Se provate a chiedere a Prins Thomas se esista un luogo dove gli sarebbe piaciuto nascere, vi risponderebbe, in un rigurgito di nostalgico esotismo, “in Italia“. In Italia, sì, e più precisamente a cavallo tra anni ’70 e ’80, giusto in tempo per viversi gli ultimi trionfi delle sviolinate dance, per smerdare quelli del “disco sucks” e godersi, poi, la scoperta del suono sintetico – dentro un club, eh. Rigorosamente.
La serietà dell’amore di Prins Thomas per l’Italia, infatti, lo senti quando suona i dischi: quando, dopo aver variopinto il dancefloor di tutte le sfumature possibili del concetto di deep, è capace di farti accapponare la pelle con un “Amarsi Un Po’” di Battisti (come successo quest’estate a Sticker Mule) o, come a Napoli tre anni or sono, facendoti salpare su un “Veliero” per l’ultimo ballo. La senti in studio questa serietà, anche, certo. Perché se esiste un debito che la space-disco norvegese (linguaggio sui generis, originale, folkoristico se ce n’è uno, attenzione) contrae con qualcuno, è anzitutto con la nostra Italo e le sue ruggenti bassline.
A proposito di space-disco: mentre ascoltavo “V” – quinto lavoro sulla lunga distanza per il Principe del Nord che segna il debutto della nuova etichetta Prins Thomas Musikk – pensavo che delle tre corone, se Terje è l’eccentrico, Lindstrom il divulgatore, Thomas è certamente l’intellettuale, il pedante teorico: il più difficile ma anche il più affascinante. Un’immagine, quella del serioso sperimentatore che gli si appiccica bene dopo il mastodontico – e splendido, per chi ama le narrazioni lunghe e difficili- “Principe Del Norte” dell’anno passato.
Ecco, “V” è un disco che sembra quasi volersi scrollare di dosso quell’immagine di cupa serietà come obbiettivo di fondo. Un disco inspirato dichiaratamente dall’idea del viaggio, volutamente composito, tra influenze musicali (le linee di basso tricolori a far ovunque da sfondo sì, ma anche Metheny e i Plaid), tra esperienze, reali, tangibili e tra itinerari sognati. Un disco che vuole andare dritto al punto, essere più quadrato rispetto al predecessore e pronto ad inscenare qualche motivo anche più catchy per raggiungere il proprio scopo.
“A”, infatti, è l’esempio migliore che tradisce quest’intento: un traccione che tocca davvero degli universali musicali che non ti possono non smuovere qualcosa dentro – quell’arpeggio di daftpunkaniana memoria quante volte l’avremmo sentito?. Baldanzose, suonano in tal senso l’iniziale “Here Comes The Band” – tributo all’epoca del “Bandwagonesque” dei Teenage Fan Club – e “Atena” – originale l’inserto armonico house/nu-soul; mentre l’intento fallisce soprattutto con “Venter Pa Torske”.
Oltre alle “little ditties”, le canzonette – appunto – in questa quinta lunga strada (i settanta minuti totali non saranno l’ora e quaranta di “Principe Del Norte”, ma bhè, non sono proprio pochini) ci sono altre due saghe, le più personali: la serie dei bronchi e quella delle epopee.
La prima è una delle parti migliori del disco, forse perché la più scura. Quanto può essere fastidiosa un’influenza durante una vacanza? Ce lo spiegano “Bronchi Beat” e la conturbante “Æ”. Il groove, rallentato, mostra il malato nel suo incedere goffo e dinoccolato, mentre i synth sono vere e proprie incursioni nel profondo del corpo, nell’espansione organica della mucosa acida – “æ” è infatti la pronuncia norvegese di “acid”, che sta per la mitica 303 con cui è costruito tutto il pezzo. Con le lunghe tracce della seconda arriva qualche sbadiglio, ed è un peccato, perché è qui che ci sono le progressioni tanto elaborate più care alla space-disco. Un gioiello è però “London Til Lisboa”, dove con il lungo crescendo supportato dai pad sembra davvero di sorvolare tra le nuvole lontani dalla terra ferma.
Con “Aske Hermansen”, sulla scia eterea della precedente, si conclude la lunga strada di “V”. Tra luci e ombre. Per quello che è, allora, “V” non lascia un’impressione memorabile nel suo complesso. Se ci ha lasciato invece delle singole istantanee da incorniciare? Quello sì, sicuramente. Ma soprattutto, ci rende un Prins Thomas diverso, più diretto, più consapevole, che può permettersi anche escursioni in territori nuovi rimanendo fedele sempre al proprio approccio. Un Prins Thomas che non deve fare più il disco della vita, che ha tolto il broncio per il sorriso, anche se è un sorriso malinconico, mentre è ancora lì, nel suo studio, a guardare quell’Italia sognata…