In realtà già si sapeva come andava a finire: quando una grande corporation prende un prodotto editoriale nato “dal basso” (vero, Vice? Vero, MySpace?) non può che andare a finire male. Il punto è solo capire quanto tempo ci si metterà prima che arrivi qualche esito ferale, o comunque profondamente negativo. Allora, i fatti: Condé Nast, per bocca (anche) di Sua Divinità Anna Wintour, ha fatto sapere che Pitchfork sarà in qualche modo “assorbito” da GQ. “Dopo attente valutazioni, abbiamo capito che questa è la strada migliore”. Cosa possa c’entrare GQ – soprattutto quello degli ultimi anni, nelle sue varie declinazioni nazionali – con la critica indie più elaborata e di nicchia, lo sa solo il cielo. O meglio, lo sanno tutti: niente. Meno di zero.
Che non sia solo questione di pensar male e di avere pregiudizi, lo dimostrano i mille messaggi che si stanno levando dai social tra simpatizzanti, collaboratori attuali ed ex – a partire da quello di Simon Reynolds sulla sua pagina Facebook – in cui si susseguono proclami di dispiacere, denunce di come già molti collaboratori siano stati accompagnati alla porta e in generale una fiducia scarsa o nulla sul fatto che questa possa essere una svolta se non positiva, almeno accettabile.
Ma appunto: lo si sapeva. Non era difficile prevederlo. Quando nel 2015 Condé Nast ha acquisito la testata, personalmente eravamo convinti che si trattava solo di capire quando era stato puntato il timer del “Va a finire tutto in merda”. Al massimo era affascinante come – e in misura minore è avvenuto lo stesso anche in Italia – la nicchia e l’indie di un tempo fossero stati assorbiti dal mainstream al servizio dei numeri e/o dalle avanguardie fashioniste (quelle che poi, in realtà, pensano prima di tutto a fatturare e a fare la bella vita). Ma davvero: che c’azzecca Pitchfork con, per dire, Vanity Fair? Chiedetelo alla simpatica Anna Wintour, vi risponderà con questa espressione:
L’illusione era che alla fine le due strade potessero diventare convergenti, all’insegna di una convivenza un po’ impura ma sostenibile, nel definitivo trionfo di quel processo di “coachellizzazione” per cui la musica che incontra il mondo della moda e dei social in una incestuosa ma gioiosa convergenza alla fine genera fatturato, molto fatturato, e quindi tutti contenti.
Dinamica che ha peraltro funzionato, con la musica live. I cachet impazziti degli artisti (italiani, stranieri, indie, non indie: hanno perso la brocca tutti quelli che hanno un minimo peso sul mercato) sono ormai una regola – oltre ad essere una “bolla” che esploderà, ma non divaghiamo. Dinamica che però non poteva funzionare con l’editoria musicale, evidentemente: ma questo perché uno degli attori in causa – il mondo dei social – era ed è naturaliter troppo feroce ed affamato. Non è riuscito a non cannibalizzare l’editoria. Sostituendosi in linea di massima ad essa, senza nemmeno chiedere particolarmente il permesso.
Il grido di battaglia che si leva sempre più e da sempre più tempo fra gli hipster, gli appassionati, i semplici curiosi, i sapientoni più incalliti ed informati, tutti quelli che volete voi, è: “A che serve la stampa musicale?”. Diciamocelo. Ora che i dischi li possono ascoltare tutti (gratis, o quasi), che una opinione la possono avere tutti (gratis), e che questa opinione può essere pubblicata su piattaforme con un sacco di traffico (gratis), chi se le fila la stampa musicale? Che senso ha?
Ma non solo, non è solo questione di utenza, di lettori, di abitudini di consumo. È questione anche degli artisti, e dei loro management: a parole fanno i romantici che incensano ancora l’importanza della stampa musicale, della critica professionale, della validazione di chi è un addetto al settore con comprovata esperienza. Belli loro. Belli, perché poi nei fatti accade sempre di più l’esatto opposto: artisti che trattano le testate come se fossero dei megafoni nemmeno troppo efficaci dall’unico compito di aumentare la reach, e chi prova a fare altro – tipo, esprimere qualche analisi critica – viene visto come nemico molesto da mettere sulla lista nera, o comunque da minacciare per intimargli di non azzardarsi più a far critica. Chi ha bisogno di una intervista o una recensione, su una testata, quando tu puoi fare tutto attraverso i tuoi social in modo più efficace in termini numerici, e controllando sempre e comunque il tipo di messaggio che viene veicolato?
Tant’è che le ultime grandi storie di successo, nell’editoria e non solo nell’editoria, sono quasi solo realtà che usano Instagram ed ultimamente TikTok come piattaforma: la loro utenza viene intercettata fra l’utenza che già di suo pascola sui social suddetti (lo fanno tutti, lo facciamo tutti; a partire da chi vi scrive, che è così romantico e rincoglionito da essere ancora affezionato a Facebook, figuriamoci). Fanno numeri eccezionali, a vedere la quantità di cuoricioni stampati sui post ed anche di commenti sotto i post suddetti, quindi di interazione reale. Abbacinati da questi, e nati senza l’idea di essere critica ragionata ma solo con l’idea di essere diffusore/aggregatore di notizie e vetrina per realtà già affermate, difficilmente questa nuova “evoluzione della specie” dell’editoria scrive cose che possano disturbare il manovratore (aka, l’artista e il suo team, e/o la major di turno che fa da inserzionista e ti appalta dei lavori di comunicazione).
Pitchfork soffre, e soffre non tanto perché sia calata la sua qualità da quando è stato rilevato da Condé Nast e perché si è molto infighettito e fashionizzato (cosa effettivamente successa), ma perché il grosso dell’utenza da molto tempo pare sempre più preferire i contenuti asettici: quelli che non offendono, non pongono questioni, non criticano, non si schierano, non pretendono una fruizione troppo vigile
Anche perché le poche volte che succede, che venga scritto qualcosa di non troppo ossequioso, viene ogni volta fatto passare come un inaudito e screanzato reato di lesa maestà. Oh sì: se provi a scrivere qualcosa di non positivo su un artista, un disco, un concerto, oggi molto più che in passato – proprio perché oggi la critica viene percepito come qualcosa di debole, un tempo non ti saresti azzardato – partono telefonate, diffide, velate minacce o esplicite conferme su come in futuro si sarà bypassati dai vari caravanserragli promozionali.
Questa situazione è, di suo, gravissima. Tragicomica, in certi aspetti; ma gravissima.
…ma di questa situazione evidentemente non gliene frega quasi niente a nessuno. O, si vede solo il lato tragicomico, quello buono per qualche battuta su X o qualche meme azzeccato fra amici.
Pitchfork soffre, e soffre non tanto perché sia calata la sua qualità da quando è stato rilevato da Condé Nast e perché si è molto infighettito e fashionizzato (cosa effettivamente successa) ma perché il grosso dell’utenza da molto tempo pare sempre più preferire i contenuti asettici: quelli che non offendono, non pongono questioni, non criticano, non si schierano, non pretendono una fruizione troppo vigile. Tutto il pensiero “negativo” – appunto, quello critico – è stato ricollocato nell’area del gossip, che è l’area più superficiale e ad “instant satisfaction” del lettore. Non è che la critica sia scomparsa, non è che la voglia di criticare un artista o una proposta artistica non ci sia più: è stata tutta spostata nella fuffa del gossip. Lo sappiamo bene pure qua a Soundwall. Se parli della lite di portineria tra Daniel Wang e Peggy Gou, fai in quanto a numeri il centuplo – ehi, non è un modo di dire – di quanto potrebbe fare una raffinatissima ed approfondita analisi sui limiti della produzione discografica e della capacità in console dell’amatissima coreana.
Bello, vero?
Per un cazzo.
Ma è così.
La domanda è: chi può invertire questo andazzo? Ipotesi numero uno: i giornalisti e le testate. Risposta: no, possono fare molto poco, perché in questo momento sono l’anello debole della catena alimentare, fanno fatica a sopravvivere, fanno fatica a pagare chi lavora per loro, chi riesce a vivere della sua capacità di scrivere e comunicare non è libero ma è quasi sempre – in parte o interamente – sotto ricatto se non delle persone e dei management, almeno dei numeri. Numeri che, come ricordavamo, in questa fase storica premiano più la superficialità piattissima o il gossip becerino.
Ipotesi numero due: gli artisti. A parole, loro ci starebbero dentro. A parole. A parole infatti tutti, ma veramente tutti vorrebbero il ritorno di una critica ed editoria musicale più cazzuta, più sfidante, più professionale, più ben fatta, più approfondita… Poi però arrivano i fatti. E i fatti dicono che i suddetti artisti, quasi sempre in questo mal consigliati se non proprio aizzati dalle strutture che li circondano, alla fine non fanno niente di concreto per aiutare il ritorno di una critica ed editoria cazzuta, perché è una cosa che in questo momento gli può procurare solo perdite di tempo e danni economici, di sicuro non guadagni. Quindi ecco, parti magari con le migliori intenzioni ma al momento del dunque ti dici: perché devo complicarmi la vita? E, infatti, non se la complicano.
Le interviste ai giornali le rilasci solo quando hai qualcosa in uscita o una data importante, e ormai lo fai più per routine che per senso del dovere; dietro ai tuoi social invece ci lavori ogni giorno, di continuo infatti tu o chi per te sfornate contenuti. Del resto, sempre più le interviste che si sceglie di fare sono quelle “facili”, quelle ad ampia reach – media generalisti, televisioni, quotidiani – ma non problematiche, non settoriali, non affidate ad esperti; ti passa anche la voglia di parlare coi giornalisti allora, tanto vale concentrarsi come energie ad essere creativi&simpa su Instagram o TikTok.
A scanso di equivoci: lo capiamo. Non ne facciamo una colpa, agli artisti.
L’unico vero cambiamento può arrivare dall’utenza, da voi che leggete, da tu che leggi. Solo ed unicamente quando si inizieranno a prendere le comunicazioni degli artisti attraverso i loro canali per quello che sono – informazione “addomesticata”, volutamente celebrativa ed aproblematica, quindi irrilevante – e quando si inizieranno a punire ignorandoli i siti che si comportano come se fossero di volta in volta i social degli artisti suddetti, ecco, solo in quel momento qualcosa tornerà a cambiare.
Lo scenario dell’editoria musicale è scarso, è molto meno interessante e forte di un tempo? Beh, detto in francese: grazie al cazzo, ovvio che è così! Provateci voi ad essere forti e rilevanti con numeri in costante calo, con risorse quasi inesistenti, con la consapevolezza che se provi a pubblicare qualcosa di “difficile” di sicuro 1) ti complichi la vita 2) non sarai granché premiato dai lettori.
A furia di fare gli intelligentoni che spalano merda su Pitchfork che è diventato hipster-fighetto (e lo è in parte diventato), su Resident Advisor che è tutto una pastetta, su Rolling Stone che non parla più di vera musica, giusto per fare tre esempi significativi, il risultato che alla fine per informarvi vi resterà solo il post su Instagram o il cabaret su TikTok, perché è solo lì che gli artisti – che sono la prima fonte di notizie, di informazione – andranno a distribuire contenuti.
Poi chiaro, abbiamo talmente tanto tutti delle scorte inerziali di “cultura musicale” accumulate nei decenni che ci permettono di ascoltare i brani in streaming vecchi o nuovi che siano e di giudicarli, analizzarli, contestualizzarli, che ciascuno può essere oggi il giornalista musicale di se stesso. Ma ciò che di cui ci si rende conto troppo poco è che ci siamo infilati in un sistema che strutturalmente, strutturalmente!, sta prosciugando sempre più la potenziale nuova linfa di questa “cultura musicale”. Perché questa è una “cultura” dal DNA ben preciso, dalla genetica ben precisa: si nutre dall’incontro/scontro tra gli artisti da un lato, e gli analisti bravi e preparati dall’altro – e il problema è che in novantacinque casi su cento si può essere costantemente bravi e preparati ed aggiornati solo se si opera in modo continuo, e quindi – diciamolo, anche se è impopolare – a livello professionale. Come insomma lavoro retribuito.
La chiusura di un outlet editoriale professionalizzato è una sconfitta per tutti. Anche se quell’outlet specifico ci sta sulle palle. Chi guarda il dito si rallegra che il Pitchfork molto scaduto di qualità negli e molto “modaiolizzato” ora rischia di soccombere e scomparire sotto la stupidera effimera di GQ e i business plan cinici della Wintour; chi guarda la luna, sta invece sentendo una fottuta paura. Il destino che ci aspetta è che la musica diventi una cosa così superficiale nella sua fruizione e così poco importante da non meritare una analisi critica ed un ecosistema editoriale professionale? È questo? È questo davvero?