“La commedia” è una cosa seria. Arrivato al secondo album, Il Quadro Di Troisi dimostra di non essere solo una estemporanea diversione approntata da Donato Dozzy ed Eva Geist in tandem; il nucleo forte del progetto si irrobustisce – ormai ne fa parte a pieno titolo Pietro Micioni (lui e suo fratello sono due personaggio enormi, leggete qui) – così come la schiera di ospiti/collaboratori del nuovo disco è notevolissima, e questo lo state scoprendo e lo scoprirete ulteriormente in questi giorni sulle nostre pagine (abbiamo già pubblicato i nostri incontri con Francesco Messina, Max Bottini e Stefano Di Trapani, in arrivo altre interviste di alto, altissimo spessore – senza fare favoritismi, ma una di queste è davvero un gioiello).
Ecco, sì: a Soundwall non era mai capitato di dare così attenzione ad una release, dedicandoci in maniera diretta o indiretta quasi una decina di articoli. Merita così tanto, Il Quadro Di Troisi? La risposta per quanto ci riguarda è, chiaramente, sì. Ma è un “sì” che va spiegato per bene, che va motivato. Molto. E le motivazioni andranno ad innervarsi con la recensione vera e propria dell’album.
Donato Dozzy è diventato, per meriti acquisiti, un “santino” della club culture intelligente. Parlare bene di lui è diventato quasi un luogo comune. Parlarne male, (quasi) impossibile. Non siamo grandi fan dei “santini”, dei processi di santificazione, ecco. E ci fa sorridere che, sempre lo stesso Donato Dozzy, finché era a Roma era un mero resident del Brancaleone dato molto per scontato e considerato il giusto, quanto cioè può essere considerato un resident in Italia (ovvero: pochissimo); nel momento in cui invece si è trasferito a Berlino – uno dei primi a farlo, degli artisti di area danceflooriana – è diventato progressivamente un genio, un fuoriclasse, un santone. Indubbiamente stando in Germania ha affinato le sua abilità produttive, ha messo più a fuoco un proprio stile personale, è entrato in contatto prima e meglio di altri coi “giri giusti”. Quello ok. Innegabile . Di sicuro però il fatto di “stare a Berlino” ha generato, per i soliti provincialissimi riflessi, una impennata surrettizia del carisma suo.
Non era più il solito stronzo che vedevi ogni settimana al Branca. Sia mai. Era il venerato maestro che faceva techno colta e rarefatta a Berlino: una Berlino ancora “terra promessa” per i cultori più sofisticati della materia, un tangibile valore aggiunto, e non mero attracco bovino da Easyjet ravers come viene vista oggi da chi-ne-sa, da quelli che ti spiegano che “…lì a Friedrichshain un tempo era tutta campagna, e un monolocale te lo facevi a 350 al mese” (a scanso di equivoci: pure chi vi scrive più volte ha finito coll’essere questa macchietta, questo luogo comune. Oh sì. E ogni tanto ci casco ancora adesso).
La santificazione di Dozzy secondo noi diventa effettivamente corretta, anzi, necessaria per un motivo ben preciso: nel momento in cui si arriva a capire che lui avrebbe anche potuto cavalcare l’onda ed entrare nel giro dei soldi veri, macinando date su date, pagate ogni tre mesi sempre di più. Lo hanno fatto in tanti: chi ha beccato l’onda giusta “berlinese” (nel senso più lato dell’aggettivo) del primo decennio dei 2000, è passato in poco tempo da essere saltuario resident da 300 euro a botta se andava bene a superstar chiamata ai quattro angoli del globo a cinque, dieci, venti, trentamila euro a set. Facendo una serie di scelte strategiche nemmeno troppo difficili o impegnative, poteva tuffarcisi secondo noi pure il Dozzy, in questa dinamica. Invece, ha sempre fatto vincere il pieno controllo su se stesso, sulla propria musica, sulle proprie attitudini, sulle cose che davvero gli interessano nella vita e nell’arte. Non era l’amico di tutti, non lo è mai stato, per quanto lui sia di suo una persona molto gentile e cortese; ma, anche da fuori, si aveva chiara la percezione che ogni sua collaborazione e ogni sua alleanza fosse pura, sincera, non meramente strategica, non tesa ad aumentare la reach e il fatturato.
Una dote molto rara, di questi tempi. Rarissima. Di questi tempi, vista la quantità di soldi e di attenzione mediatica che è piovuta sulla techno-house-e-dintorni di stampo europeo ed underground nell’ultimo ventennio, in tanti ne hanno (lecitamente!) approfittato per diventare più adulti, diventare più fighetti, pretendere più stelle negli hotel prenotati e più zeri nei cachet pattuiti, perché si sa, meglio cogliere oggi quello che chissà se ci sarà anche domani (…e diciamolo: mangiare bene, dormire meglio e non farsi venire l’ansia controllando settimanalmente il proprio conto in banca è una cosa che piace a tutti, e spesso più ne guadagni di questo benessere più ne vorresti, tipo droga).
(la formazione attuale de Il Quadro Di Troisi; continua sotto)
Questo preambolo su Dozzy pare un po’ generico e un po’ slegato da Il Quadro Di Troisi. In realtà non lo è. Per nulla. Partiamo infatti da un punto fermo: “La commedia”, esattamente come il suo predecessore, è un disco profondamente retromaniaco. Consapevolmente? Inconsapevolmente? Non importa. Ma nessuno, veramente nessuno può pensare che questo riferirsi così intenso al synth pop ed alla disco / new wave anni ’80 sia paraculo, sia commerciale; e non è nemmeno l’ostentazione da digger “Guarda che cultura ho, adesso ti rifaccio gli anni ’80 esattamente come erano, guarda come sono bravo”. Nessuno. L’aura di Donato – e in misura minore di Eva – sono troppo forti. Lui è “santino”. Ma appunto, la santificazione ha pezze d’appoggio serie, non meramente fideistiche o opportunistiche.
Il motivo per cui Donato ed Eva con l’aggiunta ora, per certi versi doverosa ed inevitabile, di Pietro Micioni sono andati a ripescare un preciso periodo storico ed una precisa suggestione sonora è, per quanto ci riguarda, da un lato artistico – evidentemente piacciono certi toni, certi suoni – dall’altro soprattutto ideale. Il Quadro Di Troisi va infatti a ripescare una stagione in cui il pop, la musica di largo consumo, era ad un crocevia molto, molto particolare: da un lato modernista e quindi indirizzato al presente/futuro, visto l’arrivo dei synth e dell’elettronica su larga scala, non più solo eccentricità Kraftwerkiana o sghiribizzo aristocratica e snob sperimentazione classica contemporanea ma arma preferita del consumo pop di massa; dall’altro però intriso di una strana, diffuso malinconia. Un brano su tutti, che poi ha fatto da blueprint per un sacco di cose uscite in quel decennio lì, e veramente pensiamo valga più di mille parole:
Pensateci: parecchi grandi successi italo disco / synth pop / new wave di quegli anni se da un lato erano la colonna sonora dell’edonismo anni ’80, dall’altro – perché l’arte ha sempre un tocco di sensibilità in più – incorporavano in sé un blues molto strano, una malinconia strisciante, quasi l’avvertenza che tutta questa euforia diffusa a breve si sarebbe rivelata una sbornia, un’illusione, l’anticamera dell’ansia e della paura (su questo, su questa ambivalenza, Fabio De Luca c’ha scritto un piccolo capolavoro sopra).
Il motivo per cui a noi personalmente spesso dà fastidio tutto il feticismo attorno all’italo-disco anni ‘80 è che spesso, appunto, è mero feticismo, questo e non altro: si cerca di recuperare un’infanzia perduta (realmente vissuta, o solo immaginata) a-problematizzandola, cercando di celebrarne e vederne solo gli aspetti felici e belli. Tant’è che per molti italo-disco è quella cosa ai limiti del trash, ai limiti di Sabrina Salerno e Tracy Spencer su Deejay Television, ai limiti dei primi Vanzina; e recuperarne i suoni e i tic è un gioco meta-ironico e postmoderno molto narciso che tende sempre a tenere fuori dal quadro il brutto, il triste. Tant’è che si arriva a celebrare la factory disco italiana del bresciano e dintorni che sì, è stata un fenomeno incredibile con personaggi pazzeschi, ok, ma è stata anche – lo vogliamo dire? – un allevamento di polli e galline, in cui le release erano sfornate come uova a culo caldo e servivano solo a colonizzare il mercato, stando bene attente a non uscire dal seminato e a non prendersi troppi rischi. In questo modo, con le celebrazioni indiscriminate, va a finire che metti nello stesso calderone la rumenta italo-disco di peggior stampo e Mike Francis (tanto per citare un artista molto legato ai Micioni, uno che tra l’altro ha ottenuto molto meno di quello che avrebbe meritato). No: non va bene.
“La commedia” è uno di quei rari dischi palesemente retromaniaci e citazionisti di un preciso periodo storico passato che non ci ha dato fastidio. Il fastidio (amichevole, affettuoso) invece che proviamo anche per gente smodatamente brava come i Nu Genea o Dario Bassolino – bellissimo, il suo “Città futura”, davvero bellissimo e ben fatto: ascoltatelo – con il loro recupero della Napoli anni ’70 jazz-funk-disco. Perché nel caso partenopeo, è una operazione da digger, da dj festaiolo, che vuole tirare fuori il lato “divertente” della cosa, vuole dare dignità a una faccenda a lungo snobbata e trasformarla in arma di festa ironica ed autoironica. Non c’è nulla di male in questo, per carità; ma preferiamo mille volte – e lì davvero può essere questione di attitudine personale – chi ha invece fini più stratificati, più sfaccettati, più dolceamari, più critici, più ideologicamente articolati.
Non c’è ironia o autoironia, nella “Commedia”. Non ci sono strizzate d’occhio, toccate di gomito. C’è un disco serio, con testi seri (molto battiateschi, d’altro canto l’ombra di Alice si staglia spesso), con una cura certosina delle melodie, e con appunto un citazionismo sonoro che non viene usato come arma paracula per risultare più simpatici e piacioni e commerciali quanto invece per comunicare un preciso messaggio di rigore. Questo secondo album è un passo in avanti rispetto al primo, già ottimo. Qualche episodio meno riuscito c’è (“Il mare” è una chiusura un po’ debole, “La notte” ha sì dei deliziosi pad di synth molto bluesy ed atmosferici, ma nel complesso mah), però in generale è un lavoro quasi tutto inappuntabile, bello, che tiene sempre desta l’attenzione e la tensione, che ti prende nei pensieri e non ti molla più. Ti immerge in una estetica ben precisa, e lo fa con le armi più difficili: quelle del songwriting che deve interagire con melodia ed armonia, senza permettersi appigli facili sulla scrittura.
È un album, “La commedia” ancora più del suo predecessore, dove Dozzy in primis poteva vivere di rendita facendo il santone della techno “intelligente” che si diverte a citare il synth-pop anni ’80. Ma basta un ascolto non superficiale per capire che invece la storia è diversa, completamente. Il Quadro Di Troisi è un progetto a cui lui ed Eva Geist si sono abbandonati senza rete, dedicandocisi parecchio. Lo hanno fatto abbandonando le proprie comfort zone ed al tempo stesso – bel paradosso! – rendendo ben poco “comfort” una “zone”, quella degli anni ’80, in cui troppo spesso ci si rituffa con garrula e confortevole superficialità.
A tal proposito, c’è una cosa da considerare, e vediamo in quante altre recensioni apparirà: se da un lato il fatto che il disco esca in collaborazione con la Raster è un classicissimo “indice di qualità” (la label in questione è un altro “santino” dell’elettronica intelligente, anche qui per meriti acquisiti), dall’altro chissà se si noterà quanto è significativo che “La commedia” esca anche per 42 Records: da I Cani in poi, una delle etichette cruciali per il pop italiano di nuova generazione, al tempo stesso però una delle più eclettiche. È difficile che Il Quadro Di Troisi nel 2025 vada a Sanremo e prenda il posto di Colapesce e Dimartino (tanto per parlare di un’altra realtà di casa 42), abbiamo il sospetto resterà sempre un progetto troppo sofisticato e rompiscatole per i gusti semplici e i meccanismi pigri del mainstream di casa nostra, ma comunque questa ibridazione è interessante, e sotto molti punti di vista un glitch nel sistema del pop italiano, che oggi invece – dopo essersi pappato ed aver addomesticato il fronte urban – vuole vivere di certezze e formule già collaudate.
Disco insomma che ci è piaciuto molto, “La commedia”. Lo abbiamo apprezzato così com’è, abbiamo anche ben notato i passi in avanti – ad esempio come in qualche caso sono stati incastonati gli archi. Può migliorare ancora. Può divertirsi ad iniziare ad irrobustire le parti ritmiche di tanto in tanto, può scegliere di incorporare timbri a sorpresa, tipo le chitarre acustiche. Stiamo pensando a qualcosa in particolare? Sì, abbiamo in testa un benchmark ben preciso. Una della canzoni pop ballabili più belle di sempre. Una canzone intrisa di malinconia. Tanta, tanta malinconia…