Nonostante i precoci annunci di sold out – limitato invece alle pre-registrazioni ma sicuramente destinato inevitabilmente a confermarsi nelle prossime ore, una volta aperta la vendita libera, quando sarà aperta – possiamo dire che Unite, lo spin-off di Tomorrowland previsto per la prossima estate a Monza, ha senza ombra di dubbio già raggiunto lo scopo preposto. A discapito dei (tanti) dubbi sul concept, sullo streaming, sull’esperienza di seconda mano, sul prezzo del biglietto, su quello di cui preferite disquisire per ore su questa e quella bacheca social, il pubblico ha sentenziato che essere parte del fenomeno Tomorrowland è decisamente più importante del porsi domande legate all’esperienza musicale che a noi sembrerebbero quanto meno legittime. Ma fino a che punto?
Del resto, qualche giorno fa, dopo aver postato sul mio profilo Facebook che dopo sette anni sarei tornato a vedere che aria tira al Tomorrowland, tra le varie risposte c’era quella di una mia ex-vicina di casa dei tempi di Milano. Mi raccontava che andarci era uno dei suoi sogni nel cassetto e che sperava di poterlo realizzare prima o poi. “Comprensibile” ho pensato a caldo. Alla fine è uno dei festival, se non IL festival di musica elettronica maggiormente chiacchierato della storia dell’uomo. Nel bene e nel male. Un evento che ho amato e portato sul palmo di mano da quando l’ho potuto vivere direttamente sulla mia pelle. Un posto dove mi sono sentito davvero a casa. Poi però mi sono fermato un attimo a riflettere, ho fatto marcia indietro ed ho chiesto spiegazioni. Visto che, in tre decadi che la conosco, non ricordo una singola occasione in cui abbia manifestato apprezzamento per sonorità di quel tipo, perchè diamine aveva messo un evento del genere nella sua “bucket list”?
La risposta era stata che alla fine, come tutti, aveva visto i video su Youtube, la gente con le bandiere, questo enorme Giardino dell’Eden colorato e sfattoneggiante. E le era salito lo YOLO (acronimo per “You Only Live Once”) sopra i livelli di guardia. Questa sì, una cosa che condividiamo a pieno: la ricerca della scarica di adrenalina, del momento perfetto da immortalare e mettere sui social, del “Io ci sono stato e voi no“. Perché – e a breve ci tornerò sopra in maniera più approfondita – questo è ciò che tutti dobbiamo realizzare riguardo al Tomorrowland. O, se vogliamo aggiungere altri nomi al calderone, al Burning Man, a KaZantip, al Full Moon, all’Holi, al Coachella, allo Sziget, al concertone del Primo Maggio, a quello che preferite.
Quando tornai dall’esperienza di KaZantip, la prima domanda che tutti mi fecero fu: “Ma è vero che sono tutti nudi e si scopa come pazzi a destra e a manca come facevano vedere nel video di Vice?!“. Che mi fossi fatto un set da pelle d’oca di Ricardo Villalobos sulla spiaggia con l’alba sul Mar Nero a fare da cornice, che avessi ballato l’hardcore forsennata di Angerfist dentro ad una fortezza pietra di una bellezza stratosferica, che avessi abbracciato una cultura diversa ed un’apertura mentale molto particolare sembrava non interessare granché. Eppure era senza dubbio il focus principale della mia visita.
(prossima fermata KaZantip; continua sotto)
Mi faceva incazzare da morire che non si pensasse ad altro che a ciò che traspariva dalla superficie. Che nessuno volesse andare davvero a fondo a riguardo ma solo fermarsi alla crosta. Però se penso a quando per anni avevo tentato di organizzare il Burning Man, mettendomi anche in contatto con persone dentro l’organizzazione e visitatori abituali per coglierne l’essenza, mi rendo conto di essere stato mosso essenzialmente dallo stesso hype da due soldi che imputavo agli altri. Non vedevo l’ora di andarci e probabilmente una parte di me ancora oggi vorrebbe provarlo. Ma se mi fermo a ragionarci sopra, era soltanto una menzogna. La spinta emotiva data dal bombardamento mediatico e dalla voglia di poter dire di essere andato ad un happening di cui tutti parlavano e dove pochi erano effettivamente stati. Quando ho capito che vivere per giorni e giorni nel deserto, in un camper senza acqua corrente e bagno, coperto dalla testa ai piedi di terra sotto il sole cocente non faceva particolarmente scopa con i miei valori e che la musica non era così vicina ai miei interessi, ho semplicemente lasciato perdere e mi sono concentrato su altro. Pur non volendo mancare di rispetto ad un evento che senza dubbio ha radici nobili ma che – come spesso accade – è stato vittima dell’esasperazione del suo stesso successo passando in pochi anni da autentico raduno di contro-cultura e libera espressione al parco giochi dei rampolli di mezzo mondo che oggi ci trovano un modo per sentirsi liberi per dieci minuti dal peso delle loro camicie stirate e scrivanie corporate. E sapete che c’è? Se li rende felici va bene così. E sono sicuro che ci sarà ancora moltissima gente che si reca a Black Rock City con gli stessi ideali originari e riesce a convivere con le nuove ventate di hipsterismo senza troppi problemi nel nome della libertà d’essere e fare ciò che si ritiene opportuno.
Credo di aver percepito per la prima volta questo concetto lo scorso anno al Full Moon, mentre vagavo ebro e felice su questa enorme spiaggia thailandese in cerca di uno stage dove poter ballare un po’ di psy-trance: il fatto di potersi cercare – e spesso trovare – il proprio personalissimo angolo di Paradiso è ciò che, a parer mio, rende questi eventi incredibilmente affascinanti. Si tratti di un genere musicale in particolare, sesso occasionale, prendere il sole con gli amici sull’erba, scoppiarsi di droghe fino a finire a zampe all’aria o condividere un momento di sinergia culturale ed empatica con gente di ogni genere e provenienza.
Quando racconto il mio primo Tomorrowland a chi mi chiede che cazzo ci ho trovato di così bello nell’EDM da quattro Lire, nella gente con le bandiere che non sa nemmeno cosa sta ascoltando, nel presenzialismo ad ogni costo, io rispondo sempre una cosa: “Non so di cosa parli, io ho vissuto un festival diverso“. Ed effettivamente il ricordo maggiormente indelebile rimangono le (tante) ore passate dentro alla Ketaloco, un piccolissimo tunnel nel terreno – che vagamente ricordava il Dottor Sax di Torino – con mio fratello ed altri cinquanta scappati di casa a ballare nel fango. Il Main Stage l’ho visto, ho fatto una foto perché era impressionante, ho mangiato un panino guardando decine di migliaia di persone saltare all’unisono e sono passato oltre. Alla rincorsa del mio prossimo metro quadro di felicità. Che si è poi tramutato in un pedalò a forma di cigno in mezzo a un laghetto speronando sconosciuti insieme ad amici vecchi e nuovi. Ed anche se nulla ha a che vedere con la musica, rimane uno dei ricordi più belli della mia vita da clubber.
Perché quello conta davvero. La musica non è sempre così importante. A volte, per quanto ci dia sui nervi ammetterlo, è solo contorno. Paesaggio. Ciò che rende gli eventi sopracitati così iconici è l’esperienza che li circonda, alimentata dai filmati confezionati ad arte e dalle foto dovutamente photoshoppate che la vendono in un pacchetto omnicomprensivo dove la componente artistica è solo uno dei fattori di interesse, non il focus principale. E se una persona che fa dell’esperienza musicale il centro del proprio universo non si sentisse a proprio agio a spendere soldi per una situazione dove non sembra esserci sufficiente attenzione sotto quell’aspetto, che problema c’è? Nessuno ha una pistola alla tempia ed è (o dovrebbe essere) costretto a dire che una cosa che piace a tanti sia bella per partito preso. Il messaggio importante è che – e non è qualcosa da sottovalutare – anche in un’esperienza frivola ed apparentemente non incentrata sui nostri stessi valori, ci sarà sempre posto per tutti coloro che avranno la pazienza di cercare, sperimentare, aprire la mente e magari rendersi conto che le etichette sono buone solo per ricordarsi quando è ora di buttare via le mozzarelle.