della siglia di apertura de L’ispettore Derrick che avevamo fatto per una compilation e cinque remix/collaborazioni con la partecipazione di Jolly Mare, Roy Paci, Ad Bourke, The Johnny Fresh Experience, DJ Stile, Little Tony Negri e Colle Der Fomento. Che titolo dai a un album che contiene tutta questa roba? Fegatelli!
Sempre nel 2016, tra i due dischi lunghi, avete dato alle stampe “Tossico Amore”, un omaggio a Detto Mariano, che rielabora le musiche del film culto, quasi omonimo, di Claudio Caligari. Com’è nato questo progetto?
Ci siamo divertiti moltissimo e, come con le cose migliori, è arrivato un po’ per caso. Eravamo in cerca di pezzi nuovi da eseguire dal vivo, erano i tempi in cui avevamo solo i brani del primo disco ed erano pochini. Allora ci è venuto il mente il tema di Amore Tossico, con quel contrappunto di chitarra incredibile sulla scena in cui Cesare, uno dei protagonisti, compare sul pontile di Ostia in cerca di una “svorta”… (simulano con la voce la chitarra ndr). Facemmo una ricerca e appurammo che la colonna sonora di Amore Tossico non era mai uscita! Allora decidemmo, assieme alla Penny Records, la nostra etichetta, di rintracciare i nastri per ristampare la colonna sonora originale e, allo stesso tempo, di farne un nostro remake. Andammo a caccia del master, che grazie al cielo era ancora nelle mani del maestro Detto Mariano. L’accordo si trovò e il seguito è noto.
Il vostro “Tossico Amore” è piaciuto a Detto Mariano?
Ci furono delle incomprensioni all’inizio, ma non legate alla musica, che furono superate proprio grazie al disco. Registrammo il master della nostra versione e gliela facemmo avere. Dopo qualche giorno ci chiamò entusiasta, tanto che lo invitammo in occasione del festival “Roma Brucia” per salutare il pubblico accorso. Fu una bella serata e spese parole che ci resero molto orgogliosi. Il nostro remake piacque anche agli attori del film, o almeno a quelli che riuscimmo a rintracciare. Alcuni di loro apprezzarono il tema per la prima volta, perché trovavano il primo troppo freddo. Detto Mariano la compose tutto con il Fairlight, uno dei primi sequenzer mai progettati, questo strumento ce l’aveva lui e pochissimi altri in Italia negli anni ’80, forse solo lui e, tipo, i Pooh. Ci raccontò che dovette fare un leasing per prenderlo. Noi abbiamo preso quel suono glaciale e gli abbiamo conferito un po’ più di calore, superando i limiti tecnici dello strumento e arrangiando il tutto secondo i nostri gusti.
Tornando su “II”, è un disco anche molto sexy, lo diciamo?
Grazie!!! (in coro, ndr). Speravamo che qualcuno lo dicesse, era ora!
Cercate sempre il groove perfetto? Questa parola, tra l’altro, è difficilmente spiegabile/traducibile, ma credo che sia profondamente legata a quell’attitudine sexy che si diceva.
Diciamo che il groove lo devi anche avere dentro, difficilmente lo trovi se lo cerchi e ricerchi. Devi avere il tuo groove e quando lo trovi o meglio, nel nostro caso, quando lo trova la band, devi seguire quella pulsazione, ed è fatta! Magari nel primo disco non c’era, hai ragione, ma eravamo e siamo tutti appassionati di black music, americana e non solo, che è una delle forme musicali più sexy che esistano. Al tempo castrammo abbastanza l’attitudine proprio perché le esigenze erano diverse, come spiegato prima. In “II” c’è tanto groove perché volevamo proprio essere liberi, fare ciò che ci piace, divertirci, essere meno noir e più solari, quindi meno uomini con lo spolverino e più ragazze (ridono ndr). Il merito è anche delle percussioni, e delle influenze latine ora più esplicite.
Mi piacerebbe fare un passo indietro e chiedervi qualcosa sul vostro passato. Ci sono esperienze maturate con altri progetti musicali che vi portate dietro come bagaglio irrinunciabile ne La Batteria.
Le produzioni che fa David nell’ambito dell’hip hop le risenti in alcune ritmiche del gruppo, che sono meno orientate al passato, quindi più contemporanee. C’è una sensibilità che chiameremmo post hip hop. Ma in realtà riaffiorano un po’ tutte le nostre esperienze, parallele e del passato, ma nessuna è preponderante sulle altre, confluiscono in una formula inedita, che proprio per questo ci coinvolge e motiva. Ti facciamo un esempio: noi tutti abbiamo una lunga esperienza nell’ambito della musica improvvisata, eppure ne La Batteria la componente improvvisativa è tenuta ai minimi termini, addirittura in fase di scrittura è totalmente assente, mentre dal vivo qualcosa emerge, ma gli spazi che ci lasciamo in tal senso sono pochissimi, proprio per scelta. In questo momento ci diverte di più scrivere, la disciplina che c’è dietro, e poi ci piace la forza dell’insieme, è quella la sensazione più bella, quando la musica arriva come un blocco compatto. Senza nulla togliere a ciò che abbiamo fatto e all’importanza della jam per la storia della musica, ma oggi tutto questo ci annoia un po’, evitiamo ogni autoreferenzialità in fase di scrittura/esecuzione.
Cosa possiamo aspettarci dal vostro prossimo futuro, magari un lavoro per orchestra?
Ovviamente ora abbiamo voglia di suonare dal vivo il nuovo disco, anche perché, mano a mano che andiamo avanti con i concerti, i brani e gli arrangiamenti prendono nuove forme. Per quanto riguarda il lavoro in studio, è un po’ presto per dirlo, ma siamo sicuri che il prossimo sarà un album ancora diverso e, forse, andrà in direzione opposta all’ultimo. Lavorare con un’orchestra sarebbe bellissimo, un grande classico da band anni ’70. Uno di quei progetti faraonici ed economicamente disastrosi… Scherzi a parte, non escludiamo nulla. Potremmo scegliere la strada della complessità orchestrale, o, al contrario, puntare all’essenzialità. Vedremo. Certamente i concerti che faremo nei prossimi tempi ci influenzeranno in un senso o nell’altro. Intanto però abbiamo già un altro lavoro nel cassetto pronto per essere pubblicato. Si tratta della colonna sonora che abbiamo realizzato per un film horror, “Tafanos”, prodotto da SKY nel 2018, per cui abbiamo composto e prodotto settanta minuti di musica. Probabilmente uscirà nei prossimi mesi.
Allora in bocca al lupo per il concerto, a voi e ad Evandro Dos Reis de l’Orchestra di Piazza Vittorio, che apre.
Crepi! Ne sentirete delle belle con lui, è un amico, oltre naturalmente ad essere un musicista incredibile. Ha anche collaborato in “II” ed è sempre in viaggio dal Brasile, la sua terra natia, all’Italia, la sua seconda casa, e quando abbiamo saputo che sarebbe stato a Roma in questo periodo ci è sembrato naturale invitarlo.
Ma è vero che sul palco ci sarà anche una mandibola d’asino?
Eh, sì, l’ha portata con sé Raul Scebba, percussionista di origini sudamericane che suonerà con noi. Oltre al solito armamentario di synth, cavi, pedali, bassi e chitarre c’è una mandibola… Può sembrare uno strumento strano, e anche un po’ lugubre considerato che il suono è una sorta di “vibrato” provocato dai denti incastonati, ma per lui è tradizionale. Ci divertiremo!