Nic Sarno è senza dubbio uno degli artisti più curiosi, dinamici e polimaterici del panorama musicale italiano. L’ultima mossa – per certi versi a sorpresa, per uno che si è fatto un nome ai tempi della fidget house – lo vede in marcia assieme alla White Forest Records, label per la quale ha pubblicato l’8 dicembre 2017 “Satori”, album dalla grande continuità e comunicatività, ma anche label che di primo acchito uno vedrebbe più legata a nomi ad esempio del beatmaking italiano. Ma Sarno è, appunto, un artista vero, uno di quelli a trecentosessanta gradi. La sua popolarità, qualche anno fa, magari è arrivata a quelli che erano i “suoni del momento” dell’epoca, ma il suo spesso va ben al di là delle mode. Come questa bella chiacchierata dimostra.
2007-2017: sono passati dieci anni da “The Sample Truth” ed è evidente come fra frequantazioni, nuove ispirazioni e lavori il tuo stile sia cambiato, sino agli esiti a cui sei arrivato oggi. Cosa è successo alle tue sonorità? É un percorso, il loro, che ha cambiato anche te stesso?
Sì e no. Cioè, il cambiamento è continuo – ma è allo stesso tempo ciclico. Come il tempo, lo scorrere delle stagioni. Per esempio: quello che volevo fare nei primi anni, con le prime uscite, era una specie di antitesi al suono dominante di quel periodo, ti parlo del 2004/05: la techno minimal berlinese dominava incontrastata… ricordi? E dato che i movimenti più interessanti partono sempre da un’opposizione a un dominio, per me il senso di tutto era produrre un suono che fosse opposto a quelle cose. Ecco quindi una musica massimale, anche leggera e ironica, appunto in opposizione alla seriosità della scena berlinese; ed è stata una decisione naturale, per nulla programmata. Semplicemente, ero eccessivamente saturo di quel suono e spontaneamente, quando mi sono messo a produrre le prime cose, quanto facevo andava in direzione opposta. Prima con il progetto The Love Supreme, dove facevamo cose ispirate al Kraut Rock, a John Carpenter e alla disco più psichedelica e fricchettona; e poi da solo, mescolando la techno più caciarona degli anni 90, la roba della Dance Mania e l’house di Chicago, l’hip hop, la dance francese, la gabber, la musica colta… e qualsiasi altra cosa a caso che ti puoi immaginare. Era un gioco, ma era anche una ricerca tecnica. Le cose dovevano suonare in un certo modo: ipercompresse, gonfie, sporche. Quindi ci si “opponeva” a quel suono, si partiva da lui per creare qualcosa di diverso. Ma non era una lotta, intendiamoci: a me le cose berlinesi piacevano molto… solo in quel momento era tempo di cambiare, tutto lì. E infatti, dopo poco tutto è cambiato. Ora la sensazione che ho è quella di essere tornato al punto di partenza, il fatidico cerchio che si chiude. In “Satori” ho riversato tutto quello che mi ha ispirato a fare musica agli inizi: primi tra tutti Aphex Twin, Autechre e Boards Of Canada, che per me sono sempre stati come una sorta di sacra trinità. Poi la Raster Noton, la Touch, la Mille Plateaux, lo shoegaze, gli Orb, Bill Laswell, Steve Reich, i Tangerine Dream e Vangelis. Ma ci sono anche tante cose contemporanee che negli ultimi anni mi hanno influenzato parecchio: Burial, James Ferraro, Daniel Lopatin, Rabit, SD Laika, Lee Gamble, la Pan… Già che ci sono, ti svelo una cosa che non ho mai detto: in quasi tutte le mie produzioni del periodo della cosidetta fidget ho usato moltissimo campioni presi da cose IDM, microhouse e affini. Per esempio, nel remix che avevo fatto per Brodinski e Mumdance ci sono sample dei Matmos e dei Pan Sonic; in altre cose ho campionato da Oval, da Alva Noto, da Mouse On Mars. Insomma, ho sempre attinto da quel bacino, tentando però di mescolarlo con cose più pop e da dancefloor. Anche perché essenzialmente io nasco come dj, perciò mescolare le cose per me è una roba normalissima. Mi piace giocare con i generi e gli stili, da sempre. Forse il mio stile è non averne uno.
Restringiamo il campo a questi due anni: come è avvenuto il processo di creazione di “Satori”? Ne hai parlato come “una colonna sonora di un documentario mai girato sul mondo che si profila: dove la città è un laboratorio di sperimentazione perpetua sull’uomo“.
Ha iniziato a prendere forma dopo il mio primo viaggio in Giappone. Ero in un periodo molto cupo, poco ispirato, e quel viaggio mi ha fatto tornare la voglia di concentrarmi sul mio lavoro, in modo calmo e attento. Molto focalizzato. La storia del documentario è più che altro un’immagine, una suggestione: un’ idea di un certo modo di fare musica vicino al mondo delle colonne sonore. Come se volessi musicare sequenze cinematografiche, legate a eventi o anche oggetti e concetti. Allo stesso tempo si è trattato pure di intendere i brani come oggetti loro stessi, oggetti sonori, una cosa per me importante visto che ho questa propensione ad associare forme geometriche e biologiche ai suoni. Tipo, sentire un kick e vedere un cubo, o un accordo di synth e vedere dell’acqua. Mi piace questo aspetto sensoriale del suono. Dal punto di vista tecnico, che è un altro aspetto che mi interessa molto, il disco è registrato live, facendo cioè più sessioni e poi selezionando le migliori. Non ho voluto lavorare facendo editing per le stesure perché a fare così si tende a ragionare in modo troppo meccanico, per misure e frammenti, finendo per usare più gli occhi che le orecchie ma anche eliminando tutte le imperfezioni e le asimmetrie, che a me interessano invece. Per le registrazioni ho creato degli ambienti sonori con catene di effetti: compressori, limiter, EQ, riverberi, saturatori… e ho poi caricato tutte le tracce audio e midi di ogni pezzo in queste catene, per dare una sorta di continuità sonora. Volevo che il disco avesse una certa organicità, non semplicemente fare una raccolta di tracce. Spero di esserci riuscito. In più è il primo disco dove non ho praticamente usato campioni, tranne un paio di loop, il resto è tutto suonato e registrato, anche i glitch e le registrazioni ambientali.
C’è un messaggio che vuoi lanciare implicitamente con questa concezione di musica che travalica l’aspetto semplicemente uditivo?
Per me la parte “concettuale” del lavoro è qualcosa che avviene quasi sempre a posteriori. Difficilmente ragiono prima su quello che voglio fare per poi tentare di realizzarlo, sopratutto da qualche anno a questa parte. È invece più un processo in divenire, che non l’avere un preciso messaggio da veicolare al quale cerco di dare una qualche forma. Al contrario: capisco il messaggio, ovvero il contenuto, solo una volta che il lavoro è finito. Ragiono sempre dopo, mai mentre faccio musica. Perché l’aspetto comunque più importante, sopratutto per questo disco, è quello dell’ascolto immersivo, non quello di tentare di decifrare un messaggio. Poi naturalmente, che tu lo voglia o no, i messaggi ci sono; anche solo per il fatto che i brani hanno dei titoli che a loro volta rimandano a dei contenuti. Quello che però cerco di fare, da sempre, è di lavorare a mente vuota, senza obiettivi o scopi precisi. Diversamente da come per esempio si fa invece nei processi industriali, dove tutto è frutto di calcolo e previsione. È piuttosto un qualcosa di più simile alla pittura astratta. Più inconscio. Spesso anche del tutto casuale, più spontaneo e imperfetto… più “umano” forse, per quello che questa parola puó significare. Credo che questa metodologia sia utile per preservarsi da un certo tipo di serialità molto ripetitiva, tipica di tanta musica di oggi.
Onestamente ciò che mi è parso sin dal primo ascolto è che quest’album sia estremamente introspettivo e che sia stato creato prima per te stesso e poi per il pubblico: insomma si nota come ci sia tu, in prima persona e senza filtri, a raccontarci la tua storia. Mi sbaglio?
È così in parte. Diciamo che non credo molto all’idea dell’artista che fa cose solo per se stesso. O per meglio dire, l’artista “è” il pubblico, “è” la critica, non sono cose davvero separate.
Quali luoghi ed esperienze ti hanno concretamente ispirato per quest’album?
Beh, è abbastanza evidente: il Giappone. Però non volevo fare un album reportage o un concept album; volevo anche evitare facili esotismi sonori. Più che altro, ho preso Tokyo come paradigma del presente, di quello che stiamo diventando nel bene e nel male. In quella città ho trovato un miscuglio senza continuità di bellezza e alienazione, cosa che mi ha colpito molto. Ho provato una specie di empatia per quella società così prigioniera delle regole, ma anche delle mode passeggere, che però al tempo stesso riesce anche a darti un senso di serenità e stabilità. È una città molto razionale e con un forte legame con la tradizione anche. È davvero difficile distinguere l’utopia dalla distopia, in metropoli del genere.
Sono dell’idea che le copertine degli album abbiano molto da dire. Come hai concepito l’artwork della cover? Perchè hai scelto proprio quest’immagine, c’è una storia dietro?
Per motivi credo quasi banali. È una foto che ho scattato in metro a Tokyo, durante l’ora di punta, e mi sembrava avesse un qualcosa di epocale, nel senso che racchiude in una sola immagine un’epoca. C’è l’isolamento dall’esterno, e la connessione. Quell’uomo è nel mondo, in mezzo alla moltitudine di persone, ma è allo stesso tempo completamente isolato in se stesso, con gli occhi chiusi, la mascherina, le cuffie nelle orecchie per non sentire. È un lavoratore pendolare, ha il cartellino aziendale e la divisa d’ufficio; dorme in metro perché i ritmi di questa società non gli danno tempo per riposarsi se non negli spostamenti tra un lavoro e l’altro. È il classico colletto bianco di Tokyo, ma potrebbe essere anche Milano: è sempre in uniforme, lavora tredici ore al giorno ed è sottopagato. E mi interessava che fosse una foto fatta da un telefonino. Anche i video teaser che ho realizzato sono fatti semplicemente con l’iPhone e i suoi effetti di default. Poi c’è il colore verde quasi fluo del chroma key, che ho usato perché è un colore ultracontemporaneo. È un colore che viene usato per essere cancellato, una finzione, è il colore dell’artificio tecnologico digitale… che lo vedi ma non è reale. È li per scomparire, per creare un’illusione.
Sei passato da un tipo di sonorità tipiche del dancefloor a un tipo di musica molto più personale e “da ascolto”, della quale abbiamo già avuto un assaggio con “SPRSPR”: ti aspetti che il tuo pubblico cambi?
Questa cosa della musica “da ascolto” mi ha sempre fatto molto ridere… Me lo sono sentito chiedere parecchie volte negli ultimi anni: come se si potesse fare una musica che prescinda dall’essere ascoltata. Per tornare alla domanda, è già cambiato. La maggior parte di chi mi seguiva prima, perché suonavo determinate cose, ha smesso di seguirmi da anni. Ne sono consapevole. È strano sai, ma non credo insomma di avere un vero e proprio pubblico: nel senso che il modo in cui lavoro tende a non fidelizzare, a non creare veri e propri seguaci, perché cambia continuamente e spesso credo deluda le aspettative. Ma mi va bene così; per me le aspettative sono deleterie alla lunga. Se devo immaginarmi un pubblico che segue le mie cose spero siano persone poco dogmatiche e aperte, curiose e non troppo legate a un genere particolare… e che non abbiano sempre bisogno di essere rassicurate nell’ascoltare qualcosa che già conoscono. E se mi seguono, spero lo facciano fidandosi delle mie scelte. Come se non bastasse, ci aggiungo il fatto che i miei dj set sono molto diversi dalle mie produzioni: quando suono in un club, lo faccio per far sballare la gente, voglio che balli e si lasci andare, cerco uno scambio, mi metto al servizio delle persone che sono li in un certo senso. Mentre quando faccio musica di mio, tendo a fare cose più intime e “pensate” per un’ascolto solitario, e non posso far altro che soddisfare me stesso, visto che in quel momento sono solo. Insomma sono caotico e apparentemente contraddittorio, e questa cosa, al pubblico, generalmente continua a non piacere. Ma per me la contraddizione è vitale, ed è ovunque, è intrinseca al linguaggio stesso, alla cultura… Pensa agli italiani per esempio: amano i soldi ma odiano i ricchi. Oppure gli americani: vogliono la libertà ma sono ossessionati dalla sicurezza e dalla proprietà. Nel dialogo tra queste forze opposte si genera la società, e quindi anche le arti.
Ammesso e concesso che un artista debba essere in costante movimento e “aggiornamento”, pensi di aver trovato la tua strada con le sonorità di “Satori”?”
Assolutamente no, me ne guardo bene.