Che rumore fa un liquido versato in un calice pieno di ghiaccio? La percezione sensitiva è che Salvador Navarrete, in arte Sega Bodega, abbia saputo dare una risposta incisiva alla questione nel suo primo LP, uscito per l’etichetta NUXXE (che gestisce insieme a nomi della scena elettronica londinese quali Coucou Chloe, Shygirl e Oklou). Due gli elementi a priori che suggeriscono l’apparato contenutistico del disco: il titolo “Salvador”, che rimanda, come una stretta di mano informale, ad una presentazione intimista della persona; e il 14 febbraio, data d’uscita del prodotto. Un San Valentino solitario, quello di Navarrete, al tavolo di una cucina in penombra, con la sola compagnia di bottiglia, bicchiere e tanti, troppi pensieri che si delineano in testa ad ogni sorso.
Nonostante i picchi di maestria strumentale in cui l’alcool si presterebbe come ottimo compagno di danze, “Salvador” è un disco da hangover emotivo, che deriva da una prima coscienza reale e mentale degli eventi che hanno portato l’artista classe ‘92 a mettere da parte i progetti in collaborazione – si pensi al contributo nel sound design di “I Love You”, il magic porno avant-garde di Brooke Candy architettato insieme a Pornhub – e delineare i risultati di una terapia conoscitiva iniziata con il precedente EP. Se “self* care” del 2018 era un’espressione di getto di un flusso interiore non ancora razionalizzato, una filodiffusione cognitiva su un lettino nero con la musica-terapeuta che invitava allo sciorinare di ansie e pensieri per riuscire ad abbracciarsi da soli, “Salvador” rappresenta una disposizione ordinata delle tavole di Rorschach dapprima immaginate, un trovare i contorni delle macchie e analizzarle alla luce del sole, fino a scorgere il disegno che la mente ha plasmato senza l’alcool a fare da arrogante commilitone.
È quindi acqua, dopo i tre anni e mezzo di sobrietà e vittoria personale dell’artista, quella che si riversa bollente sul rapporto a tu per tu con la mente, sulle storie di vita, sui rapporti interpersonali con amici ed amanti; stavolta è Salvador che parla, c’è lui ai beat ma anche dietro al microfono in tutte e undici le tracce – eccetto in “Knox (Interlude)” in cui il pop electro-sperimentale che è lenzuolo di tutto il disco si accartoccia sopra la testa e ingloba qualsiasi principio di parola.
(“Salvador”; continua sotto)
L’album si apre con l’anatema “2 Strong”, un faro che si fissa su Sega Bodega al centro di un palco buio, mentre l’orecchio della platea inizia a prendere familiarità con l’artista attraverso vocals secchi e suoni digrignati. Uno schiarimento di voce, un ritocco al nodo della cravatta, ecco che arriva “Masochism” come un nome scritto in pennarello sulla targhetta applicata alla giacca in una seduta di gruppo aiuto-aiuto: una lettera aperta alla madre e all’alcool, parole limpide e dry che vengono annacquate in un incalzante ritmo che scorre veloce tra l’“I love you so” e gli “I must be stopped” del testo. La relazione è il topos principale che preme all’artista: Navarrete si destreggia nelle diverse fasi di un rapporto, non tanto nella descrizione oggettiva dei fatti quanto nella concretizzazione di sensazioni, studiando dal di dentro l’effettività delle percezioni sul reale accaduto e portando in musica i biechi riscontri dell’impatto sull’animo. Un’atmosfera pop-capitalista pervade la scena, senza scansare il dissidio emozionale che si colora di caldo: è questo lo spazio-tempo di Sega Bodega, “Palo Alto” di Gia Coppola ma ridotto ad un osso underground e London-vibed.
Ecco che sembra un Blackberry, il telefono da cui è stata inviata la dick pick che fa da soggetto all’esame del neo-erotismo digitale nella bittersweet “Rising Hell”, mentre sono di pesante velluto rosa le tende della casa in cui irrompe l’amato dopo una relazione che ha sguinzagliato ogni schizofrenia in “U Got the Fever”. L’apparato sessuale del disco risulta madido di sudore freddo, una paranoica masturbazione mentale che porta piacere fisico in bilico tra sado e maso; si pensi a “Smell of the Rubber”, in cui la metafora tra sesso e soggetto racconta di un legame che puzza di male sin dall’inizio (“When you lie you look like you’ve cum / But as if you’d came in public / Slightly nervous, red-faced / But deep down I know you love it”).
La sonorità è compatta ma variegata, pronunciata, si fa dolce all’occorrenza quando l’intimità più profonda viene a galla da sola; da hotline senza fili “Salvador” diventa un diario lasciato volutamente senza lucchetto: “Heaven Knows” e “Calvin” parlano rispettivamente di omicidio immaginato e suicidio reale (…quello del migliore amico, accaduto due anni prima), e sono tracce che assorbono il peso dell’esistenza come una coltre di nebbia imperlata dal mono usato in sacro modo confessionale in un dico-non dico volutamente instabile (Se ascoltate in questa modalità alcune parti di testo spariscono completamente, creando un salto di comunicazione).
Questa mancanza di piena comprensione tra soggetti si fa più carica nell’identificazione del singolo come detentore di un ‘non-luogo’ emozionale: dall’epilettica “Slav Goes to Hollywood” (“Pictures and I’m lonely / But, yeah, all I want is time”), fino alla bianca “Kuvasz in Snow” (“You’re wastin’ all of my time […] Hidden in plain sight / Like Kuvasz in snow”): essere sulla stessa barca sensitiva degli altri ma nel proprio spazio e nel proprio tempo, ritrovandosi immancabilmente a nuotare, spesso annaspare, da soli. Formalmente questo si nota nell’attrito tra contenitore e contenuto, quasi fosse una proporzione inversa: la materia dentro si fa ancora più intricata ad ogni esplicazione diretta senza giri di parole. La sproporzione giunge all’apice nella traccia trainante dell’intero disco: “U Suck”, nel suo essere assolutamente esplicita e concisa (Tutti quei “Fuck you” e “Suck you” ripetuti all’ennesima potenza), è invece su carta una palestra interiore per testare tutti i diversi modi possibili per mandare – sapete dove – l’interlocutore dopo un litigio, esaminati con l’aiuto dei back vocals con altre intonazione e consistenze.
Modi diversi per interpretare la stessa cosa: Sega Bodega sembra darci una chiave di lettura per aprire il nostro, di cancello interiore, ed incita ad una sincerità di espressione che risulta ancor più ingarbugliata quando si cerca di mettere i puntini sulle i dei propri dissidi; snodare il gomitolo, trasformarlo in maglia nonostante i fili intrecciati tra di loro. “Salvador”, nel suo tutto, è un disco che invita a non avere paura dell’intimità, riconoscere il proprio corpo anche a luce spenta, prendere il ghiaccio dal bicchiere e morderlo con i denti. Prendiamolo in mano, quel calice, e specchiamoci sul vetro brindando a noi stessi, sembra dire.