La mia generazione, quella che è stata adolescente a cavallo con l’avvento del nuovo Millennio, è stata presumibilmente l’ultima ad essere legata mani e piedi ad MTV ed alla radio come reali mezzi di ispirazione musicale. Prima che l’avvento del web e del peer-to-peer aprissero un Universo nuovo e tuttora impareggiabile. In particolare le frequenze FM sono state compagne fidate durante le tante mattine in cui obbligavo mio padre a sentire la peggio italodance su DiscoRadio mentre mi portava a scuola. Ricordo interi pomeriggi a cercare di vincere una Master League a Winning Eleven insieme ad un amico di una vita con in sottofondo la DDD compilation e l’inconfondibile voce di Marco Ravelli a fare da sottofondo.
Poi arrivarono i tempi di M2o, della hard dance e dei primi contatti con l’hardstyle. Ricordo quanto, come una spugna, godessi nell’assorbire tutto ciò che mi veniva proposto con reale curiosità. Non tutto, ovviamente, era di mio gradimento. Ma c’era una voglia di mettere le mani nella sabbia e scavare di cui, almeno riguardo la musica, oggi sento un po’ la mancanza.
Ricordo ancora oggi la prima volta in cui ho ascoltato per caso “Stardust”, il programma serale di Paolo Bolognesi. Stavo giocando a qualche videogioco ed appena iniziata la musica avevo messo in pausa pensando: “Fermi tutti, cos’è questa roba?“. Il suono electro house, le prime epiche minimal. In particolare un disco di Trentemoller, “Rykketid”, fu qualcosa che davvero mi cambiò la vita. So che sembra paradossale ridurre tutto ad un singolo momento, ma per me quel disco è stata la linea di demarcazione fra tutto ciò che era stata la mia infanzia musicale e quello che sono diventato oggi.
Paolo Bolognesi è stato indiscutibilmente il primo contatto avuto con un certo tipo di suono. E’ stato il perno intorno a cui tutto ha iniziato a girare per un ragazzino di Milano che al massimo era stato a ballare in discoteche di montagna durante le vacanze o in qualche pomeridiana orribile in città. Seguendo le molliche di pane lasciate per terra sono presto arrivato ad Emanuele Inglese, ad Emix e D-Lewis ed a questo party misterioso chiamato Diabolika, di cui al tempo venivano trasmesse le dirette dall’NRG di Ciampino il sabato notte sulla stessa M2o. Oggi, guardandosi indietro, si cerca sempre di ricordarlo come un party trasgressivo, scandaloso. Qualcosa di mai visto prima.
Premesso che non ho potuto viverne realmente la parte romana, posso parlare solo per quello che ho visto coi miei occhi. E’ molto probabile che nei suoi primi anni con Vladimir Luxuria al timone, tra Muccassassina e Scandalo, il concetto sia stato molto più libero di essere modellato. Ma party molto trsgressivi come Pervert, Folies De Pigalle, Le Plaisir et simila erano già presenti in maniera stabile nell’immaginario collettivo a diverse latitudini nel Nord Italia. Del resto, musica elettronica e sessualità trasgressiva affondano le radici nella stessa terra da sempre. La vera differenza è stata quella di mantenere una consistenza sotto questo aspetto anche quando il progetto è diventato, per forza di cose, qualcosa di mainstream. E questo, specialmente in Italia, non è affatto un gioco da ragazzi. Infatti questo aspetto si è via via andato a spegnere man mano che il concept si è espanso in giro per lo Stivale, favorendo l’emergere di quello che – almeno per chi scrive – è stato il suo vero valore.
Se dovessi mettere il punto su cosa ha reso realmente speciale la mia esperienza con Diabolika, non penserei né alle drag queen e nemmeno alla gente vestita con le perle e ad altre derive modaiole francamente rivedibili. Il vero punto di forza di Diabolika è stato quello di aver rimesso – ad anni di distanza dagli albori della nostra scena – dei dj italiani in cima alla catena alimentare nazionale. Questo nonostante di ospiti grossi, anche dalle parti di Ciampino, negli anni ne siano passati eccome. Diabolika ha ricreato quel concetto prestato dallo sport secondo cui il nome scritto sul petto vale molto più di quello sulla schiena. E così, almeno per un po’, essere del Diabolika contava molto più di tutto il resto. E infatti, da quel momento in poi, tutti hanno voluto averne un assaggio.
Il mio è stato il 2 marzo del 2006, al Rolling Stone. Un locale che ha davvero fatto la storia della nightlife milanese: dalla rissa colossale con Ice-T in mezzo al pubblico fino ai B-movie con Jerry Calà e Diego Abatantuono, quelle quattro mura le avevano viste davvero tutte nel corso dei decenni. Personalmente però, la quantità di gente avvistata quella notte – dentro e fuori – rimane un qualcosa di inimmaginabile. Non sarebbero bastati tre club per farceli stare tutti. Ed anche quando la festa era ben oltre l’apertura, ci saranno state almeno duemila persone fuori a sperare nel miracolo. Quante volte un concept locale, senza guest internazionali, si era permesso di entrare a gamba tesa in maniera così dirompente sull’intera scena nazionale?
Di quella notte ricordo i cartelli col nome dei dj, i cori da stadio, il caldo torrido e la gente non proprio meravigliosa in pista. Ma soprattutto un Lou Bellucci scatenato sul palco, vestito con un kilt scozzese rosso. Il vocalist, nella cultura musicale italiana, ha sempre avuto un ruolo centrale fino poi finire per scomparire col passare del tempo. Lou Bellucci è stato forse l’ultimo grande vocalist dei nostri tempi. E per quanto io sia sempre stato convinto che avere uno che urla sopra alla musica sia un male assoluto, il trasporto che aveva, insieme al compagno Henry Pass, sulla gente quella sera era qualcosa di sensazionale. Erano tutti alla sua mercé. Ipnotizzati da un party vissuto sempre a cento all’ora. Inspirando a pieni polmoni.
E forse, come tutte le cose belle ed un po’ pazze, vederlo scomparire all’improvviso – senza avvisare, come cantava Fabio Concato – prima che il passare degli anni potesse farne sfiorire il ricordo, ha reso ancor più memorabile ed iconica la sua figura.
Ma a riportare in auge quel periodo bellissimo ci ha pensato “Generazione Diabolika”, il documentario nato dall’idea dei produttori Giuseppe Di Renzo e Gianmarco Capri e del regista Silvio Laccetti che parte proprio da una reunion a cui Lou avrebbe dovuto prendere parte – salvo poi venire a mancare poche settimane prima – e ripercorre, passo dopo passo, la storia di uno dei party che hanno davvero segnato la nostra generazione. Ed il fatto che sia stato un milanese a scriverlo dovrebbe rendere meglio l’idea di quale sia stato realmente il suo impatto.
Restate alla finestra, vi terremo informati molto presto.