“Ho cercato di produrre un album che parlasse delle mie radici, della mia terra, proiettando queste suggestioni al futuro.”
Basterebbe l’inciso ‘Luca Massolin si racconta a Soundwall’ per introdurre l’intervista che il talentuoso musicista veneto ci ha concesso, ma dovremmo aggiungere perlomeno la nostra sorpresa, perché raramente ci è capitato di trovare tanta affabile apertura al racconto di sé, che poi non è solo una narrazione del vissuto del produttore, bensì qualcosa che ci accomuna tutti e che parte dai dischi di Lucio Battisti e Mario Schifano, per arrivare fino al qui e ora musicale, quello che assiduamente cerchiamo di decifrare su queste pagine. L’occasione dell’incontro è stato l’uscita dell’ultimo disco a nome Golden Cup, “Futura”, uscito per la “Soave Records” – etichetta nata da una costola della “Cinedelic Records” che vi consigliamo vivamente di tenere d’occhio – che reputiamo essere un compendio essenziale per entrare in quel mondo multi-sfaccettato che viene semplicisticamente definito “library music”.
Vorrei partire dalla tua formazione musicale, sei un polistrumentista vero?
Sì, anche se tutto ciò che so suonare l’ho imparato da autodidatta. A dire il vero i miei genitori mi segnarono ad un corso di chitarra da ragazzino, ma già dopo qualche anno capii che non faceva per me, non mi divertivo. Abbandonato ogni percorso accademico, ho iniziato a fare da me. Vengo da una famiglia normalissima, quindi a livello di investimenti materiali non è che io abbia ricevuto tante cose, eppure quando si trattava di stimolarmi, i miei si sono sempre dimostrati disponibili.
C’è stato un momento in cui hai capito che la musica sarebbe diventata centrale nella tua vita?
Non so se sai che per vivere vendo dischi, a Porto, dove mi sono trasferito già da un bel po’, quindi in un modo o nell’altro hai ragione a dire che la musica è centrale nella mia vita. Per me tutto è partito dal disco in vinile: ricordo che avevo otto anni e credevo ancora in Babbo Natale, chiesi attraverso la mia letterina un greatest hits dei Police. Quando aprii il pacco e c’era dentro quel vinile rimasi folgorato! Il secondo disco tutto mio fu “Wish” dei Cure e quello seguente “Automatic For The People” dei REM, che poi è stato il primo stimolo a prendere la chitarra in mano e suonare. Peraltro, su quel disco la chitarra non è mai suonata con le scale che si studiano alla scuola di musica.
A quei tempi i tuoi genitori cosa ascoltavano?
Sono estremamente grato a mio padre, aveva pochi dischi in casa – mi racconta sempre che smise di comprare vinili quando nacqui io – ma ne aveva a sufficienza per farmi scoprire mondi sconosciuti. Per esempio “Deep Purple In Rock”, quello con in copertina le facce dei musicisti scolpite nella pietra, che contiene “Child In Time” con tutti quei falsettoni incredibili, per me fu rivelatore. Lui si faceva anche delle grandi abbuffate di Fabrizio De André e di Leonard Cohen, ma capii subito che quello cantautoriale non era il mio percorso. Però ricordo ancora tutte quelle domeniche sul tappeto ad ascoltare i dischi con lui.
Poi cos’è successo? Intendo dopo che hai imparato a suonare la chitarra.
Sui tredici, quattordici anni, perciò nel periodo del liceo, c’è questa sorta di tempesta ormonale e hai voglia di darci sotto, di avere un gruppo e di produrre musica, ma hai poco tempo perché tra lo studio e le cose di casa non si riesce a fare nulla, e tra l’altro non hai nemmeno una lira in tasca. Quindi sapevo suonare la chitarra ma era una lotta per comprarsi i dischi, per avere un gruppo, per organizzarsi con persone che avevano meno tempo di te e così via. Però ho avuto la fortuna di studiare a Treviso, dove tutti suonavano qualche strumento e si respirava un’aria buonissima, lì la contro-cultura punk aveva attecchito alla grande. Quindi iniziai a suonare proprio in un gruppo punk, facevamo pezzi nostri, non cover, i negozi di dischi distribuivano i demo dei gruppi locali, c’erano le autogestioni a scuola che erano una bella cornice per esprimersi.
Ma il tutto era ancora relegato a una dimensione “giovanile”. Golden Cup ancora non era nei tuoi pensieri, giusto?
Esatto. Finito il liceo, a diciotto anni, mi sono trasferito a Bologna e ho condiviso casa con Riccardo Biondetti, che ora suona con gli In Zaire. Ricordo che erano i primi anni del duemila e c’era la voglia di mettere su qualcosa di più strutturato, ci riuscimmo anche assieme a Jonathan Clancy degli His Clancyness ed a Stefano Pilia. Tirammo su un gruppo post punk che si chiamava Suicide Club. Purtroppo, non abbiamo mai registrato nulla pur avendo scritto molti pezzi e deluso me ne tornai a Treviso. Avevo 22 anni e mi ritrovai a suonare con Giovanni Donadini ovvero Ottaven, in un duo noise che chiamammo Nastro Mortal. Questo passaggio, dal punk al noise, è stato importante per il mio percorso, perché ispirato anche da ciò che accadeva in America con gruppi tipo Wolf Eyes e Black Dice iniziai a sperimentare con l’elettronica, senza abbandonare lo spirito punk-rock con il quale sono cresciuto. Di fatto, ho iniziato a trattare l’elettronica in maniera punk e questa può essere considerata una prima tappa di avvicinamento a Golden Cup.
Nel frattempo, primi anni duemila, è arrivata la tua etichetta: la “8mm Records”.
L’etichetta all’inizio documentava le cose di amici, non aveva il respiro che ha oggi. Ha avuto un impulso sostanziale grazie ad un tappa che mi ha fatto crescere molto: suonare assieme collettivo Neo Karma, all’interno dei Jooklo per intenderci. Per due anni abbiamo girato un bel po’ e l’esperienza è culminata con la sonorizzazione dell’ultimo spettacolo di Merce Cunningham. Con il ricavato di questa esibizione sono partito per Porto con l’idea di aprirmi uno studio di registrazione e di investire maggiormente sull’etichetta.
Quali sono le uscite chiave per comprendere il colore della tua etichetta?
Ci sono tre filoni principali che cerco di coprire con la “8mm Records”. Innanzitutto quello dell’improvvisazione musicale, che considero un terreno che continua ad evolversi, ci sono oggi musicisti incredibili che vale la pena di seguire. Su questa linea d’onda il disco a cui forse sono forse più affezionato è “In Solo” di Arthur Doyle: era già vicino al punto di morte mentre registrava e non riusciva più a suonare il sassofono, per cui è un lavoro quasi interamente di improvvisazione vocale, è il suo canto del cigno. Poi c’è il filone più orientato al rock, seppur contaminato con il jazz e con il punk, per cui mi sento di suggerire “More Is More” dei No Balls. L’altro frangente che cerco di coprire è legato a tutto ciò che accade nei paesi non anglofoni, sempre a livello di “underground” se ha ancora senso questo termine. Siamo schiacciati dai media americani e inglesi e cercare di andare controcorrente è diventata la mia personale battaglia. Questo è un discorso che sto cercando di attuare anche con Golden Cup, ovvero non suonare all’americana, sforzandomi di non rifarmi a quegli stilemi triti e ritriti che ormai sono diventati uno standard.
Quindi “Futura” è nato dalla voglia di riscoprire le tue radici in musica?
Esatto, lo reputo un album che chiude un periodo e ne apre un altro. Con “Futura”, oltre a non fare l’americano, volevo creare qualcosa che non fosse solo frutto del mio tempo, ma anche del mio luogo, dello spazio in cui vivo. Quindi ho cercato di produrre un album che parlasse delle mie radici, della mia terra, proiettando queste suggestioni al futuro.
Trovo che ci siano delle similitudini con ciò che ha rappresentato il Futurismo per il ‘900.
Ma è proprio così, se pensi al futurismo ti viene in mente l’Italia e nient’altro, è stata una corrente artistica profondamente nostra, assolutamente estranea a qualsivoglia concetto di esterofilia, insomma non debitrice a quello che accadeva nelle altre parti del mondo.
Nel disco ci sento la ricerca di un futuro che è oramai impossibile da realizzarsi. Sono troppo pessimista?
No, sono d’accordo, anch’io penso che nel disco ci sia una visione utopica del futuro, probabilmente irrealizzabile. Ti dirò di più, è stato anche molto difficile da immaginare, non mi sono posto limiti e questa forse è stata la salvezza del disco. Ti spiego meglio: ad un certo punto mi ero bloccato, non riuscivo più ad andare avanti e proprio la libertà di poter immaginare qualunque scenario, anche paradossale, mi ha dato lo slancio per gli ultimi pezzi. Uno di questi è stato “Khalifa”, che contiene una voce araba che ho registrato in Marocco. Ad un certo punto mi è venuta in mente una città futuristica del sud del Mediterraneo, con i muezzin che continuano a salmodiare amplificati da speaker da quattro soldi, mentre magari la connessione internet va velocissima… da quest’immagine è venuta fuori la canzone.
A chi hai affidato la cura della splendida copertina dell’album?
C’è una bella storia dietro alla copertina, che è stata realizzata dal designer Al Porta. Avendo un negozio di dischi, mi succede spesso di andare in giro per le case perché la gente vende intere collezioni. Così un giorno mi sono imbattuto in un vecchio disco dei Koto, un gruppo italo disco che spopolava negli anni ’80. La copertina mostrava un’auto che sfreccia a tutta velocità attraverso un paesaggio del futuro. Mi piaceva da morire così ho iniziato una ricerca che mi ha portato ad Alessandro Porta, è questo il suo vero nome, che adesso organizza feste e sagre di paese. L’ho contattato e nel giro di pochissimo tempo mi ha mandato l’immagine ad alta definizione, a titolo gratuito.
Cosa ne pensi della retromania? “Futura” è inserito nella collana “Grandangolo°” dell’etichetta “Soave”, che si pone come un ponte tra la modernità e il suono sperimentale/psichedelico/minimale italiano degli anni ’70.
Mentirei se non ti dicessi che ho cercato di recuperare quello spirito libero che c’era nelle produzioni degli anni ’70. Molti dei miei dischi preferiti vengono da lì, dalla psichedelica, dai gruppi tedeschi, dal minimalismo di Terry Riley, dai gruppi italiani sperimentali di quegli anni. Però ho cercato di rielaborare il tutto dandogli la mia impronta.
Quali sono i dischi imperdibili dell’Italia anni ’70 che ami?
Ti sembrerò scontato ma uno dei miei dischi preferiti in assoluto degli anni ’70 è “Anima Latina” di Lucio Battisti. Mi piace com’è stato suonato, com’è stato composto, non è scontato in niente, praticamente perfetto. Sono particolarmente legato anche a “Dedicato A…” de Le Stelle di Mario Schifano, lo metterei tra i mie cinque preferiti di quel tempo.
La musica è sperimentazione ma, inevitabilmente, anche intrattenimento. Che percentuali concedi a queste due componenti?
Questo è un tema che ritorna nella mia testa milioni di volte. Il mio ultimo disco, ma anche i precedenti, non sono facilissimi da rendere dal vivo, e questa è una componente importante se vuoi arrivare a più gente. Ma c’è un altro aspetto, ancora più rilevante, legato a ciò che oggi la gente vuole. Mi accorgo che il pubblico ora cerca il beat, sennò si annoia o proprio non ti calcola. Io non voglio cedere quindi cerco di alleggerire l’esperienza dal vivo attraverso dei video o facendo set più concisi, ma più di ogni altra cosa semplicemente me ne frego e faccio ciò che sento, con il rischio di arrivare a pochi, lo so, ma almeno rimango libero. Penso davvero che ognuno debba fare i conti con ciò che gli suggerisce lo spirito, io preferisco avere un lavoro che mi garantisce la sopravvivenza e fare ciò che sento a livello artistico, anziché dover essere un ingranaggio in una macchina più grande di me.
Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Sto ascoltando alcuni dischi che mi piacciono molto della “Die Schachtel”, per esempio la ristampa di “Suoni Di Frontiera” di Claudio Rocchi e l’ultimo disco di Lino Capra Vaccina “Echi Armonici Da Antico Adagio”.
Ci consigli invece della buona musica portoghese contemporanea?
Un’etichetta portoghese da tenere sott’occhio è la “Príncipe”. Mi piace perché è una scossa che ci voleva da queste parti. Quando sono arrivato qui, parlare di musica nera era quasi un tabù e invece sono riusciti a riattualizzare, con l’aggiunta dell’elettronica, generi meticci per natura come il Kuduro, la Batida, e così via.
Progetti per il futuro, magari farti influenzare maggiormente dalle sonorità portoghesi?
Voglio innanzitutto abbandonare il nome Golden Cup e iniziare a produrre chiamandomi Le Onde. Devo ancora strutturare al meglio la cosa, perché sono in attesa di una figlia, quindi puoi immaginare il periodo. L’idea di base però c’è già: Le Onde sarà un laboratorio di suoni, sempre aperto al contributo di chiunque voglia partecipare, ci saranno uscite in volumi progressivi, senza distinzione tra ciò che sarà prodotto in solo oppure con l’apporto di altri musicisti, con un apparato grafico molto standard, ispirato ai dischi di Conrad Schnitzler. Inoltre, cercherò di stabilire un legame ancora più forte con la tradizione del sud Europa: dal Portogallo alla Spagna, dall’Italia alla Grecia passando per il nord Africa.
Ti chiamerai “Le Onde”, proprio come il pezzo che chiude l’album “Futura”.
Esattamente, come ti dicevo c’è una fine che sarà il mio nuovo inizio.
Cosa ti piacerebbe fosse più presente nella musica contemporanea?
Ti dirò, ho idee molto chiare su ciò che mi chiedi. Sono molto preoccupato della deriva corporativista che sta prendendo piede, anche a livello di underground. Trovo pericoloso, ad esempio, che la gente accetti di suonare con un logo dietro che rappresenta una multinazionale.
Fammi fare l’avvocato del diavolo: non trovi che sia un modo per far entrare investimenti in campo musicale che altrimenti andrebbero a coprire altri settori?
E’ così, è vero, ma non si può pensare che questa presenza non modifichi i contenuti oppure manipoli la nostra concezione di cosa è bello e brutto. Si finirà per avere un occhio di riguardo per qualcuno che è sponsorizzato in un certo modo.
Credo che alla fine, come hai detto anche tu prima, sia tutta una questione del seguire il proprio spirito. Finché c’è la possibilità di scelta, c’è speranza.
Giusto, e aggiungerei che deve anche esserci divertimento!