Tre giorni fa il Circolo Magnolia, venue alle porte di Milano che ha fatto la storia della musica indipendente (e non solo) in Italia e che ci auguriamo continuerà a farlo, ha postato sui propri social un appello duro, anzi, semplicemente drammatico. Eccolo:
Riassumendo, ecco il passaggio focale: “L’unico modo con cui rivedrete le nostre porte aperte sarà quando il green pass ci darà la possibilità di riempire il Magnolia a piena capienza, senza distanziamento né sedute“.
Ora: se questa è l’arma “definitiva” per sottolineare come un certo tipo di fruizione culturale e di socialità vada vissuto senza limitazioni, allora volendo ci può anche stare. Pensare che possa essere raggiunta col Green Pass ha generato molte critiche fra i commentatori ad esempio della pagina Facebook del locale, ma è – come accade spesso sull’argomento – una polemica pretestuosa, ideologica, miope. La questione non è essere contro o a favore del Green Pass, cosa che non è di pertinenza di un club musicale, la questione è più “Se il Green Pass c’è, allora che serva ad un ritorno alla normalità“. E questo sì che è un punto decisivo. Accapigliarsi sulla liceità o meno del Green Pass non è guardare né la luna né il pozzo: è guardare il giocatore delle tre carte che si è sistemato con lo sgabello accanto al pozzo, in questa precisa questione. E forse non solo in questa.
Ora: siamo convinti pure noi che ci sono forme di arte e socialità che non possono essere fruite come se fossero un té alle cinque del pomeriggio a Cambridge con sottofondo di quartetto d’archi, e siamo sempre più meravigliati – o schifati – pure noi dalla discriminazione che si sta avendo nei confronti di tutto quello che è percepito come cultura “giovane”, come se fosse cultura di serie B. E’ disgustosa ed avvilente questa situazione, l’abbiamo detto mille volte e sempre più lo ripeteremo, perché sempre più la pazienza sta per finire.
Sta per finire a ben donde: perché ci avevano detto che con la vaccinazione arrivata al 70% le cose sarebbero cambiate (…e ci siamo, anche se ora l’asticella è all’80%), ci avevano detto che col Green Pass le cose sarebbero cambiate (ed infatti stanno cambiando in tutta Europa, guarda un po’), e invece non sta succedendo nulla di tutto questo. In altre nazioni europee il “ritorno alla normalità” invece si vede sempre più, noi siamo fermi al palo su una linea della prudenza che sacrifica precari, liberi professionisti dell’eventistica e della cultura e chiunque voglia dalla propria vita qualcosa che non sia solo lavoro e divertimento adulto&elitario, o almeno percepito come tale.
Lo ripetiamo: questa cosa fa schifo.
Bene fa allora il Magnolia ad alzare la voce. Ma forse non fa altrettanto bene ad argomentare la questione in maniera così scarna, e buttandola un po’ pure sull’economia verso la fine del comunicato: “Rispettare le attuali regole non dà in nessun modo la possibilità di sopravvivere a realtà come la nostra“, per citare il passaggio preciso.
Ci sono realtà che sopravvivono con 100 posti di capienza. Tutto sta nel fare quello che si riesce a fare, non invece quello che si vuole – o vorrebbe – fare. E’ vero: tutta una serie di adempimenti logistici richiesti dalle misure anti-Covid fa schizzare in alto i costi fissi (tamponi, personale aggiuntivo…), ma la verità detta troppe poche volte è che l’intero comparto dei live – esattamente come quello dei dj set e dei festival di matrice techno/house – si è gonfiato negli anni come un batrace. Lo ha fatto quando le cose andavano a gonfie vele, e ci si ingegnava a marginare il più possibile fottendosene di tirare la corda (“E’ il mercato, bellezza“). Se i concerti non sono più economicamente sostenibili a capienza ridotta è in buona misura per un motivo molto, molto semplice: gli artisti e le loro strutture continuano a chiedere – tolte lodevoli o parziali eccezioni – soldi che andavano bene in epoca pre-pandemica. Anzi, qualcuno addirittura prova ad alzare la posta, “Sai, siamo stati fermi un anno“. Non fateci fare nomi, ma è successo veramente, sia nei live che nei dj set.
La verità detta troppe poche volte è che l’intero comparto dei live – esattamente come quello dei dj set e dei festival di matrice techno/house – si è gonfiato negli anni come un batrace
Ecco: il Magnolia, oltre a pretendere giustamente un ritorno ad una fruizione “viva” di un certo tipo di musica, poteva evidenziare anche questo aspetto. Ne ha l’autorevolezza, ne ha lo spessore storico (il Magnolia si è dedicato alla musica live indipendente quando era da pazzi e da suicidi farlo, c’hanno creduto per amore di cultura e non di denaro, e spesso ancora adesso fa così), ne ha la possibilità (perché per molti artisti una data a Milano è necessità, e una data al Magnolia è importante).
Invece, non l’ha fatto.
Esponendosi in questo modo a tutta una serie di critiche che in giro, a leggere certi commenti alla notizia, emergono. Chiaro, a tutti puoi rispondere “Ma che ne sai tu di quanto costa un live e delle spese che ci sono da sostenere…” (vero: chi critica nel 99% dei casi non ha idea), ma sinceramente pure a conoscere bene i meccanismi della domanda, dell’offerta, delle agenzie di booking, degli artisti che girano con crew sempre più cicciute, la domanda si pone eccome.
Possiamo immaginarlo, i commenti fra sé e sé delle parti in causa: “Bravo stronzo, se ci chiedi di abbassare i cachet allora vuol dire che lasceremo a casa molti tecnici, assistenti, roadies, scenografi, luciai, assistenti alla comunicazione, e allora sì che esploderà il problema del settore, con tanta gente improvvisamente più senza lavoro“. E’ un ricatto, questo, che va rifiutato.
Lo diciamo infatti forte e chiaro: dj e musicisti, appena hanno capito che il mercato dei live era la vacca da mungere e per giunta era un settore in continua espansione, non si sono mai fatti troppi problemi ad essere moderati e a tentare di non crescere come costi e struttura in maniera esponenziale. No, sono andati dritti per la loro strada e hanno provato a convincerti (ed a convincersi) che non c’era alternativa.
L’alternativa invece c’è. Non raccontiamo palle. C’erano concerti e dj/producer che costavano 1500 ed ora per forza devono costare tra i 5.0000 e i 10.000 euro, c’erano artisti che costavano tra i 5.000 e i 10.000 euro e ora per meno di 25/50.000 di offerta manco ti rispondono alle mail. E ci sono infine artisti che sono arrivati dalla scena indipendente – posto come il Magnolia li hanno nutriti, fatti crescere, fatti diventare grandi – che ormai ritengono una scelta inevitabile chiedere 50, 100, 250.000 euro per un loro concerto: sul serio, signori? Tutto questo è semplicemente pessimo, è un malcostume che si è gonfiato ed aggravato negli anni, è la crescita degli appetiti di artisti e manager che hanno scoperto, improvvisamente, che con la musica si può guadagnare anche bene pure se non sei il cocco di una major o dintorni. E’ stato giusto dare finalmente anche loro una fetta della torta, torta che per un sacco di tempo si pappavano solo i parassiti delle major e del maintream, chiaro, ma se alla fine diventi come le realtà da cui dici che sei sempre stato diverso – ehi, vale anche per l’elettronica, in realtà la roba della club culture era nata anche per andare in culo ai gigantismi ed alle idolatrie rock, no? – allora scusa, eh, ma noi dalla tua parte non ci stiamo più del tutto. Perché un conto è voler crescere, un altro è essere come quel sistema turbo-capitalista dell’intrattenimento su cui, a parole, saresti ancora contrario ed antagonista. A parole.
Questo problema va affrontato, non messo a margine: è strutturale, infatti.
Ecco cosa manca nell’appello del Magnolia.
Ed è una mancanza che rischia di offuscare anche la ragionevolezza dell’appello in sé. Che è tanta.