In un momento storico in cui le informazioni viaggiano alla velocità della luce e le novità si susseguono costantemente, stordendoci e confondendoci, è utile lasciare da parte la notizia effimera del momento e fare un passo indietro. Occorre guardare la storia con il metro degli anni, addirittura dei decenni, per avere una vera e propria panoramica di come il mondo della club culture si sia evoluto e che direzione stia prendendo. Per questo abbiamo deciso di fare una chiacchierata con Maurizio Clemente, un personaggio mai raccontato abbastanza, che da quasi trent’anni contribuisce in prima persona a rappresentare, costruire e promuovere la scena, specialmente quando si parla di House Music. Appassionato di moda e musica, ha collaborato con label del calibro di Warriors Dance e UMM. È salito alla ribalta internazionale soprattutto negli anni ‘90, durante il periodo d’oro del lunedì all’Echoes con I primi “Magic Mondays” con Tony Humphries, oltre che per l’Italian music conference ed il Coca Cola Dj Awards. Ha pubblicato libri, filmato documentari, scoperto talenti e prodotto una serie infinita di dischi che, negli anni, hanno infiammato più di una delle nostri notti. Oggi vive a metà tra Italia e Portogallo, continua a contribuire alla scena come manager alle spalle di artisti del calibro di Kerri Chandler e Kenny Carpenter, SIS e di Tony Humphries fino al 2016, per citarne alcuni, oltre che con le etichette TR Records e Major Underground, distribuita da Sony Music, e come esperto di marketing e promozione nell’ambito musicale.
Iniziamo con una domanda banale ma inevitabile per chi è cresciuto al suono della Italo House degli anni ‘90: cosa ha reso speciale quel periodo?
Ai tempi partivamo con una base forte, la musica House era appena arrivata in Italia e, dopo un periodo iniziale di scetticismo, aveva catturato il cuore dei clubber italiani. Nei club nasceva la moda che dettava la tendenza. Le persone che frequentavano i locali in quel periodo erano “alternative” e meno “omologate” di oggi. Altro punto focale dell’epoca era che non esistevano ancora i locali prettamente gay, perché ancora era un periodo pieno di tabù, quindi il pubblico dei gay e dei modaioli si mischiava. Spesso erano proprio i gay ad essere i più creativi proponendo le idee più innovative per il club. Ieri come oggi, moda e musica si interfacciano molto. Sono i musicisti a interpretare il gusto collettivo, la moda frequenta il club per prendere ispirazione, per capire quello che sarà il trend della stagione.
Come sempre, la club culture ha i suoi momenti migliori quando diventa rifugio delle minoranze.
Sì. E’ quello che dico sempre: la missione del club è di entrare nel sociale per produrre cultura. Per fare cultura il club deve attingere dal sociale. Il club da sempre dialoga con le minoranze, con le persone emarginate. La House, per questo motivo, è diventato un movimento universale. Ha unito sotto lo stesso tetto diverse comunità di persone in cerca di rifugio. Oggi se vuoi gestire un club che si distingua come promotore di cultura, devi dare spazio a queste nicchie, a quelli meno in vista. Il Berghain è il classico esempio, a conti fatti è un centro sociale LGBT, con un team che lavora nel sociale. In Italia ci sono stati alcuni progetti di club culturale ma non si possono fare paragoni con la Germania. Il club non può diventare cultura se segue solo le leggi del mercato. Da una parte sono regole che funzionano, da un punto di vista economico: se ingaggio un DJ che mi costa X e mi porta un certo numero di persone, ho un determinato incasso assicurato. Limitare l’attività solo a questo scopo, però, significa fare del business, non promozione della cultura.
È possibile mischiare cultura e business?
Ci sono soluzioni ibride che funzionano, ad esempio posso “fare business” il sabato e cultura la domenica. In altre parole il sabato incasso e la domenica spendo. Questo è quello che i locali hanno smesso di fare da 5-6 anni a questa parte: curano il commercio, l’utile, ma non reinvestono neanche un centesimo nei nuovi talenti. Ci sono dei motivi specifici, non è tutta colpa dei locali. Uno su tutti: i guadagni, che anche nelle serate più commerciali sono sempre meno, quindi rimane poco da investire. Questo però non giustifica l’assenza totale di coraggio nel proporre novità, non solo da parte dei proprietari dei locali ma anche da parte dei loro team. I locali, oggi, nella maggioranza, non hanno un team dedicato alla direzione artistica in grado di proporre un’alternativa non commerciale che possa offrire un ritorno d’immagine, di cura e di dialogo con il sociale.
Come si è arrivati a questa situazione fatta di incassi bassi e disinteresse da parte dello staff?
Ci si è arrivati seguendo una regola di mercato, quando propongo un prodotto scontato, nel senso di un qualsiasi DJ da catalogo, con un certo nome, sono conscio di pagare un cachet alto ma che mi porterà gente. Succede, però, che chi riempie il locale è il nome, il merito percepito dal cliente è dell’artista e non del locale. Io sono venuto per lui, non per il club. Si innesta una logica di venuing, non sei più un locale ma solo un contenitore di nomi, che avrà sì un’economia in positivo, ma mancherà di anima e, in assenza del nome, anche il pubblico finirà per latitare. In fin dei conti non hai niente da offrire, senza resident, senza team, il locale finisce impoverito. Per questo è essenziale avere alle spalle un team creativo, aggiornato e che riesca a comprendere i vari settori della società, oltre ad essere allineato con la visione del locale, che creda e supporti ciecamente il DJ resident.
Il Lux qui a Lisbona mi sembra un ottimo esempio di una strategia di questo tipo che funziona da più di vent’anni.
Questo è l’esempio che faccio spesso quanto tratto l’argomento: il team del Lux, con cui fortunatamente collaboro fin dagli anni ‘90 (così come in passato con Peter Pan, Paradiso, Echoes, Tenax e Red Zone in Italia), è lo stesso oggi dopo più di un ventennio. Tutti questi club sono partiti insieme negli anni ‘90, ma solo quelli con una mentalità moderna si sono evoluti nel tempo. Questa filosofia ha permesso al Lux di rimanere il Lux. Riagganciandomi al discorso cultura, il Lux oggi a Lisbona è considerato ufficialmente un’istituzione culturale e dà grande spazio alle minoranze, tant’è che potremmo disegnare all’interno del dancefloor un diagramma che delimita come ogni area sia solitamente frequentata da una specifica tipologia di persone. Inoltre, il Lux, dà molta priorità ai DJ resident e ai DJ portoghesi, saltuariamente invita degli ospiti internazionali, che sono solo una parte della programmazione. I nomi sono sempre ricercati, mai scontati, ed è per questo che i festival locali si ispirano al gusto artistico del Lux. In poche parole, il Lux è un locale di riferimento, cosa che, mi sembra, manchi da un pò in Italia. Prima ce n’erano diversi. Questo non significa che non ci siano locali di qualità in Italia, ci mancherebbe, ma ritengo che sia un tema che andrebbe approfondito. Una delle proposte che ripeto spesso è quella di fare in modo che i club stessi diventino scuola, non parlo di corsi istituzionali che non si addicono al mondo del club, ma spazi che accolgano e formino persone, che diano benzina alla creatività di chi vuole entrare a far parte della famiglia della musica, ad esempio per sfruttare il club come contenitore culturale non solo di sera ma anche durante il giorno.
Come definiresti questo ruolo di cui si sente così tanto la mancanza nei club di oggi?
È il ruolo del direttore artistico a 360 gradi. Il direttore artistico oggi è spesso solo il mero personaggio che contatta le agenzie. L’agenzia vende un prodotto, se dall’altra parte incontra un partner passivo, è normale che finisca per essere lei a dettare la linea. Chi fa il lavoro del direttore artistico e si occupa della programmazione dovrebbe avere le idee chiare, sia con i grandi nomi che con i nomi alternativi da proporre, in linea con la politica musicale del club e dei loro DJ resident. Informarsi, ad esempio, leggendo Soundwall, che in Italia viene considerato un magazine d’avanguardia è uno dei tanti modi per prendere ispirazione sugli artisti che magari un domani esploderanno.
Questo modo di gestire un locale sembra molto focalizzato a breve termine, poco lungimirante.
Esatto. Anche le agenzie che provano a proporre nuovi talenti, lo devono fare con degli escamotage, ad esempio obbligando i direttori artistici a fare il booking di un emergente assieme al nome grosso. Ma è un’imposizione, non è un dialogo con il direttore artistico per raggiungere un bene comune. Non essendoci un dialogo, ognuno fa i propri interessi, e nessuno ne giova. Questa è una cosa che succede molto meno in Spagna e in Portogallo, dove c’è un costante dialogo con i club con cui collaboro, con loro capiamo quando è il momento giusto per proporre DJ come Satoshi Tomiie, David Morales, Little Louie Vega, Kerri Chandler, Dj Harvey. In un contesto coerente non vengono giudicati come vecchi o nuovi, ma per la vibe che effettivamente creano durante la serata come DJ nella loro selezione musicale.
Cosa è vecchio e cosa è nuovo nel clubbing di oggi?
È sempre difficile stabilirlo con certezza. Sicuramente ci sono sempre dei trend che vanno fuori dalla proposta ordinaria di musica e DJ guest, si formano ciclicamente, è un fattore generazionale. Ogni 5/10 anni cambia il modo in cui ci si relaziona al club e con i propri coetanei. C’è anche un fenomeno curioso per cui la differenza tra vecchio e nuovo la fa il marketing. Ci sono DJ considerati moderni, contemporanei, nonostante abbiano sessant’anni, la stessa età di altri artisti che, utilizzando una strategia di marketing differente e continuando a rivolgersi al pubblico che li aveva amati, vengono percepiti come vecchi. La strategia di rivolgersi ad un pubblico nuovo pur mantenendo la propria identità artistica è quella adottata da Kerri Chandler. Anche se Kerri era parte di un team di Dj e non l’unico ad esibirsi, la sua performance alla riapertura del Circoloco di 8 anni fa è stata strategica, sia per lui come artista, sia per il locale. Con questa residency, è riuscito a farsi conoscere alle nuove generazioni che, come le altre generazioni precedenti, oggi lo riconoscono come creatore di uno stile musicale: la Deep House.
Mi sembra quindi che il tuo lavoro sia molto focalizzato sul come un artista venga percepito da parte del pubblico. Quanto conta il pubblico in un club, in una festa?
Il pubblico, al contrario di quello che molti pensano, non è al buio. È molto informato, soprattutto gli appassionati. Poi c’è tutto un pubblico che non è necessariamente esperto di musica, ma viene per la festa: quell’audience viene catturata dal marketing. Già facendo questa distinzione ti rendi conto che costruendo un evento semplicemente con i nomi più in vista curi solo chi viene per ragioni di marketing. Vendi hype, ma trascuri le persone che effettivamente vengono per ballare la musica del DJ, perché l’hanno già sentito. Lo stesso DJ è naturalmente influenzato dal pubblico: in un club è più probabile che metta il disco più ricercato, se vede che il pubblico reagisce, allora lì si diverte, sperimenta. In un festival è difficile che questo succeda. Quando proponevamo la House negli anni ‘90, molta della gente che veniva al locale non sapeva nemmeno cosa fosse, ma sai perché impazziva? Perché vedeva quei 100-200 ballerini scatenati in mezzo alla pista che già conoscevano il genere e che erano lì per il DJ. Questa euforia automaticamente ti tira dentro ed è così che poi crei un nuovo genere, una nuova scena.
Se vogliamo focalizzarci sull’Italia, cosa ci rende speciali e cosa stiamo invece sbagliando, secondo te?
Noi siamo molto modaioli, restiamo sempre aggiornati, seguiamo le tendenze musicali, ma come dice la parola stessa, seguiamo. Non siamo propositori di generi, anche se ne abbiamo qualcuno che ci contraddistingue. Ed è un peccato perché, quando siamo riusciti a proporre noi qualcosa di nuovo, è stato apprezzato in tutto il mondo, come l’Italo House e l’Italo Disco. Sono generi che ci appartengono, che rappresentiamo. Possiamo essere famosi per la nostra creatività tipica degli italiani, per la moda conosciuta in tutto il mondo, ma non possiamo essere famosi per un brano Techno, perché non ci appartiene! Intenzionalmente non siamo visti come la patria della Techno, gli stessi italiani guardano a Berlino. E’ molto più difficile declinare un brano Techno in una versione che funzioni in Italia, una Italo-Techno. Senza una solida base culturale è una battaglia contro i mulini a vento. Altra cosa, oggi in Italia si ritiene che vivere di luce riflessa sia la soluzione per il successo: se si collabora o si è nello stesso posto di un personaggio top, automaticamente si diventa fighi come lui. La verità è che, per diventare un nome, devi uscire dalla normalità e fare qualcosa di diverso da tutti gli altri, qualcosa per contraddistinguerti e creare un tuo stile, riconosciuto dai fan.
Come manager come scegli un artista con cui collaborare? Come individui chi potrebbe fare qualcosa di diverso, di speciale?
Dipende innanzitutto a quale mercato vogliamo rivolgerci in quel momento e dal target di pubblico che vogliamo raggiungere. Tantissimo fa anche la persona, il suo carattere, la sua idea di lavoro nella musica; i suoi progetti devono essere vicini alla mia visione di manager. Appurata la compatibilità personale, si entra in questioni più tecniche, come la ricerca musicale e la sua capacità artistica nell’esecuzione della performance. Dal momento in cui iniziamo a collaborare, il compito dell’artista sarà solo quello di fare l’artista. Si dovrà occupare di fare ricerca per essere all’avanguardia, di produrre musica che sia sempre al passo con i tempi e del mercato. Tutto quello che sta al di fuori lo deve fare il manager, inclusa la ricerca del booking. L’artista deve fidarsi del proprio manager, il percorso deve essere studiato dal manager e l’artista, una volta che lo ha approvato, lo deve seguire. I DJ della generazione anni ‘90, invece, erano “one man band”, ovvero il DJ old school produceva musica, si esibiva nei DJ set, negoziava direttamente le date con il locale a cui poi delegava il marketing. Il problema era che il marketing veniva quindi gestito da 30, 40, 50 persone diverse, una per ogni locale in cui il DJ andava a suonare. Questo modello poteva funzionare negli anni ‘90, quando non c’era una vera e propria rete interconnessa e non era necessario avere un coordinamento nella propria immagine e visibilità su social network. Oggi non è fattibile, finisci per confondere il pubblico. Oggi devi scegliere i club adatti, l’etichetta giusta e fare uscire almeno due prodotti al mese, il tutto per amplificare il tuo messaggio e soprattutto imparare a domare gli algoritmi, sempre più complessi e sofisticati, che richiedono il lavoro di professionisti.
E come cresce, quindi, un artista oggi?
Per arrivare ad essere pop devi avere una base di fan, che di solito si costruisce nell’underground. Quando arriverai ad essere al top, sarà la tua base a sostenerti, altrimenti dopo due mesi si sono già dimenticati di te e passano ad altro. Perché Madonna non se la sono mai dimenticata? Perché lei è partita dai club, dalla base, da zero. Stessa cosa Prince. L’hype invece sì, ti molla. Il gran lavoro di un artista è costruirsi una base. Del tuo milione di fan, 20% è base, 80% è hype, che però non ti appartiene, è fragile, appena cambia la moda, si sposta. Se non hai una base, finisci a zero e cadi nel dimenticatoio. La tua base deve sempre sentirsi speciale, sono quelli che hanno creduto in te da subito. Questo lo vedo molto nel mio lavoro da manager: gli artisti pensano che funzioni come la politica, che siccome conosco il gestore di un locale mi farà un favore a far suonare i miei DJ. Non è così, è un mercato, chi ti compra deve crederci, il nostro lavoro è di costruire la base assieme, anche perché suonare in un locale in vista di per sé non porta a nulla senza un certo tipo di percorso, al massimo a un post su Facebook. Ai tempi di MySpace litigavo con i miei artisti perché andava di moda pubblicare a inizio mese le date fino al 30, se non le avevano erano frustrati, perché faceva figo, avrebbero suonato gratis pur di aver le date listate.
Tornando alla creazione della base, dato che oggi il DJ resident non viene più curato come lo era negli anni ‘90, il DJ che non fa produzioni non ha i mezzi per farsi conoscere internazionalmente, non può diventare un professionista. Come fai a raggiungere e creare la base di cui parlavamo prima? Quello cha facevamo negli anni ‘90 era creare una residency in un locale, studiare le produzioni che funzionavano di più sul dancefloor per delineare lo stile musicale che piaceva ai nostri clienti. I locali all’epoca addirittura mi pagavano l’aereo per andare a sentire un artista, scelto tra i brani che il resident suonava di più, per decidere se andava bene come DJ per il mood musicale della nostra serata. L’unico DJ che abbiamo preso senza sentirne le produzioni è stato Tony Humphries, grazie all’ascolto delle tante cassette dei suoi mixati su radio Kiss FM di New York, ma lui è il Michael Jordan dei DJ, insieme a Dave Mancuso e Larry Levan.
Com’è cambiato il ruolo del DJ dagli anni ‘90 ad oggi?
L’industria discografica ricerca sempre sul mercato quali saranno le prossime tendenze. Dentro questo processo, negli anni ‘90, c’erano i DJ, a cui la casa discografica regalava i promo in vinile per testarli sul loro pubblico, nel club. Il risultato del test veniva poi comunicato alla casa discografica che, sulla base dei risultati, decideva quale fosse la sonorità su cui puntare. Di fatto il DJ era l’ingranaggio di un settore. Oggi il DJ ha perso questo ruolo, anzi è il contrario, se fai il promo vendi meno, perché il disco è in streaming o in versione digitale a 1€, non ha senso regalarlo specialmente se vuoi sostenere la musica. Il DJ dovrebbe riprendersi questa posizione, impegnandosi nella pubblicazione di playlist, che sono oggi le nuove cassette, i nuovi promo. Le persone scoprono così la nuova musica nell’era dello streaming. Ai tempi c’era Albertino, se passava il disco in trasmissione e lo metteva in pagella, il giorno dopo vendeva 5000 copie in vinile. Oggi se DJ suona il tuo pezzo in un club al massimo ti vale uno Shazam, che porta ad uno stream, valore: centesimi di centesimo. Anche se un disco fosse suonato in un locale strapieno con 6000 persone e tutte lo andassero ad ascoltare, stiamo comunque parlando di circa 25€ incassati.
L’altro ruolo del DJ era quello di promuovere la vendita del disco. Oggi scherzando ci ricordiamo tra di noi che, ai tempi, per far notare un disco al pubblico, farlo passare in radio e venderlo, nel corso di una serata il DJ doveva suonarlo una volta all’inizio, una volta a metà e una alla fine. La prima volta la gente diceva: “Carino, mai sentito”. La seconda volta già iniziavano a pensare: “Ah però questo lo conosco, l’ho già sentito”. La terza volta era un disco da paura. Oggi questo non si fa più, anzi gli addetti ai lavori giudicano male chi ripropone lo stesso disco durante una serata.
Prima di chiudere, una domanda banale ma quanto mai attuale: cosa cambierà, secondo te, nel post Covid?
Secondo me il distanziamento sociale, una volta che sarà rientrata l’emergenza sanitaria del tutto, non avrà impatti a lungo termine. Si vede già quanto la gente abbia voglia di tornare alla normalità. Ci sarà invece una trasformazione nella gestione dei locali, che non sarà generalizzata ma sarà forte. Il club che guadagna, che ha chiuso per via del Covid, ma funzionava bene, non cambierà. A dover cambiare saranno soprattutto i club che già prima del virus faticavano a lavorare. Questi club dovranno trovare una formula per continuare ad esistere. Già si intravede, per esempio, il ritorno del DJ resident, con cui oggi si fanno gli stessi numeri del guest, anche a causa di un’offerta generalmente più limitata, per via delle limitazioni imposte dal virus. Chissà, magari il fatto che i club siano obbligati a sopravvivere con i resident per 3-4 mesi potrebbe portare ad un ritorno alla ricerca della qualità.
Prima di salutarci, un’ultima richiesta: qual è il primo disco che ti viene in mente con cui chiuderesti quest’intervista?
Direi la traccia che più mi rappresenta: “House Music” di Sabrina Johnston, scritta da me e prodotta da Luis Radio pubblicata dall’etichetta Equal Record.