“Against all logic is very much my motto”
“There’s zero separation between the music that I make and who I am”
— Nicolas Jaar, intervista su Crack Magazine
C’è questa tendenza ormai eterna, in voga soprattutto tra quelli che producono musica elettronica, di nascondersi dietro più di un moniker, così come quella di far uscire produzioni diverse su etichette differenti: l’idea è quella che ci si senta in questo modo più liberi di spaziare tra generi e stili, o di differenziare i messaggi che si tenta di veicolare attraverso la musica, o di svincolarsi dalle aspettative del proprio pubblico che, a volte, è frammentato. Succede comunque che liberarsi del vecchio alias diventi qualche volta un passaggio necessario per dare nuovo ossigeno al proprio talento. A volte si ha la sensazione, o la consapevolezza, di aver esaurito i “mezzi per comunicare” un determinato messaggio ed arriva così il momento di passare a quello successivo, però con un altro nome, un’altra etichetta. Spesso tale necessità appare limpidamente evidente anche a noi – quelli che ascoltano – che magari siamo portati ad apprezzare la coerenza di un percorso, almeno vagamente, logico (…o di cogliere la logica di un percorso coerente).
Dunque, quando uno come Nicolas Jaar dichiara di vivere in una perfetta ed inscindibile fusione con la propria produzione (che è una continua ricerca sonora intrisa di messaggi tanto intimi quanto sociali, un’abbondanza di appunti personali e sinceri scritti a lato di paragrafi vergognosi della storia contemporanea, un pasto unico fatto di pura elettronica, soul, jazz, ambient, musica latina, punk, funk, rock psichedelico e chissà che altro), ci si chiede quale sia il motivo vero e profondo di Against All Logic. Non esiste una singola goccia, nel mare vasto dell’arte di Nico, che non sia messa lì apposta, che non sia ossessivamente studiata, che sia lasciata al caso, che sia insomma lì solo perché “suona bene”.
“How do I reconcile these things? And now I’m realising: fuck reconciling”
— Nicolas Jaar, intervista su The Guardian
A Jaar non interessa la coerenza, non si nega la libertà di infrangere ogni logica, si impegna a non cadere nella trappola delle aspettative, non perde tempo a far quadrare i conti: all’inferno la quadratura. È maniacale nella cura di ogni sua mossa, spinto dalla necessità di essere fedele solo a se stesso, a quel bambino senza patria, visto come un sudamericano a New York prima, come un gringo a Santiago poi, al figlio d’arte di un esule forzato, al brillante studente dell’università di Providence accolto e coccolato da quelli di Wolf + Lamb e precoce autore di un disco del calibro di “Space Is Only Noise” (Circus Company, 2011). Ad ogni faccia della sua natura prismatica Nicolas dedica un capitolo diverso della propria ricerca, senza però incasellarla in compartimenti stagni, senza soluzione di continuità.
In “Space Is Only Noise” le sperimentazioni lounge, future jazz e hip hop, intrise di un’estetica che richiama quella di una minimal techno deformata dal downtempo, sono accompagnate dalla sua voce e da accordi di piano e chitarra, e aprono davanti a lui alcuni di quelli che l’artista stesso definisce “tunnel” da esplorare. Nei lavori successivi Jaar entra di volta in volta in una conigliera diversa, ma non è un bianconiglio lunatico a condurre la corsa: si tratta spesso di un gioco di specchi. L’artista rivela in ogni disco un pezzo di sé e lo fa partendo dalle circostanza che gli si sviluppano intorno: il successo di Trump gli appare come un riflesso distorto dell’ascesa di Pinochet che, a sua volta, si riflette negli anni lontani dal Cile, in quella costante sensazione di essere uno “senza patria”.
Non è casuale, quindi, la scelta di dedicarsi con “Pomegranates” (Other People, 2015) alla composizione di una colonna sonora alternativa per il film “Il Colore Del Melograno” (1969), specie se si considera la travagliata storia del suo regista, l’armeno Sergei Parajanov. Ancora meno casuale il lavoro compiuto con “Sirens” (Other People, 2016) che, come suggerito dal titolo allusivo al canto delle sirene, accoglie nuove e diverse sperimentazioni sonore accanto ad un cantato che fa da protagonista. È il disco in cui Jaar ammette di aver bisogno delle parole: non basta più la poetica di suoni e immagini di “Pomegranates”, non c’è più spazio nemmeno per il silenzio pudico delle ninfe, quel silenzio che suona così bene e così forte in “Nymphs” (Other People, è un album-collage del 2016) poiché le cose da dire sono tante e non si può correre il rischio che il messaggio rimanga incompreso. “Sirens” canta della storia di Ahmed Mohamed, lo studente arrestato per essere riuscito a costruire da sé un orologio, scambiato per una bomba dal preside della sua scuola; canta del referendum cileno in cui vinse il “No”, liberando il paese dalla dittatura; canta della velenosa propaganda politica, quella che ci vuole convincere che va tutto bene, che possiamo continuare a non pensare a nulla se non alle nostre piccole vite quotidiane. Ogni traccia, ogni tema, ogni idea merita il suo genere musicale in “Sirens”, e Nico manipola alla sua maniera tanto il punk quanto il reggaeton.
“Are we just creating comfort with art and music? Are we clowns talking in an endless vacuum? Or can we go further and affect a positive change? If not, should we just down tools and resort to physical labour? Would that be more helpful? I still don’t know the answer to these questions”
— Nicolas Jaar, intervista su Crack Magazine
L’equilibrio delicato tra un’indagine introversa e il tentativo di essere parte attiva di una società che ha urgente bisogno di profondi cambiamenti rappresenta il terreno fertile su cui Jaar fonda tutta la sua arte, nonché la sua evidente frustrazione. Si chiede se l’artista possa ricavarsi un ruolo utile, se l’arte possa essere più di una lenitiva distrazione dai mali del mondo, se la musica possa funzionare come incentivo, per chi ascolta, a dare il meglio di sé. Non basta schierarsi a favore del “No” quando il “Sì” vive nelle nostre azioni, nella nostra inerzia: a partire dal riferimento al referendum cileno, il discorso si espande e arriva ai giorni nostri, quelli in cui ognuno di noi ha la possibilità di vedere le nefandezze che accadono nel mondo – a volte proprio di fronte ai nostri occhi – e che nessuno, in fondo, si impegna a fermare.
È un elegante polemico Jaar, lo si legge tra le righe delle sue affermazioni e – soprattutto – in buona parte della sua produzione. Non è solo sociale e politico l’oggetto del suo fastidio: ha i piedi ben piantati dentro un’industria, quella della musica più o meno elettronica, che si sta inesorabilmente allontanando da quel locus amoenus che Nico ha pensato di intravedere quando vi si stava affacciando ma che, forse, non è mai esistito.
“Drake is making house music now, and so is Justin Bieber. The biggest songs in the US are house, […] it makes releasing dance tracks very complicated”
— Nicolas Jaar, intervista su Crack Magazine
C’è spazio per l’ironia nella critica che l’artista costruisce nei confronti del capitalismo dell’industria musicale; l’esperimento fatto insieme a Dave Harrington con Daftside ne è la massima sintesi: i due soci, altrimenti conosciuti come Darkside, hanno compiuto con “Random Access Memories Memories” (2013) un’operazione unica nel suo genere, prendendo un pezzo di cultura contemporanea così importante e imponendogli una vera e propria conversione al Lato Oscuro. La copertina, condivisa da Darth Vader e Yoda, serve da un lato a confermare l’allure goliardica, dall’altro a imprimere su immagine una presa di posizione nei confronti del sistema.
L’equilibrio delicato tra un’indagine introversa e il tentativo di essere parte attiva di una società che ha urgente bisogno di profondi cambiamenti rappresenta il terreno fertile su cui Jaar fonda tutta la sua arte, nonché la sua evidente frustrazione
Il capitalismo e il suo rapporto simbiotico con la globalizzazione sono da sempre un tema caro agli artisti “impegnati”. A questo proposito un giovanissimo Jaar nel 2010 realizza due tracce in spagnolo, “Mi Mujer” e “El Bandido”, già allora convinto della tossicità di quella che veniva intesa come una latente forma di colonialismo e che è ascrivibile a quel vasto e sfaccettato concetto chiamato appropriazione culturale. Si guarda intorno, oggi, e osserva con attenzione gli artisti suoi contemporanei: si dichiara fan di iniziative come quelle di Blood Orange con Freetown Sound, di Solange con A Seat At The Table e confessa di essere orgoglioso di vivere nella stessa epoca di Kendrick Lamar e del suo “To Pimp A Butterfly”.
Un ulteriore cardine del pensiero che Jaar dedica alle dinamiche imposte dal sistema è quello rappresentato dalla difficoltà per l’uomo contemporaneo, la cui esistenza si consuma per buona parte sui social, di farsi trasportare dal caso. Tutti sappiamo quanto le nostre scelte siano costantemente monitorate, quanto poco casuali siano i suggerimenti di cui siamo bombardati: che si tratti di arte, politica, persone, diete o moda non importa – il sistema proverà sempre e comunque a guidarci, in qualche modo. Si torna a parlare dunque di un gioco di specchi, di una sequenza di riflessi imposta dagli spaventosi algoritmi cui siamo sottoposti, quegli stessi specchi che si infrangono all’inizio di “Sirens”, in segno di liberazione dal giogo delle dinamiche che non possiamo fare a meno di subire.
A partire da questa constatazione prende vita The Network, una collezione di programmi radio da scegliere tra 333 canali, che trova il suo senso proprio nella casualità con cui l’utente ha modo di fruirne, pescando in un mare in cui nuotano musica classica, ambient, musica latina, parti recitate da attori, mix dello stesso Jaar. Nella pubblicazione “Network”, che contiene anche la trascrizioni dei suddetti programmi radio, si racconta come il broadcasting possa auspicabilmente divenire un efficiente mezzo di protesta politica. Questo preciso momento storico rappresenta un focolare potenzialmente esplosivo, capace di portare una generazione satura di ingiustizia e malaffare ad una rivolta quantomai necessaria.
Alla luce di tutto questo risulta difficile pensare che una produzione che si poteva in parte già ascoltare al canale 279 di The Network e che, lo scorso febbraio, esce a nome Against All Logic con il titolo “2012 – 2017” abbia il solo scopo di deliziarci con una raccolta di virtuosismi collezionati negli ultimi anni.
Lo spirito compositivo di “2012 – 2017” si rifà senza dubbio alle produzioni per Wolf + Lamb: disco, funk, soul, techno riecheggiano insieme ai più disparati campionamenti. L’attitudine ballerina e l’eleganza sampladelica non bastano però a nascondere una sorta di inquietudine capace di manifestarsi a chi presta attenzione alle parti cantate o a quelle campionate, che vanno dall’avanguardia intrisa di soul, jazz e r’n’b del compositore californiano attento alle tematiche legate alla salute mentale David Axelrod, scomparso proprio nel 2017, alla megalomania di Kanye West, o dalla poetica ricorsiva dell’uomo senza patria di Rainer Maria Rilke a quella religiosa del predicatore pentecostale Pastor T. L. Barrett (accusato – tra l’altro – di aver rubato enormi somme di denaro ai suoi fedeli), passando per le voci soul dei The Dramatics e per quelle dei Delfonics.
Il lavoro di Against All Logic è molto più di un collage di cut e frammenti eruditi. Stiamo parlando di un artista capace di masticare e fagocitare ogni genere musicale, ogni forma d’arte, ogni mezzo di comunicazione, capace di confrontarsi tanto con il passato quanto con il presente, tanto con il dancefloor quanto con i drammi sociali, capace di usare la sua voce e quella di altri, di misurarsi con l’avanguardia e con il retrofuturismo, di vivere nel presente e alienarsi in una dimensione senza tempo. Stiamo parlando di un artista che non ha nessun interesse nel servire al suo pubblico una ratatouille di scampoli piacioni, ma di uno che tratta la sua musica come mezzo, non come fine. Lontano da ogni strategia di mercato, insofferente all’ambizione da album dell’anno, Nicolas Jaar / Against All Logic firma un disco improbabile e imprevisto nonché, contro ogni logica, una delle uscite di punta del 2018.