Ieri è apparso un post sul profilo ufficiale di Tiga molto, molto significativo. Lo trovate qui, mentre qua sotto vi diamo l’embed una traduzione (dove abbiamo fatto anche attenzione a certe sfumature linguistiche, perché questo è un post che va capito per bene):
Ecco qua qualcosa di cui non parla nessuno: cosa succede quando NON spacchi. Quando succede quando sei tu quello che non è stato in grado di rendere figa la serata. Le tue scelte sono lente, le tue decisioni si basano su presupposti sbagliati, ondeggi tra indecisione ed eccesso di sicurezza. I dischi che suoni suonano mosci. Non riesci ad entrare in sintonia con la pista. Non riesci ad afferrarne il centro gravitazionale. Per darti un po’ di sicurezza, scegli di assumere un piglio arrogante. LORO ovviamente non capiscono che sta succedendo. La “gente”. Quella massa ignorante non ci arriva a capire come stanno le cose: che io sono un tormentato post-trance, deep-funk, acid anti-tech-house futurista, martire di un pop infettato di groove. E non capisce che anche se mi sto sbattendo zero, se il mio piglio è anemico, la mia playlist è tremendamente naïf e se la mia presa sul dancefloor è completamente compromessa, lui dovebbe comunque inchinarsi di fronte alla mia REPUTAZIONE, mettendosi così ad urlare, applaudire, impazzire.
Ma no. Ci sono delle notti in cui la gente capisce benissimo qualcosa che tu invece non arrivi a capire. E allora, per un paio d’ore, manca la musica. Scompare. Tu sei lì, ma lei non c’è. E va bene: in questo modo è tutto più magico quando riappare, in un’altra città, in un’altra serata.
Quindi sì, scusa Roma: ti amo, ma stasera proprio non ha funzionato.
Con amore, T
Troviamo che sia un post bellissimo. Perché riporta una dimensione che in molti, troppi stiamo perdendo: quella umana. La club culture si sta de-umanizzando. Sempre più. Inevitabile: è (anche) un’industria. E’ anche un contesto da cui dipendono posti di lavoro, la possibilità per molte persone di arrivare a fine mese, scelte di vita ed imprenditoriali. La pressione professionale si è fatta insomma più alta. Attenzione: questo non necessariamente è un male. Perché in effetti, ti può obbligare a lavorare più, meglio, con più attenzione, con più preparazione, con più conoscenza della materia. Infatti oggi, fra gli organizzatori di serate da club, c’è mediamente molta più competenza, molta più onestà, molta più consapevolezza rispetto a dieci o venti anni fa. Quindi no, il nostro non è un elogio del “Si stava meglio quando si stava peggio”. No. Si stava peggio quando si stava peggio, e stop. Ma se nel caso degli operatori del settore è comprensibile – e appunto per certi versi anche auspicabile – una maggior “freddezza professionale”, che ti porta come side effect negativo ad essere un po’ più cinico, c’è invece una componente che ha il potere e dovere di mantenere il giusto equilibrio: quella componente sei tu. Tu che leggi. Tu che vai alle serate. Tu che sei il motivo per cui la club culture esiste – perché se non ci fossi tu, che balli in pista, che paghi il biglietto d’ingresso, che segui le release, che leggi i giornali specializzati, non ci sarebbero i club, non ci sarebbero i festival, non ci sarebbero i dj, non ci sarebbe nulla di nulla.
Ecco. Tu allora hai una grossa responsabilità. Devi concedere, anzi, devi pretendere che la musica sia un fattore umano. Il che significa che ogni tanto, esattamente come racconta Tiga, ci sono serate che nascono sbagliate, che non decollano, che non trovano mai la quadra giusta. Ci sta. Succede. E’ una cosa che non deve scandalizzare nessuno. E’ una cosa che non deve indignare nessuno. Ma non deve essere nemmeno il pretesto per prese di posizione da fanboy, “Tiga sei un grande, Roma è una merda, non è certo colpa tua” come ci è capitato di leggere o di sentire. Chi fa così, capisce esattamente il contrario di quello che Tiga vuole comunicare – e non lo sta difendendo, lo sta invece praticamente ed involontariamente insultando. Perché Tiga è il primo che sa che non ha fatto bene il suo dovere. E’ il primo che sa di non essere all’altezza. E sta dicendo chiaramente – c’è un passaggio molto significativo, quello dell’inchinarsi – che non vuole che la gente a prescindere lo difenda, lo magnifichi, lo consideri un grande, lo esalti in serata.
Stiamo attenti. Stiamo attenti, perché tutta questa storia del clubbing rischia di diventare di plastica, se perdiamo il “fattore umano”: rischia di diventare un mondo dove ti puoi solo divertire, solo essere euforico, solo essere vincente, solo essere ad una serata top o che è una bomba. Come nella vita da social: tutti mostrano il lato migliore di sé, tutti mostrano le cose belle che fanno, i viaggi, i regali, i tramonti, gli amori, le amicizie. Ma se la vita delle persone fosse davvero così, allora come si spiega tutta la rabbia, la frustrazione, la cattiveria che circola sul web? Non dovrebbero essere tutti felici e rilassati?
Impariamo a non nascondere la polvere sotto il tappeto. Impariamo ad esprimere le debolezze, e i momenti di difficoltà. Tiga lo ha fatto, nel suo mondo, relativamente al suo lavoro; e ha spezzato una consuetudine per cui ogni serata “…was a blast” o, nel peggiore dei casi, si tenta di insabbiare un vuotone lasciando tutto ad un pietoso silenzio. Ci sono serate che vanno così così. Serate che non funzionano. Serate che anche se se sono piene di gente, non scatta la magia. Serate che sono proprio vuote, e pessime. Capita. Capita a tutti. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Nulla su cui inalberarsi. Impariamo a rifiutare l’euforia posticcia per cui tutto deve essere sempre super, perfetto, divertente, esaltante, riuscito, top. Imariamo a giudicare, senza che per forza un giudizio negativo sia usato come una condanna a morte. Impariamo a non farci soggiogare dalla REPUTAZIONE dell’artista, come dice lo stesso Tiga.
E a chi fra i promoter e direttori artistici romani ha commentato male questa foto, dicendo che è solo un modo paraculo per lui per distrarre l’attenzione dal fatto che si è fatto un set di merda facendo così alla fine bella figura comunque, e che Tiga è un artista in grande flessione, ecco, a queste persone diciamo: state attenti, perché in questo modo state nutrendo un meccanismo mentale che alla fine inghiottirà voi stessi. Perché state nutrendo un clubbing che diventa sempre più una impietosa gara di sopravvivenza in cui vale solo il più forte, il più fresco, quello più sulla cresta dell’onda (che poi è chiaro che vi spenna, cari art director, chiedendovi una fraccata smodata di soldi per suonare), quello che non sbaglia mai e che tutti reputano l’eroe del momento (a seconda del contesto in cui si riferisce). Se non sei l’eroe del momento, sei un artista “in grande flessione”, un cane rognoso buono solo per i club più sfigati ed ingenui (non il tuo – il tuo è fighissimo, no?). Un gioco al massacro, gioco che poi è il primo a figliare l’impennata dei prezzi e del cachet, il divismo, il “vale solo quello che è il top del momento”, su cui i management internazionali speculano sopra, con l’Italia nel ruolo di pollo da spennare.
Imparare ad essere più umani significa spezzare anche questi meccanismi mentali. L’umanità ammette gli errori e la capacità di passarci sopra; a non ammettere gli errori è solo ed unicamente la competizione feroce. Lei. Quella che non serve a nessuno. Quella che ha sempre danneggiato qualsiasi scena, sul medio-lungo periodo.
Grazie, Tiga.