Nessun festival italiano ha avuto una vita come quella di roBOt. Nessuno. Non è una scala di valore, è una constatazione di fatto. Ripercorriamone la storia: è nato sulle ceneri di una Bologna che non c’era più, quella del Link anni ’90 (esperienza distrutta col trasferimento in periferia, che ha dato vita a tutta un’altra faccenda), del TPO (che poi si è reinventato alla grande in chiave più indie altrove), del Livello 57 (parabola grandiosa e infine distruttiva). Passato l’arco vitale di queste esperienze, nei primi del nuovo millennio c’era stato un riflusso pauroso – e roBOt nel decidere di nascere come festival aveva avuto il coraggio di sfidarlo, tornando a “pensare in grande” come si era fatto nel decennio precedente ed uscendo dall’alcova della serata da club, che in quel momento – parliamo di metà anni 2000 – pareva un porto sicuro e redditizio.
Da lì, da quella prima edizione con la grande novità di Palazzo Re Enzo, nel cuore centrale cittadino, come venue, è stata una crescita continua, passo dopo passo. Un lavoro incrementale, in cui ogni edizione aggiungeva qualcosa di nuovo e qualcosa di più, e la crew del festival ad ogni annata si strutturava meglio, imparava sul campo, ampliava la professionalità e il raggio d’azione. Poi c’è stato il 2014, l’anno del primo rilancio pesante: uscire dal guscio sicuro di venue collaudate e provare lo sbarco in un padiglione della Fiera. Era un rischio, è stato un trionfo. Oltre ogni più rosea immaginazione. Un trionfo meritato: quell’anno fu azzeccato tutto, ogni minimo particolare, e anche la risposta del pubblico fu strepitosa non solo come numero ma anche come qualità: il giusto mix di festa&cultura, declinato nel migliore dei modi.
Questo portò alla famigerata edizione 2015. Quella del passo più lungo della gamba, del collasso finanziario (eppure, fu una edizione con un sacco di cose belle e anche con un riscontro di pubblico, commisurato alla line up, di alto livello anche numerico). Un collasso che poi ha finito per ripercuotersi pesantemente anche nel rapporto con la città (Bologna è piccola, Bologna è molto una comunità). Quelli di roBOt potevano farla “all’italiana” (scusate la generalizzazione), ovvero fallire, sparire, lasciare i debiti, per poi ricomparire chissà dove chissà quando, hanno invece scelto la strada più difficile: c’hanno messo la faccia, hanno ammesso le loro colpe, non sono scomparsi per niente, hanno lavorato in maniera anche silenziosa per percorrere il lungo cammino della riabilitazione, senza nascondersi mai.
Hanno una risorsa molto importante dalla loro: sono bravi. Bravi davvero. Bravi nella scelta delle line up, bravi nella grafica, bravi nella comunicazione, bravi nel creare un buon clima lavorativo all’interno del loro team. Nel contempo, hanno anche imparato ad essere umili e perseveranti al tempo stesso: in tutto quello che è accaduto post 2015, ci sono stati dei momenti in cui il pubblico non li ha premiati quanto avrebbero meritato (appunto: il rapporto di fiducia con la città era pesantemente incrinato) o in cui si sono presi delle critiche per questioni che invece sarebbero state perdonate e non menzionate negli “anni d’oro”, ma non per questo si sono fermati, scoraggiati, non per questo hanno lanciato accuse al mondo. Sono andati avanti.
Bene: il 2019 in maniera evidente e anche trionfale ha segnato la fine ufficiale di questa “traversata nel deserto”. Da fuori, da non bolognesi non era facile capirlo: sembrava che l’hype attorno a roBOt fosse spento, forse memori del fatto che tra il 2012 e il 2015 a Milano, Torino, Roma, Firenze, Napoli si parlava di roBOt e se possibile si faceva il conto alla rovescia prima di poterci andare. Nulla di tutto questo è successo quest’anno. Ma fa parte del “ridimensionamento intelligente” che il festival si è dato: passate le aspirazioni di grandezza a diventare il “Sónar italiano” che no, non sono mancate tra il 2014 e il 2015, si è aggiustato il tiro e si è deciso di ripartire dal proprio cuore, dalle proprie origini, dal proprio territorio, e di lavorare a testa bassa su quello.
Quindi ecco, quando personalmente ero preoccupato per come sarebbe andata questa edizione 2019 (per chi scrive il team di roBOt sono amici e persone che stimo: non lo nascondo), mi sono fatto una chiacchierata con Edoardo Mazzilli, il deus ex machina di quel posto delizioso che è Nero (e anche ex socio del festival): “No guarda, vai tranquillo, in città sento l’atmosfera giusta, il festival sarà un successo”. Beh: Edo aveva ragione. Eccome.
L’aria è cambiata. Se l’anno prima Weatherall suonava nella sala piccola della GAM per giunta piena a metà, quest’anno la GAM nella giornata con lui headliner era piena, così come era assolutamente piena – anzi, sold out – nella giornata precedente con Cortini (ottimo, affascinantissimo), Red Axes (sempre più bravi), Moxie (divertente) e Tolouse Low Trax (stiloso), oltre al buon John Talabot che dopo un periodo di appannamento di ispirazione come dj sta un po’ risalendo la china. Per giunta, proprio all’interno della GAM l’allestimento e l’uso degli spazi era ridotto rispetto all’anno prima, vero, ma molto più razionale, intelligente, efficace. Non è più – o non è ancora – il festival dei gigantismi, delle infrastrutture di lusso, dei palchi lussureggianti, delle luci che ti lasciano a bocca aperta; anche tutta la componente di arte contemporanea è stata vittima di quasi totale ridimensionamento; ci è intanto concentrati sull’essenziale, per offrire una bella esperienza-festival. Riuscendoci.
Lo si è capito anche dai piccoli particolari: non abbiamo nulla di principio contro il sistema dei token, per i bar, ma è un sistema che ha un suo senso per festival di una certa dimensione (di spettatori, o di metri quadri), in altri casi invece – e ne abbiamo avuto la riprova ad Amsterdam, dove ormai anche il club più sfigato adotta questo sistema – è più un modo per lucrare qualche margine in più sui gettoni che avanzano nelle tasche del pubblico. A roBOt hanno fatto un passo indietro: i bar erano pochi e ben individuabili, quindi ognuno aveva il suo punto cassa, con la conseguenza che il pagamento era in contanti. Meno ambizioso, meno “futuristico”, meno prestigioso; ma comunque un servizio in più per venire incontro al consumatore. E di questi piccoli gesti roBOt ha capito di aver bisogno: c’era e c’è un rapporto di fiducia da recuperare. Piccole cose. Ma importanti.
(Il set up live degli 808 State; continua sotto)
Le grandi cose musicalmente le hanno fatto gli artisti: abbiamo già fatto una carrellata su quello che è successo alla GAM, per quanto riguarda DumBo invece (a proposito: uno spazio in-cre-di-bi-le, che roBOt ha inaugurato e che speriamo possa entrare con continuità nell’offerta culturale bolognese e nazionale) va detto che The Comet Is Coming si sono confermati una forza. Non saranno raffinatissimi, saranno anche un po’ paraculi, ma comunque è uno dei live set più trascinanti ed appassionanti sulla piazza, e concettualmente sono molto più vicini loro al jazz di chi fa il compitino be bop per un pubblico di cinquantenni annoiati e distratti dal whiskyno (ma anche di che ne fa un Bignami pronto uso, come la china che ha preso live Kamasi Washington). Sugli 808 State, beh, è difficile scriverne, per me.
E’ difficile, perché si tratta del mio gruppo preferito: lo dichiaro. E al tuo gruppo preferito perdoneresti qualsiasi cosa, e io l’ho perdonata. Ma il loro live a Bologna è stato ai confini dell’imbarazzante: slabbrato, confuso, approssimativo, con un fonico che non c’ha capito nulla e – nel dubbio – ha sparato la musica ad un volume quasi fastidioso ed urticante. Però la storia, il piglio e le canzoni in sé sono talmente strepitose (anche molto del materiale nuovo) che alla fine sì, perdoni tutto, e non l’ho perdonato solo io ma anche tutto il foltissimo pubblico del DumBo (sold out pure lui, parliamo quindi di quasi duemila persone). Anzi, siamo rimasti sinceramente sorpresi dall’entusiasmo e dal “commitment” verso un tipo di offerta così “primi anni ‘90”, così da “vecchi esperti”: è che roBOt ha riportato fuori di casa quelli che avevano appeso il clubbing al chiodo o quasi, ma al tempo stesso si è evidentemente qualificato come credibile anche agli occhi delle generazioni più giovani, quelle che non sanno nulla del Link di metà anni ’90, del vecchio TPO, del Livello 57, della Street Parade, dei Pan Sonic quasi resident e di Aphex in città in tempi non sospetti. roBOt ha trovato il modo di entrare in sintonia pure con loro: anche lì si vede l’umiltà, e il duro lavoro.
Chiaro, con tutto questo pubblico ci saranno stati dei “casuali”, ci saranno stati quelli che hanno preso il biglietto solo perché “faceva figo” esser lì e in realtà non avevano idea di chi suonasse e perché, ok, ma in questo in realtà non c’è nulla di male. L’importante è che la gente fosse presa bene, e non fosse molesta; e la gente era presa bene, e non era molesta (…poi sì, il clima si è fatto più “frizzantino” con l’arrivo delle ore piccole e dell’alba sotto Dozzy che martellava, ma diciamo che questo è fisiologico – e Donato dal canto suo ha dato alla pista quello che la pista voleva, ma comunque col suo marchio di qualità).
E’ stato tutto perfetto? No. L’acustica dei luoghi è da aggiustare (magari trovando il modo di adeguare i sound system alle situazioni), come si diceva gli elementi “accessori” sono stati ridotti all’osso. Ok. Ma è stato tutto “giusto”: sono state fatte le cose che dovevano essere fatte, e sono state fatte nella misura giusta senza rischiare di fare passi falsi per eccesso di ambizione produttiva. Si è messa in campo la giusta dose di coraggio imponendo di nuovo la propria linea, il proprio gusto, le proprie scelte musicali, invece di inseguire le mode più o meno colte del momento: ehi, non è una cosa da poco, anzi. Poteva essere un rischio terribile. Ma il rapporto con la città è ricomposto, e Bologna ha premiato: non era scontato, arrivarci è stato tutto tranne che facile, c’è voluto lavoro, sudore, anche qualche schiaffo metaforico in faccia, ma ora possiamo davvero dare il bentornato a roBOt come festival assolutamente fondamentale sulla mappa, uno di quegli appuntamenti che ha fatto, fa e farà la storia della musica e cultura elettronica in Italia.
In pochi si sarebbero rialzati, dopo il 2015. In pochissimi poi si sarebbero rialzati così bene, con questo stile e questa efficacia. Bravi. Bravi sul serio.