In pieno Illuminismo, quando la musica si emancipa dalla parola e il suono dal senso, D’Alembert, matematico, enciclopedista, fisico, astronomo e filosofo francese scrive: “Tutta questa musica puramente strumentale, senza disegno e senza oggetto, non parla né allo spirito, né all’anima”. Sulla stessa lunghezza d’onda, è nel 1900 il grande scrittore tedesco Thomas Mann che nel suo romanzo “La Montagna Incantata” scrive: “La musica è l’informulato, l’equivoco, l’irresponsabile, l’indifferente (…). La musica è pericolosa”. Questi filosofi, scrittori, letterati, tutta gente dotata di grande spirito e vivace intelligenza, si erano posti in passato il dilemma: come si può consacrare la propria vita alla coltivazione ossessiva di un’arte fatua? Musica che non si propone di espandere un particolare significato culturale, politico e sociale, ma creata invece per il solo e puro intrattenimento?
E allora: perché non porsi questa domanda anche oggi, sostituendo ovviamente alla musica strumentale dei tempi la musica elettronica di oggi, il tutto senza fare distinzioni tra generi di musica elettronica più o meno “intelligente”? Cresce infatti sempre più negli anni il numero di appassionati di musica elettronica, dj e producer che di questa tipologia di musica hanno fatto la propria missione di vita o il proprio lavoro. Sono molti anche i seguaci che, pur non occupandosi di musica professionalmente, la consumano in modo compulsivo nel proprio tempo libero; ascoltandola, producendola o istituendo il club come appuntamento fisso del weekend – lasciando di conseguenza poco spazio alle altre alternative più o meno culturali offerte dalla propria città. Entrambe le categorie citate sostengono che fare musica elettronica, suonarla o semplicemente ascoltarla e ballarla, è un viatico per l’anima e la mente. Il consumo di musica elettronica viene spesso associato alla parola “libertà”. Ma come può essere definita libera, anti-conformista e culturalmente appagante una vita totalmente dedicata a un tipo di musica che, seppur in alcuni casi possa raggiungere livelli artistici altissimi, è, in fin dei conti, vuota e finalizzata all’evasione dal mondo reale? Perché in teoria (e oggi, per buona parte, in pratica) si tratta un genere musicale politicamente e socialmente disimpegnato rispetto ad altre forme d’arte che oltre ad intrattenere cercano attraverso musica, immagini, parole, di risvegliare le coscienze e incitare all’azione per migliorare il mondo in cui viviamo.
Guerre, disuguaglianze, insufficienza di governance, crisi di stato, disoccupazione giovanile, disastri ambientali, e la lista potrebbe continuare: un momento storico, questo, in cui c’è bisogno di menti attive e pronte a rimboccarsi le maniche per cambiare in meglio le cose. Sorge spontaneo allora farsi alcune domande: vale davvero la pena dedicare così tanto tempo e neuroni alla coltivazione di un’arte fine a se stessa? Esaltare “l’arte” del dj o del producer a passione e/o professione creativa e libera, non equivale a invitare le generazioni future alla passività, alla fatuità e alla distrazione? Abbiamo veramente bisogno di altri producer o dj nel 2016?
La sensazione diffusa è che la musica elettronica sia ancora simbolicamente associata all’immaginario dello spettacolare, dell’eccezionale e dell’avanguardia, e i suoi protagonisti venerati e idolatrati in quanto tali. Eppure i nostri tempi non sono più quelli dei Kraftwerk e in realtà nemmeno dei Daft Punk originari, tutti possono facilmente diventare dj o produrre musica elettronica con un laptop e un paio di cuffie. E cosa fa un dj/producer di più nobile di quello che può fare tutti i giorni un panettiere (esempio random, non me ne voglia la categoria)? Senza il pane, ad esempio, non si potrebbe far arrivare al cervello il giusto sangue per farlo ragionare, pensare e agire. Magari un panettiere utilizza meno quoziente intellettivo di un ricercatore del CERN, ma sicuramente – approccio “pratico” alla mano – meriterebbe più venerazione e stipendio di un dj.
C’è poi un’altra questione: quella della capacità/attitudine degli ambienti in cui domina la musica elettronica dancefloor oriented di produrre, attraverso dei suoni, effetti di stordimento. Nell’era fordiana in cui è ambientato il romanzo distopico di Aldous Huxley, “Il mondo nuovo”, la musica sintetica e il cinema odoroso erano due esempi di mezzi di comunicazione, che svuotati del loro senso, non danno al pubblico “né il vero né il falso, ma semmai l’irreale. Ciò che più o meno non significa nulla”. E questi vengono utilizzati dalla politica, insieme al “soma” (una droga sintetica inventata da Huxley) per distrarre, destare le coscienze dei cittadini e dimenticare di vivere in un mondo in cui la libertà individuale è negata e calpestata. Sì, perché quei tuoni incessanti, quelle profonde pulsazioni sonore rassicurano gli abitanti del Mondo Nuovo, si impadroniscono sempre più delle loro coscienze al punto di farli affogare inconsapevolmente in un oceano di fatuità e di dimenticare molto facilmente la situazione di oppressione politica e sociale che li circonda. Ecco.
Certo, la realtà in cui viviamo noi non è la copia esatta del mondo futuro immaginato da Huxley, ma concedetemi di affermare che qualche analogia la si possa trovare facilmente. Anche nella nostra società attuale vengono favoriti e resi più accessibili quei mezzi di comunicazione che rintontiscono o intrattengono, vengono invece meno incentivati quelli che possono favorire la formazione di un’intelligenza critica. Inoltre la musica sintetica di cui parlava lo scrittore inglese rassomiglia molto alla musica elettronica di oggi, così emozionale e avvolgente da permettere facilmente di perdere il contatto con la realtà e rifugiarsi in mondi artificiosi.
Come fare perché la musica elettronica non sia contraddistinta solamente da passività, vacuità e pressappochismo? Partendo dal presupposto che la musica elettronica è assolutamente cultura, ovvero ha tutte le potenzialità e i diritti per esserlo, si potrebbe preferire a un consumo ottuso ed ingordo un consumo più consapevole, sostenibile e selettivo. Questo potrebbe essere un “equilibrio virtuoso”. Se come il protagonista dell’indimenticabile libro di Enrico Brizzi “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” vi sentite lontani anni miglia da un “edonismo annoiato e discotecaro”, magari un piccolo atto di rivolta e rivendicazione potrebbe consistere proprio nel tenere bene a mente di non chiudersi totalmente in questo mondo in cui ci si può facilmente perdere, illudere e isolare, così come di non cadere nel tranello della sua facile accessibilità (una percezione tra l’altro spesso falsata dai social media). Un modo per rivendicare il proprio diritto – più che lecito – di dedicare la propria vita alla coltivazione del proprio amore per la musica elettronica potrebbe semplicemente consistere nel darle un giusto valore, con un approccio più equilibrato e ragionato, magari acquistando qualche vinile in più invece di scaricare gratuitamente tonnellate di mp3, oppure cercando di ridare un senso alla figura del dj e del producer evitando di trasformare il primo in uno “schiaccia-tasti” e il secondo in un luminare irraggiungibile. Essendo nata come “musica di frontiera” (stilistica, estetica, percettiva, di contesto) la musica elettronica si basa su equilibri delicati, se si vuole mantenere il pieno delle sue (meravigliose) potenzialità. Il pop è meno problematico: si fruisce più facilmente, si fruisce più spensieratamente. Ma se non si vuole arrivare a considerare l’elettronica una musica pop – senza che essere pop sia necessariamente una colpa, sia chiaro – bisogna stare molto accorti, bisogna essere molto responsabili.