
Sono in treno e internet, come al solito, non funziona. Sarà una recensione (per me, che sono abituato a immergermi in mille riferimenti) diversa, come non mi capitava da tanto: non ho spunti, solo ricordi, semplice memoria e sensazioni istantanee. Non c’è l’aiuto del pubblico a casa, nemmeno l’info sheet scritto da Fabio De Luca (che avrei voluto scrivere io per quanto spiega bene il disco). Una recensione a caldo, il racconto di un impatto. Le prossime ore saremo io, Niccolò e Aurora. La prima classe invece è sempre la stessa: puzza di dopo barba dozzinale.
Il disco viene aperto da quelli che sono i brani che per un motivo o l’altro abbiamo già ascoltato tutti: “Baby Soldato” preceduto dal tweet a sorpresa di Alessandro Cattelan, i primi passaggi in radio e il “zio non è niente” che è già slogan. L’apprezzamento sui social de “Il Posto Più Freddo”, le critiche a “Non Finirà” e il debutto al cinema nel film dei The Pills per “Questo Nostro Grande Amore”. Qualcuno aveva già tratto diverse conclusioni: sonorità che sottolineavano un obiettivo ben preciso, l’ammiccamento dichiarato alla radio e allo stesso tempo un protagonista mai così lucido e alle prese con se stesso. Poi…
perché adesso la notte è finita e la droga è scesa
ecco a voi la creatura più sola su questo pianeta
e i brividi vengono su dalle gambe al petto
il posto più freddo è qui proprio dentro al mio letto
ti prego rimani con me ancora un momento
ti prego rimani con me fino a che mi addormento
Destro, sinistro e giù, al tappeto. Niccolò con “Il Posto Più Freddo” scrive probabilmente la sua canzone più bella di sempre, e si fa perdonare per i giochi di parole di “Questo Nostro Grande Amore”: sticazzi se è nella colonna sonora del film dei The Pills, se le parioline di 18 anni copieranno qualche riga sul diario (pardon, profilo), noi continueremo sempre a preferire il Contessa più vero, o semplice (“Una cosa stupida”). I giochi di parole e le frasi ad effetto le preferiamo su altri.
“Non finirà” è una citazione continua. Ok, vero, mancano solo i riferimenti “gondryani” (nel video) per il resto è tutto un tripudio “daftpunkesco”: dal giro di basso di “Around The World” ai clap di “Loose Yourself To Dance”, una dichiarazione d’amore alle proprie origini che a quanto pare molti non hanno colto.
“Protobhodisattva” sembra un feat con … (ho passato un’ora a cercare di capire chi mi ricordasse, non sono mai riuscito a capirlo) che si fonde con il passare dei secondi alle tastiere anni ’90 e i cori gregoriani di “Sweet Harmony”. La creazione raccontata attraverso figure astratte (…pozzanghere di brodo primordiale) e dichiarazioni darwiniane camuffate da domande esistenziali (quelle vere, in stile Cani: vuoi il culo o la fica?). Siamo davanti alle prossime scritte sui muri di Roma capitale, il prossimo antheme da urlare con le mani lanciate verso il cielo, un nuovo tormentone, una nuova “Promiscuità”.
“Aurora” sembra uno scherzo, a partire dal incipit molto Immanuel Casto, quel pacchetto digitale che fa tanto “Anal Beat”. Invece dentro ci trovi cose serie davvero: c’è Arca, c’è Holly Herndon, le impennate di HudMo e una serie di cose che continuano a sottolineare quanto non ci sia niente di lasciato al caso in questo terzo album de I Cani. Una produzione talmente piena di strati che il testo passa in secondo piano. Cosa che non succede in “Una cosa stupida” che scorre dolce e mi fa riflettere: cazzo! vorrei finirla anche io una dichiarazione d’amore dandole della stupida.
Al giro di boa non ho ancora capito se l’aurora la vedremo davvero, probabilmente non da “Calabi Yau”, un posto che sembra troppo intimo o difficile da interpretare. Niccolò lo condivide con noi, come spesso fa con quello che gli accade, ma non lascia mai che gli altri si mettano a proprio agio. Si prende una pausa (il suono del mare) e riprende, insofferente. Sembra tutto al suo posto, tutto fin troppo chiaro (quindi basta cercare la notte su Google il mio nome, non voglio più guardare dentro di me) e invece no… quello che viene dopo è l’altra faccia della medaglia. Sembra un selfie all’Insomnia, un taglio quasi netto, uno sfogo che prende la forma del caos ordinato e armonico della progressive anni ’90. Ma anche ipotetico tassello di una colonna sonora di quelle produzioni anni ’80 che si trovavano solo in videocassetta e che nel mio caso raccontavano la fiaba di qualche tradizione slovacca (a memoria: Il Principe Del Sale). “Ultimo Mondo” sembra il quadro finale, quello del mostro, quello che si combatte contro se stessi (dentro di me non c’è niente di niente, diceva). E anche qui, forse involontariamente, ancora francesismi: i Phoenix di “Love Like A Sunset” e “Bankrupt”, senza chitarre ma con un mix lisergico tra Roland Brant e Alex Silvi che fa subito disco storia.
Andata e ritorno sul pianeta della malinconia: “Finirà” l’orrore e il sacrificio, finiranno presto il sale e il dentifricio ma non finirà mai il piacere di ritrovare in aurora anche delle sonorità così vicine a “One, Two, Three – No Gravity” di Closer Musik (Matias Aguayo e Dirk Leyers). Niccolò si lancia nello spazio, quello più vuoto e buio, confeziona un altro inno per i malati di cuore, questa volta in 4/4. La rincorsa è breve, i suoni semplici (e si Plutone è troppo piccolo). Mi lascio andare fino a “Sparire”.
Parte un piano e sembra un altro disco, un altro mondo. Un’altra storia. Portici e distese di grano. La sedia che dondola, il sole che spegne la giornata e i pensieri che sorgono (ancora), i dubbi di un trentenne che si rincorrono e questo mondo cane come unica costante tra lo spazio asettico e gli spazi più umani che possano esserci (l’abbandono del racconto generazionale e la conferma di un capitolo più intimo). La paura di non farcela, cantata e raccontata da chi ce l’ha fatta, ancora una volta.
Colpisce la ricerca, per niente casuale di certi suoni (che sono assolutamente da apprezzare in cuffia), l’ossessione quasi tarantiniana di voler rendere omaggio ai suoi grandi amori: l’elettronica, soprattutto di deriva francese. I nuovi stimoli che vengono dal “pop” più fresco e meno banale. La voglia di produrre cose sempre più complesse. Niccolò cambia registro ma in realtà torna alle origini (il progetto Tavrvs). Come se la maturità l’avesse solo messa da parte per raccontare una realtà che aveva bisogno di spiegare (soprattutto nel primo album) agli altri, più che a se stesso. Niccolò è cresciuto, si pone delle domande più complesse, così come è complessa la scelta del linguaggio: scientifico, puro, pieno di definizioni e di fisica. Niccolò è grande, ma si mette in gioco, si prende e ci prende per il culo (il modem, le distorsioni o il pitch che frena, le frasi volutamente fatte che ci fanno incazzare) ma sembra più lucido e attento che mai. Porge la guancia a critiche superficiali, ma non si nasconde. Aurora ci regala punti altissimi e cose più scontate. Ma si merita un secondo ascolto più attento, in cuffia o in radio, sullo schermo di un cinema, in streaming o nella playlist per la macchina. Questa è una raccolta da cui pescheremo spesso. Anche inconsapevolmente.