“Beh, è un pezzo che io e Sfera ci conosciamo, ci capitava di stare negli stessi posti, parlare un po’, poi quest’estate a Ibiza ci siamo incontrati e lì ci siamo detti che era arrivata l’ora di fare qualcosa assieme”: in passato le collaborazioni fra le stelle internazionali – Gordo lo è di sicuro, e lo era anche quando aveva il moniker Carnage – spesso erano apparecchiate “in vitro” dalle major, stavolta per “No no no” (dove c’è anche la produzione del giovane talento Draxx!) le cose paiono essere andate in maniera molto più organica. Ecco: che Gordo abbia collaborato con Sfera è la scusa ufficiale per questa chiacchierata (la traccia in questione fa parte della release “No Hay Verano Sin Gordo”, una serie di collaborazioni fra Gordo e voci latine/mediterranee). Ma in realtà più che la spicciola attualità ci interessa il quadro complessivo. Gordo è un personaggio potenzialmente interessante per più motivi: per la sua “doppia vita” artistica (prima Carnage, bass music, EDM e scelte crasse, ora Gordo, house music, ogni tanto rap e molto vibra da jet set del clubbing techno/house), per il fatto che è stato uno dei primi e uno dei più importanti a fare la virata dall’EDM all’house (in passato spesso è accaduto l’opposto: vero, monsieur Guetta?), per vedere l’effetto che fa a uno che arriva dal mondo più americano/commerciale il mondo “nostro”, seppure nella sua dimensione più altolocata e non particolarmente underground.
Come spesso accade quando parli con qualcuno dal background diverso dal tuo, e questo qualcuno ha una mente incisiva e non si tira indietro a dire le cose, la conversazione è venuta fuori decisamente interessante. Se si legge con attenzione, ci sono mille spunti possibili per mappare la grande confusione sotto il cielo che c’è, in questi anni, nel clubbing. E nella sua crisi d’identità – ma per ora, non crisi monetaria – nell’essere un po’ di qua (i valori originari) un po’ di là (le regole del mercato ai suoi più alti livelli). Buona lettura, alla ricerca degli spunti più interessanti – senza perdere il tempo a fare tifo da stadio pro o contro, ma cercando di capire le dinamiche vere e più o meno ipocrite.
Ti faccio subito una domanda potenzialmente scomoda: fino a che punto sei un artista, e fino a che punto sei invece un uomo d’affari? Perché oggi spesso, soprattutto nel nostro ambito danceflooriano, si tende ad essere sempre più entrambe le cose…
Ti racconto una cosa: settimana scorsa ho avuto dei problemi con delle persone che avevano iniziato ad avercela con me, e sai perché? Perché avevo lavorato con un determinato promoter e non invece con loro. Mi dicevano: “Lui è uno che ti può comprare solo coi soldi, lo sai?, perché ne offre un sacco, più di quello che possiamo fare noi”. Sai che ti dico? È giusto così! Spesso è giusto così! E non bisogna restarci male. Perché sono anche affari, amico…
Lo sono?
Sì: per me gli affari contano, nella mia carriera da musicista. I soldi contano. Vero. E parlo così per un motivo ben preciso: perché quando ho iniziato io, a suonare, non avevo un maledetto soldo. Capisci? So cosa significa non averne. E lo so due volte: perché sono partito squattrinato, poi sono diventato ricco, poi ho perso tutto quanto, tutto!, e lì di nuovo ho dovuto rimboccarmi le maniche per tornare a stare a posto. Dicono che i soldi non possono dare la felicità; ok, va bene, di sicuro però possono darti un po’ di tranquillità – che non è poco, credimi. Io voglio stare sereno, voglio poter viaggiare, voglio potermi occupare dei miei cari: a questo mi servono i soldi, non solo per averli dalla mia tanto per averli e poter ostentare ricchezza. Oddio, quest’ultima cosa l’ho anche fatta in passato, i gioielli, le macchine, ‘ste cazzate: ma ero giovane. E inseguendo ‘ste cazzate, ho perso tutto quello che avevo guadagnato. Anche questo mi è servito da lezione. Ma per rispondere definitivamente alla tua domanda: credo debba essere 50/50. Se sei un artista e pensi solo al business, senza mettere un po’ di personalità in quello che fai, alla lunga non vai da nessuna parte; ma anche se ti specchi nel fatto di essere pieno di personalità ma non hai la minima idea di come si conduca il business, difficilmente avrai molta strada davanti a te.
Tempo fa avevo letto una tua intervista piuttosto interessante su Billboard: raccontavi di come il passaggio di identità da Carnage a Gordo avesse significato per te, queste le testuali parole, dover “abbandonare la comunità di fan che avevo costruito”. Quanto è difficile costruire una comunità di fan?
Non è facile, no. Ma non bisogna nemmeno esagerarne la difficoltà, comportarsi come se fosse una cosa impossibile come se fosse un miracolo riuscirci… Quanti siamo in questo mondo? Nove miliardi, più o meno? Ecco. Credo allora che non sia così miracoloso, lavorando duro, riuscire ad attirare l’interesse di – diciamo – un 100.000 persone, tra la tua pagina Instagram e tutto il resto. No? Sai invece a chi questa sembra una cosa difficilissima, ai limiti dell’impossibile? A chi non ha paura di fallire! A lui sì! Ogni processo di crescita passa attraverso difficoltà e fallimenti. Ma è normale: bisogna restare concentrati sui propri obiettivi, senza deprimersi, senza arrendersi. Sbagliare è normale, i fallimenti sono sempre dietro l’angolo. Ma non per questo ti devi fermare.
Carnage però non era stato un fallimento, come avventura artistica. Difficile chiamarlo tale. Eppure, ad un certo punto lo hai buttato a mare. Come mai?
Perché sentivo il bisogno di ripartire da zero. Proprio da zero, capisci? È come quando divorzi: non per forza la persona che lasci è così orribile, è che semplicemente… hai bisogno di ripartire da capo, ecco.
Quelli dell’elettronica? quelli che per una sera amano fingersi gente del ghetto, ma quando è la comunità dei ghetti che arriva davvero da loro, beh, allora ne restano un po’ interdetti, un po’ infastiditi
E nel tuo ripartire da capo hai abbandonato almeno in parte la EDM, hai abbandonato la dubstep degli esordi ed hai abbracciato deciso la via della musica house. Come mai? Cosa ti affascina, della house?
Che è una cultura. Ecco cosa mi affascina prima di tutto. Una cultura dalle radici profonde. Una cultura dalle radici così profonde che può permettersi di essere scarna, essenziale; e nonostante questo, arriva forte alle persone. Dici bene: io prima stavo al cento per cento nel giro della EDM originaria, e sai cosa? Ad un certo punto quella roba lì è diventata un bolla che è esplosa. Era diventato un luogo contavano solo i numeri, quanti streaming facevi, quanti biglietti vendevi… Un contesto in cui avevi il tuo slot da un’ora nei club e nei festival, facevi il compitino, tornavi a casa coi soldi e finita lì. Nella scena house ho visto molta più autenticità e meno ipocrisia, anche per quanto riguarda l’uso delle droghe… Nella nostra scena più mainstream è taboo parlare delle droghe, no? Ed è paradossale, considerando quanta gente che fa parte di questa scena usa le droghe. In apparenza tutti puliti, perfettini, in gran forma fisica, pronti ad andare in palestra regolarmente; poi nella realtà dei fatti sei sfatto anche tu, esattamente come chi se la tira molto di meno da persona irreprensibile e salutista, se non peggio. Quindi sì, nella scena house ho trovato molta più sincerità, molta meno ipocrisia. E ho trovato donne più belle. E party migliori. (ride, ndi)
Ah ecco! (risate, ndi)
Scherzi a parte, spesso se parli con persone più vecchie di te, magari proprio i tuoi genitori, ti parlano di queste feste di trent’anni fa, di quando la musica house si era diffusa originariamente, e lo fanno come di eventi incredibili, mitologici, dove tutto era più intenso, più vero. Ecco, io arrivando da un contesto molto corporate come quello dell’EDM ho deciso di provare a vedere dove stavano invece le radici, per capire se potevo ritrovare un po’ di questa intensità di cui tanto si parlava. C’era questo e c’era, in generale, il gusto della sfida: non è male abbandonare tutto quello che hai conquistato per provare a ripartire da zero in un altro contesto, non credi?
E come è andata? Ti sei sentito subito accolto nel giro della house? Che non sempre è un giro accogliente ed inclusivo senza riserve, sa essere anche abbastanza snob ed elitista, se arrivi “da fuori”, come nel tuo caso…
Oh sì assolutamente, sa essere così, certo che sa essere così. Ma sai cosa? Io almeno per un paio d’anni ho iniziato ad andare regolarmente alle serate house, lasciando perdere quelle EDM. Soloolo andare alle feste, eh: da clubber, non per suonare. Lo facevo per far capire a tutti che a me questa cosa piaceva, per me era un divertimento reale esserci, non una mossa strategica, una scelta di carriera. Perché era effettivamente così. Ero curioso ed entusiasta davvero. In questo modo ho guadagnato la fiducia di gente come Marco Carola, Joseph Capriati, i Tale Of Us, persone che fin da subito hanno deciso di accogliermi e di darmi una mano perché hanno capito che il mio entusiasmo era reale, sincero. Hanno capito che mi sono avvicinato al mondo della house perché volevo sentire le radici di tutta questa storia, prima di tutto.
Loro comunque avevano idea di chi fossi, o eri per loro solo un tizio che si aggirava per le loro serate?
Ma certo che lo sapevano! Sai, quelli che arrivano dall’underground a lungo tempo hanno fatto pochi, pochi soldi. E per questo motivo non credere che non guardassero con attenzione chi i soldi li faceva: non è che stavano nel loro mondo alternativo e se ne fregavano del resto, sapevano benissimo chi era Steve Aoki, sapevano benissimo chi era David Guetta, sapevano benissimo chi era Martin Garrix. E sai perché lo sapevano? Perché a lungo questa gente ha fatto molti più soldi di loro! E vale anche per me! C’è stato infatti un momento della mia vita che i miei cachet erano il quadruplo di quelli dei più grandi nomi della techno e della house. Perché così andavano le cose. E loro questo lo sapevano, non è che non lo notassero. Ma anche per questo, quando mi hanno visto arrivare ai loro eventi ed hanno capito che era lì per imparare, per gustare la situazione, e non per ostentare o fare chissà che, hanno deciso di accogliermi bene.
(Gordo, oggi; continua sotto)
Senti, fin dai tempi dell’EDM e della dubstep tu hai sempre comunque usato molti elementi hip hop e trap nella tua musica. Qual è lo stato di salute del rap, oggi? Qual è lo stato della cultura hip hop?
Pessimo. Pessimo. Pessimo. Guarda, la cultura hip hop è praticamente morta.
Uh. Un’affermazione forte. Morta?
Morta.
Ma come mai?
Parlo dell’America, che è la situazione che conosco meglio. La cultura hip hop è morta per un motivo molto semplice: la saturazione. Troppa, troppa gente che prova a fare le stesse cose. E nel farle, per farsi notare cerca di farle sempre più scure, sempre più cupe, sempre più disperate. Sai vero che oggi la scena hip hop è un gran brutto posto, in America? Un sacco di litigi, un sacco di dispute, gente che prova ad ammazzarsi, gente che va in overdose di continuo, tutti imparanoiati… Davvero: un mare di negatività. E tutto questo riguarda sia gli artisti, che il pubblico: oggi se vai ad un party hip hop è molto più facile che tu finisca in mezzo ad una rissa, che qualcuno cerchi di derubarti. Il risultato? Il risultato è che le ragazze giustamente si tengono sempre più alla larga da tutto questo, e se le ragazze se ne tengono alla larga vedrai che piano piano inizieranno a farlo anche i ragazzi. Sta già succedendo, del resto; e sai in tutto questo qual è la cosa interessante?
Vai.
Che chi sta progressivamente abbandonando la cultura diciamo così urban, si dirige verso i giri dell’elettronica. E come reagisce la comunità dell’elettronica? Schifandosi! Almeno in parte, schifandosi! Senti, ti faccio un esempio molto chiaro: a molti dà fastidio che si mescolino elettronica e reggaeton, no?
Vero.
Però pensaci, chi è che se ne lamenta? Solo una parte: quella dell’elettronica! Sono loro che vogliono sempre fare gli esclusivi. Difficilmente sentirai un fan del reggaeton lamentarsi perché c’è troppa elettronica in un brano, no? Molto più facilmente sarà il fan dell’elettronica che ad un certo punto inizierà a parlare infastidito che il reggaeton inizia ad essere dappertutto. Immagino sia così anche in Italia, no?
Immagini bene.
Immagino anche che quelli del clubbing non amino la nuova ondata di rapper di successo in Italia, vero? E men che meno amano il fatto che essi possano essere associati in qualche modo regolarmente ad eventi di musica elettronica…
C’hai preso anche qui, almeno in parte.
Vedi? Eppure rap, reggaeton o, guardando al Sud America, il baile funk sono musiche che arrivano dagli strati più popolari della popolazione: è forse questa la cosa che fa paura, in realtà?
Questo è un ragionamento molto interessante.
Non è che per caso sono quelli dell’elettronica pensano di poter decidere cosa è giusto cosa no? Sì, quelli dell’elettronica: quelli che per una sera amano fingersi gente del ghetto, ma quando è la comunità dei ghetti che arriva davvero da loro, beh, allora ne restano un po’ interdetti, un po’ infastiditi…