Certo, è diventato un luogo comune andare a fare un weekend all’estero, diciamo Berlino, e poi tornare lamentandosi su come l’Italia sia pessima, su come tutto vada male, su come all’estero si stia mille volte meglio; su come all’estero sì che la vita culturale sia viva, vissuta e soprattutto: aiutata. E ancora: quante volte vi è capitato di andare in Croazia e in Spagna, ad un festival, e di pensare ad un certo punto “Questo in Italia non sarebbe possibile, maledizione”? Un po’ di effetto stile “l’erba del vicino è sempre più verde” indubbiamente c’è, ma che qua in Italia su certi campi si sia ormai campioni intergalattici di inefficienza e soprattutto di masochismo comincia ad essere sinistramente vero.
In questi giorni è stata rilanciata via Facebook una foto che parla di Murazzi, Torino. Conoscete? Un bel po’ delle persone che compongono la redazione di Soundwall – nessuna di esse torinese, tra l’altro – ai Murazzi c’è affezionata eccome.
Per chi non sapesse di che si tratta, è quella parte di lungofiume torinese giusto sotto la bellissima Piazza Vittorio. Per anni, il vero e proprio cuore pulsante della notte cittadina. Un cuore atipico. Un cuore caotico. Non semplicemente un “luogo pieno di bar con qualche club e qualche discoteca”, di zone del divertimento in Italia ce ne sono parecchie ma, sinceramente, tendono tutte ad essere senz’anima, un po’ uguali fra di loro. L’unicità dei Murazzi stava nell’energia che sprigionava, un’energia tanto forte quanto misteriosa, un’energia data dal fatto che – soprattutto da una certa ora in poi – si davano convegno lì le persone più diverse fra loro, persone che sotto la luce del giorno probabilmente non si sarebbero mai frequentate, anzi, si sarebbero addirittura evitate. Un cortocircuito lisergico da cui si generavano le storie più assurde, belle e poetiche – tutto questo davanti al placido scorrere del Po, e davanti alle colline torinesi da cui, alle prime luci dell’alba e alle ultime gocce della vostra nottata, spuntava il sole ed era ogni volta come rinascere, come essere arrivati alla fine di una lunga strabiliante avventura. Vivi. E felici.
Giovani. Vecchi. Malavitosi. Figli di papà. Lavoratori. Pensatori. Allegri idioti. Intellettuali d’assalto. Anti-intellettuali. Gioiosi indifferenti. Accigliati indignati. Un generatore di contrasti e d’energia, insomma. Un posto che ha ispirato musicisti (ovviamente i Subsonica, l’hanno detto mille volte, ma per dire anche un Vinicio Capossela o un Roy Paci amavano quel posto); che ha scritto storie importantissime del clubbing italiano (al Beach – ricordiamo ancora un epico set di Garnier – o allo Jam, spesso tappa di Club To Club, per non parlare di quella specie di “Alice nel paese delle meraviglie” stupendamante losco e deforme che è il Sax coi suoi after, o l’esplosivo divertissement targato Mostricci Of Sound, o il Puddhu); che ha ispirato anche pittori (molti meravigliosi quadri di Daniele Galliano) o scrittori (il bel “Rossenotti” di Enrico Remmert). Ma al di là dei riferimenti specifici più o meno famosi e di successo, la vera magia dei Murazzi era “qualcosa” che stava nell’aria, difficile da definire, incomprensibile da capire, inevitabile da amare. Tant’è che quando è iniziata la rinascita di Torino, per lungo tempo solo grigio e buio dormitorio di operai Fiat nell’immaginario collettivo, probabilmente la prima spinta è arrivata proprio quando la gente da fuori ha iniziato a conoscere i Murazzi, a venirci, a viverli per una notte e un weekend, rendendosi conto che a Torino si potevano veramente trovare delle energie creative e sociali uniche, quasi impossibili da trovare da altre parti in Italia. Alto e basso si mescolavano, riferimenti colti e ubriachezza euforica, alta filosofia e bassa capacità di sfangarsela ogni giorno. Le Olimpiadi, i monumenti rinnovati, la bellezza della città, l’arte contemporanea: ok, tutto buono. Ma siamo abbastanza sicuri che per una robusta fetta di persone dai venticinque ai quarantacinque anni, pur amando molto quanto appena citato, Torino ha sedotto soprattutto quando ci si è ritrovati a fare le ore piccole lì, giù alle arcate di fronte al Po.
Basterebbe questo, in teoria, a far rendere conto tutte le realtà cittadine che quei luoghi e soprattutto quelle modalità di socialità urbana sono un patrimonio da preservare. Ma facciamo finta che quanto sopra sia solo inutile poesia, solo parole al vento che “…non danno da mangiare a nessuno” (si sa, la poesia è questo, no?). I Murazzi, invece, nell’ottica di una economia cittadina sotto costante scacco per il progressivo smantellamento Fiat, di posti di lavoro ne offrivano eccome. Oltre ad essere, naturaliter, incubatore di idee e formatore di professionalità.
Bene. Da più di un anno, i Murazzi sono praticamente morti. Defunti. Esposti di, ehm, comitati di residenti hanno praticamente fatto chiudere tutto, visto che per una volta la magistratura si è dimostrata notevolmente solerte. E si è detto: sono abusivi!, c’è la malavita!, è un verminaio!, sono durati anche troppo!, è pieno di irregolarità!, eccetera. Con la scusa del rumore che infastidiva i vicini (“vicini” fino ad un certo punto: non ci sono case, sopra i locali, le case stanno a decine di metri di distanza e sono sopraelevate) così come di varie irregolarità amministrative, è stato chiuso praticamente tutto. Per quanto riguarda l’abusivismo (relativo) e l’illegalità (minore di quella di una domenica allo stadio), se in questa nazione ci fosse sempre la stessa solerzia e la tolleranza zero per tutto e per tutti, beh, sono argomentazioni che accetteremmo. Per quanto riguarda la malavita, è praticamente l’unica forma di vita rimasta attiva la notte, da quelle parti: gran risultato.
“Risolveremo, risolveremo”, ha detto il sindaco Fassino, che guarda un po’ al momento di fare la campagna elettorale aveva strizzato eccome l’occhio ai Murazzi, qualificandolo come eccellenza cittadina, ci sono i video su YouTube ad imperitura memoria&vergogna; ma evidentemente ora che certi voti non servono più le patenti di eccellenza, eh, diventano un po’ più trasparenti e residuali. Risolveremo? Non si è risolto un cazzo. In riva al Po, sotto Piazza Vittorio, c’è praticamente il deserto la sera. Da più di un anno. Questo è un fatto.
Ecco. Una storia tipicamente italiana. Un luogo che era volano di idee, emozioni, suggestioni e poesia ma anche di nuove professionalità e posti di lavoro è stato, invece che valorizzato, affossato. Invece che cercare un vero confronto tra operatori della zona, Comune e residenti (dove ognuno, e sottolineiamo ognuno, deve cedere qualcosa per il bene comune) si è scelta piuttosto la via delle carte bollate e dei sequestri e, poi, della morte lenta. E poi ancora, dell’inazione. Così nel frattempo sarà sempre più difficile ripartire. Ed è sempre e soprattutto molto italiano che un luogo di aggregazione per fasce tendenzialmente giovani o semi-giovani sia visto sempre e comunque come una socialità di serie B, una economia di serie B, un valore di serie B. B come bravi: bravi stronzi.
Fra i vari crimini della classe politica italiana nel suo complesso, dai rappresentanti di quartiere fino ai più alti gradi del Parlamento, quello di considerare come entità-di-minor-valore tutto ciò che non è Sanremo, opera lirica, intrattenimento per cinquantenni e oltre è uno dei più fastidiosi. Perché stupido. Perché antieconomico. Perché profondamente bastardo: vuole “fotografare” i sogni e bisogni sociali della gente ibernandoli a ciò che andava bene negli anni ’60. C’è stata la libera uscita del ’68 e del ’77, c’è stato il modello di divertimento edonista degli anni ’80, ma oltre a questo le istituzioni sembrano non voler andare: quando si trovano fuori da queste gabbie interpretative non sanno che pesci pigliare, non sanno come agire. Si fanno travolgere dagli eventi, balbettano, magari pensando di risolvere le cose le peggiorano pure (ora la movida torinese si è in parte trasferita nel quartiere di San Salvario, lì sì che si sta sotto le case dei residenti).
Già si sta togliendo ad una generazione il futuro (le vedremo mai, le pensioni?) e il presente (con un mercato del lavoro sempre più bastardo ed ingiusto, dove gli atipici e i precari non hanno nemmeno un centesimo delle garanzie e dei benefit dei loro padri); vogliamo essere sicuri anche di toglierle il diritto di costruire delle socialità con libertà di orari, creatività ed aggregazione, grazie a tutti i lacci e lacciuoli burocratici e regolamentari che quando uno va a Berlino o a Londra capisce bene quanto siano ridicoli, superflui e ritagliati su misura solo per le megadiscoteche dei palazzinari, peraltro in crisi da tempo pure loro? Vogliamo? Sì?
Il Berghain berlinese, il Paradiso amsterdamiano o il Fabric londinese, in Italia, non potrebbero stare aperti, così come decine e centinaia di altri locali che stanno forgiando l’immaginario e i sogni dei ragazzi europei: per le norme di sicurezza, per le lamentele del vicinato… no, non potrebbero. E’ che in Italia non possono evidentemente stare aperti manco i Murazzi: figuriamoci. A voi pare che sia normale? No. Non lo è.