Prendi uno degli artisti più iconici (e strepitosi!) della contemporaneità, mettilo in una venue non spropositata per capienza ma dal potere iconico enorme in tutto il mondo: cosa può andare male? Ecco. Questo è quello che è successo a chi ha pensato di portare Kendrick Lamar all’Arena di Verona. Vale per il promoter locale, vale per l’agente internazionale che assegna le date in giro per il mondo, vale per il management dell’artista che ha il potere di dire di sì o di no sul dove andare a suonare. A tutte queste parti in causa immaginiamo sarà sembrata una idea semplicemente perfetta. Così perfetta da potersi permettere di alzare senza troppi riguardi il prezzo del biglietto.
…ah sì, poi diranno: “I prezzi sono stabiliti dal rapporto fra costi della produzione”, effettivamente altissimi in Arena, “e capienza”. Aggiungendo: “Non è che stiamo ladrando, è che le cifre sono quelle”. Sì, può essere, anzi, facile sia così, o almeno, diciamo che non si è lontani dalla verità; ma allora bisogna iniziare ad interrogarsi sul senso di produzioni sempre più grosse, tecnologiche e coreografate (…riusciamo a sentire la musica solo così?), anno dopo anno, tour dopo tour.
Poi però parlano i fatti. E i fatti dicono che, a mesi dall’annuncio e a poco più di tre settimane dallo svolgimento del concerto, il prossimo tre luglio, la situazione è questa:
I biglietti che vedete colorati sono quelli ancora disponibili (screenshot preso dal circuito di vendita di TicketOne). Non sono pochi. Non sono per nulla pochi, per una data che nel pensiero di molti doveva essere appunto perfetta e quindi semplicemente imperdibile. Bene, guardateli quei colori: solo i posti in blu scuro, i più lontani dal palco, costano meno di 200 euro (per la precisione siamo poco sotto i 190 euro); tutti gli altri superano questa soglia. È sold out solo il settore della gradinata non numerata: quello da cui si vede peggio, ma dove i biglietti costano (molto relativamente…) meno. Oppure non è sold out nemmeno quello: semplicemente nella visione “Posti in pianta” quei biglietti non sono selezionabili. In effetti paiono ancora a disposizione se si sceglie l’altra tab (…e lì i biglietti sono, diciamo così, “popolari”. col costo che supera di poco i 100 euro).
Ha senso, per un artista come Kendrick Lamar, una politica dei prezzi di questo tipo? Ha senso in generale che i concerti diventino un bene di lusso, perdendo la connotazione popolare da cui hanno origine? Perché sì: la spirale continua verso l’alto di prezzi e costi ha questo scenario qui come traguardo finale. Già lo scrivevamo. Andare sempre di più verso il mercato del lusso, dell’esclusività, del plusvalore da “evento” per gonfiare numeri e margini.
Il punto è che tutta questa dinamica, esattamente come la bolla dell’immobiliare, nasce dalla convinzione che l’interesse delle persone non può che aumentare; o almeno, l’interesse di chi ha un discreto potere d’acquisto (gli altri si ascoltino la musica su Spotify, possibilmente non crackato, e non rompano i coglioni). I concerti non possono che andare sempre meglio, l’esperienza del live non può che diventare ogni anno che passa sempre più desiderabile, le cifre che le persone sono disposte a spendere per vedere un artista non possono che essere più ampie stagione dopo stagione, tour dopo tour.
Vale soprattutto per i grossi concerti, i grossi nomi: attorno a loro è stata creata una narrazione tale da evento che si è reso organico, in questa narrazione, il fatto che andassero tutti de facto sold out.
E per un bel po’ di tempo è stato così. Effettivamente, è stato così.
Tant’è che fece rumore, qualche anno fa, un Ligabue che non riusciva a fare sold out negli stadi: ed erano talmente semivuoti, quegli stadi, che non potevi nemmeno rifugiarti nei “finti sold out”, una pratica da tempo assai diffusa, oh sì, fatta di vagonate di biglietti omaggio, di capienze ridotte artificialmente, di compiacenze degli organi d’informazione che leggono “Sold out” su un comunicato stampa e riportano fedelmente “Sold out!” nei loro articoli, con giubilo e magno gaudio. Anche in questa maniera è stata introiettata nel mercato (promemoria: il mercato siamo noi) la convinzione che un concerto con un grande nome in una grande venue non può che andare sold out: quindi parte la FOMO, e da lì l’accaparrarsi un biglietto in prevendita (…ah, ed evitiamo di parlare dei costi di commissione delle prevendite, ormai calcolato a percentuale e non a costo fisso, scelta solo in minima parte giustificata e giustificabile: ricordiamoci che il 15% di 20 euro sono 3 euro, il 15% di 200 sono 30, e ok le transazioni finanziarie per via telematica ma non può esserci questa differenza di costo fisso per la stessa identica operazine dal punto di vista tecnologico).
Ma questo modello si sta incrinando. Kendrick docet. Ma non solo lui.
Non è questione di gufare. Non è questione di odiare gli artisti mainstream. È questione di tornare a capire, a tutti i livelli, che esattamente come in qualsiasi mercato la crescita non è infinita
Al solito, ad andarci prima di mezzo saranno i pesci piccoli. Quelli che pensavano che in questa nuova Età dell’Oro ci fosse spazio per tutti: mercato in espansione, tuffiamoci! Tanto più che oggi la conoscenza musicale e i network relazionali sono molto più diffusi, un tempo in pochi potevano assemblare una line up di qualità oggi sono davvero in tanti che lo possono fare (…e lo capisci dal numero di festival dal cartellone davvero, davvero ottimo che c’è in Italia quest’estate proprio per quanto riguarda la musica “nostra”, quella un po’ più ricercata e di nicchia); e da qui l’illusione che, facendo le cose bene, i risultati non possono che arrivare.
Noi con tutto il cuore speriamo che i risultati arrivino. Abbiamo sempre fatto il tifo per le nicchie di qualità: per chi si informa sulla musica cercando le pepite e non le top 10, i consigli degli esperti e non gli spot pagati sui grandi media. Ma se da un lato c’è la speranza che un aumento della quantità e qualità dell’offerta stimoli il mercato di riferimento ed ampli la platea di potenziali fruitori, dall’altro stiamo appunto parlando di una speranza, non una certezza. E per gli eventi più piccoli, “bucare” può significare spesso e volentieri rimetterci delle cifre pesanti, dover ipotecare beni personali, vedersi la vita mezzo rovinata e non potersi nemmeno godere ciò che di bello ed artisticamente è stato creato: quando non hai alle spalle una grande copertura di liquidità, la vita è più grama. Poco poetico, ma è così. Oggi più che mai bisogna essere sicuri di non fare il passo più lungo della gamba.
Già.
E sapete perché?
Perché questa narrazione del mercato musicale in continua ed infinita crescita vendutaci prima di tutto dalle major dell’intrattenimento è in crisi. Il 2022 è stato atipico: la gente aveva accumulato soldi da un lato, dall’altro voglia di vedere musica dal vivo; e in più c’era il doping contabile dei molti concerti e festival del 2020 e 2021 con biglietti già acquistati, recuperati poi nel 2022.
Ora questo doping non c’è. Ma l’offerta non è diminuita. Per nulla. E le persone iniziano a spaventarsi, per questo eccesso di offerta. Iniziano a selezionare. Il portafogli non è infinito. I cachet di artisti e produzioni è cresciuto secondo un tasso di inflazione che non è minimamente paragonabile rispetto a quando sono cresciuti gli stipendi. E se per un po’ si è potuto fare affidamento sul fatto che la musica dal vivo fosse diventata così “seducente” che spendevi qualcosa in meno in cene e cocktail e qualcosa in più in biglietto per concerti, ora questa forza ammaliatrice sta iniziando a perdere forza.
Bisogna iniziare ad interrogarsi sul senso di produzioni sempre più grosse, tecnologiche e coreografate (…riusciamo a sentire la musica solo così?), anno dopo anno, tour dopo tour
Kendrick che non riesce a mandare sold out in una settimana o giù di lì i 12.000 posti dell’Arena di Verona è un segnale forte, dicevamo. Così come è un segnale forte il fatto che un sacco di “successi sicuri” italiani, artisti della nuova generazione capaci di sbancare sia gli streaming che i Sanremo, venduti a cifre che oscillano tra i 100.000 e i 200.000 euro a data, fanno fatica a raggiungere anche solo la metà del numero necessario di biglietti venduti per arrivare al break even, con perdite economiche a data di decine se non centinaia di migliaia di euro (per lo più a carico del promoter locale: l’ultimo anello della catena, il più debole). Queste cose nei comunicati stampa non le trovate ma tra addetti ai lavori se ne parla parecchio, però con un atteggiamento spesso da “Se non ne parliamo forse passa, forse non succede”.
Non è questione di gufare.
Non è questione di odiare gli artisti mainstream.
È questione di tornare a capire, a tutti i livelli, che esattamente come in qualsiasi mercato la crescita non è infinita.
La. Crescita. Non. È. Infinita.
Esistono dei punti di equilibrio tra domanda e offerta che ad un certo punto smettono di crescere cronicamente verso l’alto e invece calano, oppure addirittura proprio collassano. Solo che la musica, l’arte e la passione delle persone sono materie da maneggiare con cura: sono qualcosa in più di titoli su cui speculare in Borsa, perché si portano dietro un patrimonio di passione ed affezione ed anche di spessore della nostra vita social-culturale che non può essere derubricato a robetta sacrificabile e da trattare come il titolo quotato di una materia prima, di un lotto immobiliare o di una start up.
Ecco: il meccanismo delle start up. Lui. Bello e crudelissimo, implica che “Investo a cazzo su cento cose, una funzionerà e mi ripagherà dei fallimenti di tutto il resto”. Col corollario: “Per chi perde il lavoro nelle novantanove start up fallite, ne nasceranno subito altre novantanove che assorbiranno i lavoratori disoccupati”. Ora, si può discutere o meno su questo modello, ma una cosa vogliamo dirla: proprio perché attorno alla musica dal vivo si è creata questa narrazione di prestigio, di status symbol, di cultura che per avere ragione d’essere e d’interesse deve farsi evento sennò sono solo seghe mentali per i soliti quattro sfigati, allora esattamente come hai fatto innamorare le persone della musica dal vivo con questa narrazione “vincente”, al tempo stesso se l’andare a vedere musica dal vivo smette di essere status symbol sociale il crollo può essere improvviso, pesante, sanguinoso.
Non è questione di gufare, davvero.
Ma tira una brutta aria.
I piccoli giocano a fare i grandi, e i grandi giocano col fuoco. E tutti giocano con la certezza che la gente avrà ogni stagione che passa sempre più voglia di musica dal vivo, costi quel che costi. Ma se la fiamma si spegne o va fuori controllo, potremmo rimpiangere i momenti in cui si poteva costruire tutti insieme una crescita più lenta ma sostenibile, e si è invece puntato al bottino pieno ed alla crescita assoluta con ogni mezzo e cinismo necessario.
In una fase in cui anche i management degli artisti dal background fieramente indie sgomitano per entrare nel grande ballo del Capitale offerto delle multinazionali, dicendo che è per “…sviluppare meglio i propri progetti artistici”, siamo felici e motivatissimi nel lanciare questo avvertimento, questo grido d’allarme.
Lo riteniamo più importante e tempestivo che mai. Avremo portafogli vuoto, forse, ma coscienza in pace.