Da qualche anno a questa parte, con cadenza regolare, vengono pubblicati articoli come questo, questo, questo e questo che raccontano di come il vinile stia riacquistando vitalità nel mercato riattivando un settore che sembrava destinato ad un inesorabile declino. Ma perché ad un certo punto il vinile viene quasi ripudiato? Come e dove ha (ri)trovato la forza per confrontarsi con le nuove tecnologie? Ad alimentare il buzz sono le major o le indipendenti? I grafici (come quello della RIAA) sono destinati a vedere un aumento delle vendite del “fisico” a scapito di download e streaming? Quanto di questo trend positivo riguarda nello specifico la musica elettronica? Sono tante le domande alle quali, attraverso questo lungo e particolareggiato reportage, cerchiamo di dare risposta.
La crisi inizia negli anni Novanta
Contrariamente a quanto in molti possono pensare, nel mondo della dance elettronica la crisi commerciale del vinile inizia a farsi sentire già negli anni Novanta. Ad ottobre 1994 il DJ Alan Russell della Hott Records e Black Vinyl afferma che «le multinazionali stanno provando ad eliminare il vinile perché realizzano maggiori profitti col CD» mentre Rob Di Stefano della Tribal America aggiunge che «portare avanti un’etichetta indipendente è dura, le vendite del mix sono scarse e la competizione è grande. Le piccole label stanno per essere spazzate via e le major “feriscono” la dance perché la usano solo come mezzo promozionale per entrare nelle classifiche». Si diffonde inoltre il timore che in un tempo relativamente breve il CD possa prendere il sopravvento in consolle, anche se molti DJ della vecchia guardia faticano non poco a concepire metodi differenti di lavoro continuando a considerare il disco uno “strumento” insostituibile per la propria attività. Tra questi Kerri Chandler che in un’intervista pubblicata a dicembre 1994 ammette di non riuscire nemmeno ad immaginare di entrare in discoteca con un bauletto pieno di CD, «sarebbero certamente più leggeri ma non danno le stesse sensazioni del vinile, mi rammarica che le etichette principali stiano tentando di eliminarlo gradualmente». Di diverso avviso è il compianto Elvio Pieri che a luglio del 1995 si definisce “il primo C.D.J. – compact disc jockey – d’Italia”. Sponsorizzato dalla Denon, abbandona il pesante ed ingombrante vinile «preferendo i più piccoli compact disc che uniscono praticità ed alta qualità all’insegna di un suono migliore e pulito».
Sono gli ultimi anni in cui il pop trova posto sulla plastica circolare e a tal proposito tornano utili alcune opinioni di discografici italiani raccolte da Eugenio Tovini per un articolo apparso a dicembre 1998 sulla rivista Trend. Mauro Bonasio della Sony Dance Pool dice che «il 12″ sta lentamente cedendo il passo al CD singolo», Emilio Lanotte della Level One pronostica che «il mix manterrà un suo mercato ma in forma più ridotta», mentre Giacomo Maiolini della Time annuncia una radicale riduzione delle uscite, «pubblicando solo quei dischi che hanno ricevuto giudizi positivi nella fase di pre-release dalle radio o partner stranieri». Un paio di anni prima (giugno 1996) Gianfranco Bortolotti della Media Records dichiara in un’intervista rilasciata a Billboard che «presto la musica verrà venduta attraverso il web, gli acquirenti pagheranno uno o due dollari ogni volta che scaricheranno le nostre ultime pubblicazioni». Altrettanto profetica è l’etichetta discografica tedesca Save The Vinyl, nata in seno alla Logic Records di Offenbach am Main e fondata nel gennaio 1993 da Bela Cox e dal compianto Markus Löffel (ossia Mark Spoon dei noti progetti Jam & Spoon e Storm). Lo slogan appare già a dicembre 1992 su una delle tante hit degli Snap!, “Exterminate”, e il logo correlato (pare realizzato da Sascha Lüönd) continua ad essere adoperato ancora oggi per merchandising vario. Sono presagi, sintomi, avvisaglie e sensazioni che qualcosa di grosso stia per stravolgere tutto. Sembra comunque che il problema non si ponga ancora in modo evidente per techno, house e generi correlati strettamente legati al mondo dei club, visto che il disco resta ancora l’unico supporto su cui convogliare la musica destinata ai disc jockey.
A maggio 1995 nell’articolo “Giù le mani dal vinile” Pierre Di Meglio ben rimarca come «in discoteca l’uso del CD sia ancora limitato dalla praticità e maneggevolezza del giradischi. Non è stato ancora ideato un apparecchio che sostituisca in tutto e per tutto il tradizionale piatto. Il digitale alla lunga forse avrà la meglio ma state certi che il disco venderà la pelle molto cara». Per la serie “se ne parla ma chissà quando e se accadrà davvero”. Degno di menzione è anche l’articolo “All’assalto dei dischi” pubblicato su Tutto Dance a giugno 1995, in cui si evidenzia come la fortuna di certi DJ risieda nella selezione della musica, meglio se non ancora pubblicata in forma ufficiale: «la nuova moda è proporre in anteprima le novità discografiche, nuovi generi musicali definiti con un nome ben preciso al quale si accosta lo sviluppo dell’immagine diventato fondamentale. Una vera e propria mania che spinge i DJ a cercare ovunque materiale su vinile fresco di stampa da suonare in discoteca o trasmettere in radio prima che lo faccia un altro. Diventa importante quindi trovare i canali giusti ed infatti i negozi specializzati in musica d’importazione sono sempre presi d’assalto e quando arrivano poche copie di un disco spesso vengono messe da parte per gli addetti ai lavori senza neppure riuscire a soddisfarli tutti. Le grandi case discografiche, dal canto loro, riservano solo una piccola quantità di materiale promozionale da inviare ai disc jockey più importanti che vengono usati come veicolo pubblicitario. L’esigenza diventa tale che spesso le etichette minori (le più importanti per questo tipo di lavoro) promuovono le loro produzioni attraverso i DJ che svolgono le serate in locali sempre diversi. Questo binomio risulta vincente tanto da aver dato il via alla collaborazione del DJ con la casa discografica nel creare nuove tendenze. Per i DJ più esigenti la ricerca continua attraverso canali diretti con l’estero, alcuni tra i più famosi organizzano viaggi almeno una o due volte al mese proprio per acquistare materiale discografico». DJ e dischi sono dunque un binomio indissolubile. È interessante anche lo speciale dedicato al vinile pubblicato ad agosto 1997 sulla rivista Tutto Dance in cui DJ italiani ed esteri rivelano il denaro investito settimanalmente in dischi oltre ai luoghi preferiti per il proprio shopping discografico. Richie Hawtin dichiara di spendere 250.000 lire a settimana mentre Massimo Cominotto ammette di volare spesso a Berlino per recarsi da Hard Wax, un negozio ancora in attività che per molti DJ è una sorta di mecca come lo è stato il Black Market Records a Londra.
Nel frattempo aziende come Denon, Pioneer, Gemini, BST o Vestax studiano soluzioni per proiettare il DJing nel futuro progettando lettori CD con caratteristiche adatte alle esigenze dei DJ. Nel 1993 la Denon sviluppa il DN-200F a cui si sommano il DN-1000F, il DN-2000F (ricordato come il primo CD duale per DJ al mondo) e il DN-2500F. Nel 1994 BST propone il CDM-100, il CDM-105 e il CDD 205 (presto raggiunto dal CDD 235) mentre Vestax, dopo il CD-07, lancia il CD-11 e il CD-33 accomunati dal pitch bend a mo’ di joystick e dal prezzo proibitivo: 2.487.100 lire il CD-11, 4.046.000 lire il CD-33 (i dati sono tratti da un listino dell’aprile 1994). Alla fine degli anni Novanta Vestax dimostra ancora di voler stravolgere radicalmente l’arte del DJing ricorrendo a macchine come il CDX-25 e soprattutto il CDX-12 , una workstation “all in one” (o stand alone, come si dice in gergo) che include due lettori CD, un mixer e persino un dispositivo che aziona lo spegnimento dopo dieci minuti di inattività. Non restano a guardare la Kam, col KCD-850 MK II e col KCD-950, la Gemini, col CDJ-16, CD-4700, con gli ingombranti CD-4000, CD-8000, CD-9000, CD-9500 e col CDJ-1200 (nel 1998 il suo prezzo di listino è di 1.598.000 mila lire) e la Pioneer, futura leader nel mondo degli strumenti per DJ, col massiccio CDJ-500 sostituito dalla versione “small” CDJ-500S nel 1997. Inizialmente il costo poco abbordabile rende questi prodotti scarsamente influenti sul mercato dei dischi e inoltre sono ben poche le etichette che pubblicano i propri prodotti anche in formato CD continuando a preferire la tradizionalità del vinile. A febbraio 1996 il DJ/giornalista Maurizio Di Maggio ricorda in un suo articolo che circa quindici anni prima, al Paradiso di Rimini, la Philips presentò il primo lettore CD ai capigruppo AID (Associazione Italiana Disc Jockey) ma il responso non fu positivo, perché il DJ non poteva toccare il disco. L’ingegnere della Philips spiegò pazientemente che si trattava solo di un modello compatto rispetto al prototipo a cui stavano ancora lavorando per perfezionarlo, grande all’incirca quanto un comò. Un certo scetticismo è alimentato anche dai carenti riscontri ottenuti dalla Technics quando introduce sul mercato l’SL-P50 nel 1984 e l’SL-P 1200 CD nel 1985. I tempi non sono maturi per pensare già di archiviare il supporto analogico ma per molte aziende il futuro è indiscutibilmente digitale: si pensi al Sony CDP-5000S del 1982, al Denon DN3000FC del 1983, al Sony CDP-3000 del 1984 o al Philips LHH2000 del 1985.
Anno 2000, scocca il millennium (music) bug
Col nuovo millennio arrivano diverse novità che abbattono le vecchie certezze del mercato discografico. Innanzitutto i prezzi dei lettori CD per DJ, che in media si posizionavano tra il milione e mezzo (Next! NCD-5000, NCD-6000) e i quasi tre milioni di lire (Numark CDN-34, Gemini CDJ-9800) iniziano ad essere più accessibili, come avviene per il CDJ-10 di Gemini a 799.000 mila lire. Inoltre ne arrivano di nuovi che, oltre a costare meno, promettono una maneggevolezza pari a quella del giradischi, come il Tracer X4 di Noiz che si somma ai tre modelli Sounder, X1, X2 e X3. Persino un caposaldo come la Technics cede al digitale immettendo sul mercato l’SL-DZ1200, reinterpretazione moderna del classico SL-1200 ma commercialmente meno fortunato rispetto al “fratello” giradischi. Parallelamente si registra un calo dei prezzi dell’informatica domestica: avere un personal computer con masterizzatore, stampante e modem per connettersi ad internet non è più proibitivo come qualche anno prima. Nel 1995 un pc con sistema operativo Windows 3.1 con 8 MB di RAM, un disco fisso da 420 MB, un lettore CD, un modem a 56k e davvero poco altro arriva a costare quasi 3.500.000 di lire. E la connessione? Nel 1997 per l’abbonamento flat di Telecom bisogna sborsare ben 248.000 lire mensili. Tra 2000 e 2001 si inizia a parlare di ADSL (il canone Infostrada è di 75.000 lire al mese, come si vede in questo vecchio spot) e nell’arco di un anno appena i prezzi calano ancora alimentando la diffusione capillare di internet e delle linee veloci. La somma delle due cose avvantaggia il file sharing, con Napster e siti simili come Audiogalaxy, Aimster (poi rinominato Madster), WinMX e Soulseek, che si rivela presto nefasto per l’industria discografica. La possibilità e la facilità di accedere gratuitamente a molta musica inizia a scoraggiare l’acquisto della stessa, e l’idea di avere gratis ciò che prima era necessario pagare conquista in breve una fetta sempre più corposa di pubblico. Dilaga la MP3 mania ed emerge la pirateria musicale, favorita dalla scarsità di canali che permettono l’ascolto online (come YouTube, che sbarca in Rete nella primavera del 2005).
Sono gli anni in cui iniziano a svilupparsi modelli alternativi per chi opera nel mondo della musica, come l’italiano Vitaminic inaugurato a giugno 1999, ritenuta la prima community europea interamente dedicata alla musica in formato digitale. I musicisti possono avere un rapporto diretto col pubblico, promuovere e vendere musica in formato digitale caricando sul sito i propri brani in formato liquido in modo da essere preascoltati (in streaming) e prelevati (in download) da consumatori di tutto il mondo. Insomma, il predecessore di future piattaforme come MySpace, SoundCloud o Clockbeats. Qui trovate ulteriori informazioni per approfondire. Parallelamente si affermano i software che danno a tutti la facoltà di cimentarsi nella produzione musicale tra le mura domestiche e con un investimento economico quasi irrisorio. Il resto lo fanno i programmi come Traktor Studio, Final Scratch, Virtual DJ e Mixxx che trasformano la modalità del DJing sino a quel momento rimasta praticamente immutata dagli anni Settanta. Ad onor del vero tra i primi a sviluppare l’idea del mixaggio con file MP3, ai tempi sinonimo di musica pirata, c’è la società bresciana Impulse Interactive (affiliata alla Media Records) che nel 1999 produce Mix-It. Per il mercato discografico è un vero e proprio cortocircuito e il temuto millennium bug finisce con l’avere più ripercussioni sul piano musicale che quello informatico. “Catastrophe 1999” del compianto Isao Tomita potrebbe essere la perfetta colonna sonora per marchiare il momento storico (in realtà è la soundtrack del film “The Prophecies Of Nostradamus” diretto da Toshio Masuda nel 1974).
Nel 2000, forse intuendo una incombente disaffezione per il vinile, alcune aziende sondano nuove soluzioni. Si inizia a parlare del Kingston Dubplate Cutter prodotto dalla MixMachines, che consente di trasformare un giradischi Technics SL-1200 o SL-1210 in un vero masterizzatore analogico di dischi in vinile, “proprio come se si trattasse di un registratore a cassette, di un DAT, di un minidisc o di un CD recorder”, come recita l’advertising. Si può collegare direttamente ad una sorgente dalla quale viene prelevato il segnale da incidere oppure all’uscita di un qualunque mixer audio se si vuole trarre il segnale da un altro giradischi. Analogamente la Vestax progetta il VRX-2000 Vinyl Recorder che funziona in modo simile. Entrambe le macchine fanno discutere nei forum sparsi in Rete (come qui e qui) quando i social network non sono ancora stati inventati. L’alto costo e la non semplicità di utilizzo però remano contro la diffusione di tali sistemi e di altri che si aggiungono in seguito, come il Vinyl Recorder del tedesco Ulrich Sourisseau, perché non riescono ad essere applicati per fini diversi da quello strettamente amatoriale.
La Rete diventa presto il terreno di confronto (e scontro) per i futuri pilastri del commercio fonografico. Ai marketplace attivi già dagli anni Novanta, come GEMM (acronimo di Global E-commerce Mega Marketplace), eBay, MusicStack o iBazar, nei primi anni Duemila se ne sommano altri, in primis Discogs, ed iniziano a svilupparsi i web record store che forniscono ossigeno al comparto. Si comincia a testare lo switch dal negozio fisico a quello virtuale: vivere in un paesino di provincia non implica più svantaggi rispetto a chi abita nelle grandi città dove i negozi sono di gran lunga più forniti, internet rende accessibile tutto a tutti. Sembrano già lontani i tempi in cui certi DJ particolarmente esigenti si recavano all’estero per acquistare i nuovi dischi che avrebbero reso uniche, o quasi, le proprie performance. L’ascesa dei web shop segna però il declino di molti negozi tradizionali che difficilmente riescono a garantire ai propri clienti un vasto assortimento come quello di chi commercia online. In tantissimi chiudono battenti, schiacciati pure da insostenibili spese di gestione. Nel libro Decadance Extra pubblicato nel 2015 vi è un intero capitolo dedicato ai negozi (per DJ) di dischi, da nord a sud Italia, che raccoglie storie, opinioni, interviste e retroscena direttamente dalla bocca dei titolari. Ad emergere è un quadro piuttosto desolante perché la maggior parte di essi ha chiuso da tempo. I numeri incredibili di una volta si sono drasticamente ridotti e davvero in pochi sono riusciti ad uscire indenni dalla “digital storm”. Qualcuno ricorda le file che si creavano il sabato pomeriggio, qualcun’altro snocciola cifre oggi impensabili o aneddoti su prezzi “gonfiati” delle copie promozionali o di bootleg stampati appositamente “fotocopiando” quei dischi difficili da reperire dagli importatori. Insomma, un mondo fatto di passione ma anche di spietata speculazione.
Il black out naturalmente non riguarda solo l’Italia o la musica dance. Il documentario del 2012 “Last Shop Standing” diretto da Pip Piper ed ispirato dall’omonimo libro di Graham Jones, è incentrato prevalentemente sulla musica rock ed esalta il ruolo dei negozi di dischi come luoghi di incontro tra appassionati e centri di diffusione di cultura musicale, ma nel contempo pone l’accento su numeri che fanno riflettere visto che nell’ultimo decennio sono circa 1540 i negozi di dischi ad aver chiuso oltre la Manica. La “rinascita” di cui si parla va quindi interpretata come “nuova genesi” e non “resurrezione” giacché i parametri caratteristici (come la stretta relazione con l’ubicazione geografica) e di sviluppo dei “nuovi negozi di dischi” sono completamente differenti rispetto a quelli del passato in cui il vinile apparteneva all’ordinario consumismo quotidiano. Pure David Byrne, nel suo libro “Come Funziona La Musica”, ricorda che «Tower Records ha chiuso i battenti nel 2006, Virgin Megastores nel 2009, Borders ha dichiarato fallimento nel febbraio del 2011 e l’inglese HMV ha chiuso un numero enorme di filiali nel 2012: non riapriranno, non è una semplice “flessione”. I pochi negozi indie sopravvissuti hanno dipendenti che se ne intendono e che amano la musica e i musicisti di cui vendono i dischi, ma devono vendere parecchio per pagare l’affitto quindi viene naturale chiedersi quanto riusciranno a resistere».
Se a partire dai primi Duemila i negozi di dischi sparsi nelle città di tutto il mondo non se la passano un granché, non va certamente meglio ai distributori. In pochi anni crollano quasi tutti quelli che sembrano solidi capisaldi a livello internazionale: in Germania, una delle nazioni più floride del mercato del disco “DJ oriented”, finiscono in cenere la EFA (Energie Für Alle), fondata nel 1982 e in bancarotta nella primavera del 2004, la CPL, che sopravvive per poco più di un anno (dall’autunno 2003 al gennaio 2005) e la Neuton (1993-2008), mentre la Music Mail, creata da Frank Schreiner nel 1992, si converte al digitale attraverso dig dis!. Chiudono battenti pure la Discomania con sede a Rosbach e nota anche come DMD (1991-2010), la ELP Medien di Corrado Izzo (1998-2007) e la interGROOVE, un colosso fondato nel 1995 che vantava sedi dislocate in Francia, Italia, Ungheria, Spagna, Norvegia e Stati Uniti. Non va meglio all’Inghilterra che tra 2001 e 2002 vede la chiusura della Vinyl Distribution di Phil Wells, nel 2003 della Prime Distribution e nel 2007 di Amato Distribution. Il Belgio invece perde sia Audiopolis, nata a Ghent nel 2003 con tanti buoni propositi e numerose etichette interne (Toys For Boys Records, Serie, Dirty Dancing, Dark Print, Destination Records) ma incapace di reggere oltre il 2006, sia Lowlands, fondata nel 1992 da Tom ‘DJ Low’ De Weerdt e rimasta in vita sino al maggio 2008 (sono sue varie label come Downsall Plastics, Musique Belgique Archive e Surprise). In Olanda a settembre 2012 abbassa la saracinesca anche l’impero dell’hardcore Mid-Town legato alla Mid-Town Records di Hans Tieleman e Rene Bakker. A rimetterci le penne ovviamente pure molti wholesaler del nostro Paese e questo avviene sin da tempi non sospetti come nel 1997 alla napoletana Flying Records ed alle milanesi Discomagic Records (1997) e Dig It International (1999). Negli anni Duemila tocca anche a Bomb, Level One, Dee Jay Mix ed altri minori. Tra gli specializzati invece si “spengono” Remix Distribution (1993-2002) creata a Roma da Andrea Benedetti e Marco Passarani, che aveva in esclusiva tutte le uscite della Hotmix di I-F e le etichette della Neuton, la White And Black di Milano, che oltre alla house francese (Roulé, Yellow Productions, Versatile, Crydamoure, Poumtchak) trattava parecchia drum n bass e breaks di Moving Shadow, Metalheadz, Wall Of Sound e Freskanova, la Wide Records di Pisa (1988-2006), abbracciata al post rock e all’elettronica (distribuisce Rephlex in Italia) e la Karma Distribuzioni, fondata da Paolo Cancro nel 1996, che nel capoluogo campano crea un fiorente snodo per musica techno/house destinata ai club. In un’intervista del 2003 Cancro dichiara: «Credo in una ripresa del vinile e ad una frammentazione del mercato. Noi siamo specializzati quindi la crisi è minore ma se abbassassero i prezzi e l’iva ci sarebbe più mercato e più cultura musicale. Penso comunque che quello della cultura sia il problema principale della crisi iniziata a metà anni Novanta, ma risolverlo sembra un’utopia, oggi più che mai».
Ad analizzare il caro prezzi è anche Emiliano Zerbini in un’interessantissima indagine dedicata allo stato della distribuzione musicale in Italia: «Secondo FIMI (Federazione Industria Musicale Italiana) le vendite nel settore audio registrano, tra il 2003 e il 2004, un calo del 15% ad unità e del 10,72% a valore. La differenza di decremento è dovuta ad un aumento dei prezzi da parte del comparto produttivo che ha cercato di contrastare il calo delle vendite dei singoli pezzi aumentando i prezzi». Altrettanto interessanti i dati relativi alle attività presenti in Italia che commercializzano dischi al dettaglio. «Tra il 2000 e il 2003 il numero dei negozi “attivi” registra una tendenza decrescente ma comunque positiva. Nel 2000 i negozi “attivi” erano 2.271, nel 2001 erano 2.445, nell’anno successivo 2.539 e nel 2003 ammontavano a 2.610. Ogni anno il numero aumenta ma confrontando un risultato con quello precedente, si nota un forte rallentamento nell’aumento di negozi. Guardando invece le variazioni delle cessazioni, la tendenza è decisamente negativa; per tutto l’arco temporale considerato, si assiste ad un crescente aumento delle cessazioni di attività. La crisi del settore si ripercuote dapprima nel comparto distributivo e poi si propaga a ritroso lungo tutto il canale. Se i dischi non si vendono più, o comunque le vendite subiscono una forte contrazione, i primi a vedere fallire i loro progetti imprenditoriali sono proprio i negozi di dischi. Si ritrovano con gli scaffali e gli spazi espositivi colmi di merci che non riescono a smaltire. Le case produttrici all’inizio non hanno sofferto di questi sintomi poiché hanno comunque prodotto nuovi lavori e li hanno collocati presso i propri distributori che hanno riempito i negozi, ma ora che la situazione è divenuta stagnante, gli ordini dei negozianti sono meno consistenti e più dilazionati nel tempo così anche i distributori e, conseguentemente, i produttori si sono ritrovati coi magazzini pieni di dischi invenduti». A metà degli anni Zero si respira un’aria di netta incertezza. Fare paragoni col passato è fortemente demotivante per case discografiche, artisti e negozianti. In particolare questi ultimi cercano soluzioni per evitare la chiusura e, come rimarca Zerbini, «la quasi totalità degli intervistati dichiara di commercializzare anche i dvd musicali, entrati a pieno titolo nel computo dei prodotti tipici della discografia, altri affiancano a sostegno delle proprie vendite articoli come film e videogiochi, entrambi riconducibili, assieme ai dischi, all’industria dell’entertainment. Sono presenti anche poster, calendari, merchandising vario, ecc. Pochi i negozianti che dichiarano di vendere solo ed esclusivamente dischi: sono i negozi di nicchia probabilmente specializzati in uno specifico genere o settore».
Anni di transizione e presunte nuove strategie: la “beatportizzazione”
Il terreno sotto i negozi specializzati (come quelli per DJ) continua a franare con l’arrivo di Beatport, fondato da Jonas Tempel, Eloy Lopez e Brad Roulier e con un investimento iniziale da parte dell’ex giocatore di football Trevor Pryce e di alcuni DJ (pare Bad Boy Bill, John Acquaviva e Richie Hawtin). Online dal 7 gennaio 2004, inizialmente conta nel proprio catalogo appena 79 etichette ma nell’arco di solo un anno il numero aumenta esponenzialmente sino a raggiungere 2700 etichette ed oltre 100.000 brani (fonte Wikipedia). Con l’esplosione commerciale del filone minimal di cui Hawtin è il portabandiera, Beatport diventa una moda e in tantissimi iniziano a venerarlo perché lo considerano il modo più facile e rapido per affermarsi artisticamente. Tra 2006 e 2007 nascono e proliferano come funghi etichette accomunate da una visione che guadagna sul tempo ma accumula un pauroso ritardo in termini progettuali. La musica viene “scompattata”, per la generazione “beatportiana” gli album e gli EP non hanno più senso perché riflettono un modo arcaico di fare discografia. Sfruttando il layout grafico minimalista del sito si cerca di essere quanto più sintetici possibili puntando a pubblicazioni contenenti una sola traccia, convinti che l’utente difficilmente avrebbe cliccato sulle icone successive per ascoltare altri brani raccolti nello stesso prodotto. In realtà quello dell’uscita “one track” è anche uno stratagemma per far crescere il volume della propria attività in modo istantaneo e col minimo sforzo. Se prima erano necessarie in media 3/4 tracce per una release da solcare su vinile, ora 4 brani vogliono dire altrettanti numeri di catalogo. Inoltre, non meno importante, è la cadenza di pubblicazione: mettendo fuori una (o anche più) uscite alla settimana, si dà l’impressione di essere iperattivi finendo costantemente nella lista delle new release ed ampliando quindi le possibilità di vendita.
Più che etichette discografiche, ad animare freneticamente il Beatport di metà anni Zero sono “contenitori” posizionati su catene di montaggio industriali. In molti casi non esiste una vera linea artistica (anche perché i presunti A&R non hanno nessuna facoltà di ricoprire tale mansione) e si finisce col pubblicare bozze, demo ed anche le cose più insulse confortati dal fatto che il rischio di perdere del denaro sia pari a zero. Più si riduce l’alea, più l’identità creativa si livella in basso. Chi continua a lavorare con criterio è numericamente inferiore e quindi spesso è destinato ad “affogare” nel mare magnum di bit. La sovrapproduzione e l’inesperienza, comunque, sono problemi che si lamentano da decenni. A novembre 1994 DJ Duke (quello della Power Music Records, “casa” di etichette come Sex Trax, Power Music Trax e Sex Mania) dichiara in un’intervista che «la maggioranza delle etichette indipendenti che nascono è fatta da gente non molto competente che tenta, con un po’ di equipaggiamento, di fare dischi. Se però non riescono ad essere pagati dai distributori falliscono perché non hanno più denaro per finanziare la propria attività». La digitalizzazione e la conseguente smaterializzazione del supporto abbatte i costi fissi come quello della stampa dei dischi e ciò facilita il moltiplicarsi degli improvvisati prolungando, teoricamente all’infinito, il tempo della loro attività. Comunque negli anni di boom le case discografiche non fissano limiti ed inondano il mercato di continuo con nuovi prodotti che, per ovvie ragioni, non sono tutti validi. Marshall Jefferson lamenta iperproduzione e fiacchezza creativa già in un’intervista del gennaio 1995: «In giro ci sono troppi dischi con la stessa programmazione della batteria. Mi piace che molti abbiano cominciato ad incidere dischi ma spesso la qualità non è buona, ho ascoltato molte canzoni che sembrano non ultimate o incomplete». Parere simile quello di Simon Dunmore, al vertice della Defected ma ai tempi A&R della AM:PM, che emerge da un’intervista pubblicata a giugno 1995: «Sento che il mercato è ipersaturo ma nonostante ciò le piccole etichette dance indipendenti restano essenziali per lo sviluppo di questa. Sono il terreno dove si formano artisti, produttori, compositori e remixer ma sarebbe opportuno che ci fosse un più netto controllo della qualità. Le major stanno lavorando sul potenziale della dance che non è più ghettizzata e marginale, anzi è diventata un gigante della musica pop commerciale. L’annuncio della fine del vinile si è rivelato prematuro, penso che tale supporto sarà utilizzato per almeno un altro decennio». Altrettanto interessante è questa clip tratta dal documentario “Italo Disco – The Sound Of Spaghetti Dance” di Pierpaolo De Iulis, incentrata sull’intervento del compianto Severo Lombardoni della Discomagic Records: «Sono arrivato a pubblicare anche 5/6 dischi al giorno, tutti i giorni, eravamo in grado di poter pubblicare addirittura 50/60 dischi al mese». Con le dovute proporzioni, era un fenomeno quantomeno simile nei numeri a quello della “beatportizzazione”, forse un po’ meno nelle intenzioni visto che i tempi a cui si riferisce Lombardoni, i primi anni Ottanta, non erano ancora marchiati dalla faciloneria dozzinale dei dilettanti allo sbaraglio che invece ha contraddistinto più nettamente l’inizio del nuovo millennio.
Come se agisse in una sorta di attività autoptica, Beatport favorisce il “sezionamento” della musica: l’acquirente può decidere di acquistare solo uno dei brani dell’EP o dell’album e questo è uno dei fattori che allontana la musica digitale da quella pensata e promossa dalla “vecchia” discografia. I giorni dei concept album, coi brani che creano un mosaico di emozioni e che vanno ascoltati in un certo ordine per godere del messaggio dell’autore, appaiono lontanissimi. Ogni traccia ora può essere isolata dal resto e consumata individualmente. Ad uscirne demolito è pure l’aspetto grafico. Su Beatport per “copertina” si intende un quadratino di pochi centimetri per lato, un francobollo insomma, su cui diventa praticamente impossibile inserire dati leggibili. Molti allora piazzano il proprio logo, senza distinzione tra un’uscita e l’altra. Innumerevoli “etichette” si trasformano in entità impersonali, fredde, che sfornano a ripetizione prodotti fatti in serie. La musica in catena di montaggio, senza più anima e senza più corpo. Sono anni in cui nasce e cresce una generazione svincolata del tutto dal concetto di “possedere” materialmente la musica. I pezzi viaggiano sulla Rete, vengono compressi in file MP3, al massimo finiscono archiviati in un hard disk di qualche centinaio di GB insieme a migliaia di altre tracce di cui si fatica anche a ricordare quando e come si è riusciti ad entrarne in possesso. Ma Beatport non deve essere considerato un capro espiatorio, il neologismo “beatportizzazione” nasce in virtù del fatto che il negozio online di Denver sia stato un modello per tanti che sono seguiti nel tempo e che ne hanno ripreso l’essenza seppur con sfumature e politiche aziendali diverse. Pian piano si passa dal concetto di MP3 come “musica pirata” a quello del formato utilizzabile in forma legale, ed anche gli addetti ai lavori si dividono in due fazioni. Christian Morgenstern della Forte Records dichiara in un’intervista a gennaio 2002: «I file MP3 non mi piacciono per niente, suonano male, ma alla fine li utilizzo ugualmente. Apprezzo però l’idea di poter scaricare un intero album sul telefono cellulare e credo che grandi sviluppi e cambiamenti stiano per arrivare». Il tedesco ha ragione ma il destino gli impedisce di vivere la digitalizzazione perché muore prematuramente nel 2003 ad appena 27 anni. A luglio del 2002 Paul Elstak, gigante dell’hardcore olandese, dice che «il formato MP3 aiuta la nostra musica a raggiungere posti in cui non esistono negozi di dischi specializzati dando così facoltà alla gente di quei luoghi di poter usufruirne ugualmente». Più critico invece Danilo Vigorito che, a giugno 2005, parla delle etichette digitali come veicoli di «valore promozionale ma che da un punto di vista musicale favoriscono l’impoverimento della scena in quanto sono l’ennesima facilitazione al proliferare di canzonette ed artisti improvvisati». Quasi un anno più tardi (marzo 2006) Valentino Kanzyani pare disilluso: «Si parla di morte del vinile sin da quando fu inventato il CD eppure si sta ancora usando, ma ci avviciniamo sempre di più al giorno in cui per i giovani non avrà più senso suonare coi dischi, preferiranno sistemi più avanzati. Le nuove generazioni tendono ad usare cose nuove e prima o poi i DJ che suoneranno col vinile rimarranno davvero in pochi».
L’avvento di Beatport (e di tutto l’indotto legato alla musica liquida) segna l’inizio degli anni più bui per il vinile. Dal 2005 in poi il 12″ continua a perdere appeal e valenza economica. Moltissimi rivedono le proprie stime di crescita al ribasso, sia per pirateria che diffusione di tecnologie meno costose che sottraggono spazio al disco. Con gli introiti che scendono calano anche le possibilità di investire su nomi sconosciuti, i nuovi talenti, che sino ad una decina di anni prima contavano su un supporto più significativo delle case discografiche che riuscivano ad ammortizzare i costi di eventuali scarsi/ridotti risultati coi profitti conseguiti dai nomi più noti. Il fallimento di molti distributori e la chiusura di vari pressing plant poi sono altri sintomi di forte sofferenza. Stampare dischi vuol dire sborsare denaro che, per tanti, non potrà essere recuperato nemmeno per coprire le spese. L’incertezza persuade molti a mollare o a convertirsi al formato digitale che garantisce una diffusione su scala mondiale e in tempi rapidissimi, oltre alla (quasi totale) perenne disponibilità del prodotto. Insomma, abbandonare la lunga, laboriosa e costosa trafila del vinile in cambio della velocità ed immediatezza del digitale sembra la cosa più sensata da fare. I più tenaci sono messi a dura prova sia da condizioni economiche tutto fuorché rosee, sia da problemi logistici: i distributori rimasti in attività limitano l’accesso a nuove etichette perché non sanno come smaltire il materiale nei propri magazzini. Ulteriore disincentivo è rappresentato dal fatto che i giradischi spariscano progressivamente dalle consolle dei locali sparsi in tutto il mondo. Molti DJ lamentano il fatto di ritrovarsi in consolle coi Technics usati a mo’ di supporto per computer o bibite o, nella migliore delle ipotesi, malfunzionanti. Qualcuno fa anche notare che si rende necessario inserire i giradischi nel proprio technical rider perché sono sempre di più quei club che hanno completamente rimosso i Technics dal proprio setup. Portarsi dietro gli ingombranti flight case inizia a diventare inutile e la praticità del CD (e più avanti delle chiavette USB) ha il sopravvento.
Technics SL-1200: l’opinione di un esperto
È fuor di dubbio: il disco e il giradischi rimangono le icone del mondo dei DJ, sono simboli che il cervello associa automaticamente a quella figura professionale, molto prima e più efficacemente rispetto a qualsiasi altro supporto e dispositivo. Il Technics SL-1200 poi è l’icona dell’icona, simbolo di più generazioni e del turntablism rimasto nel cuore di milioni di persone grazie alle gare acrobatiche che il DMC organizza sin dalla metà degli anni Ottanta. Ma perché quel giradischi ricopre un ruolo tanto importante da diventare simbolo per antonomasia del DJing? Ne parliamo con chi lo conosce meglio delle sue tasche, Stefano “Steezo” Corapi, legittimamente noto come Mr. 1200. «Il seme in me era già instillato nella prima metà degli anni Novanta, il Technics era il punto di arrivo e la macchina iconica per noi che provavamo a mettere i dischi. Conoscevo già a memoria i manuali service, sognavo i “milledue” e il non poterli portare a casa – causa madre che vedeva la figura del DJ come peggiore di Satana – mi fece ripromettere di possedere da grande una stanza piena di 1200. Qualche anno fa, dopo aver viaggiato un po’ nel mondo, mi sono stabilito a Perugia ed ho ritrovato un 1210 bisognoso di cure. Feci fare il lavoro ad una persona ma non fui soddisfatto del risultato, sono sempre stato pignolo e maniaco nei miei lavori e non potevo pensare di avere una macchina raffazzonata, sia pure soltanto nei dettagli interni. Così l’ho rismontata e rifatta daccapo, e a questo è seguito il secondo esemplare, poi quelli di alcuni amici, poi qualche utente di un forum per DJ ed il grande pubblico col diffondersi di Facebook. Da lì la mia decisione di mollare il lavoro che facevo prima, di tutt’altro genere, e scommettere su quella che era la mia grande passione, oltre ai motori. Ho creato Mr. 1200, brand che si occupa esclusivamente della revisione e customizzazione dei giradischi Technics all’interno della Precision Sound Lab, che invece cura l’ideazione e la realizzazione degli accessori specifici per i 1200, dal clamp stabilizzatore per i dischi alle prese RCA. A proposito di queste, il primo modello l’ho ideato sull’attacco cerniera del coperchio parapolvere, una modifica semplice ed efficace che ho realizzato alle tre di notte dopo averla pensata a letto. Mi sono alzato e vestito di corsa per andare in laboratorio, dovevo verificarne la fattibilità e avevo il terrore di dimenticarmene il mattino dopo. Da subito si sono confermate un grande successo e le copie sono state innumerevoli in tutto il mondo anche se la realizzazione rifletteva poca cura. Nonostante il consenso ottenuto dalla prima versione delle prese RCA, sentivo l’esigenza di rendere la modifica ancora meno invasiva. Col primo tipo si perdeva un aggancio del coperchio parapolvere ed inoltre si dovevano considerare altri quindici centimetri di ingombro posteriore del giradischi, tra prese, spine RCA e curvatura del cavo. Lo scorso anno poi all’Amnesia di Ibiza – dove ho uno shop estivo – questo problema è diventato lampante in quanto in consolle per i giradischi hanno due alloggiamenti incassati davvero molto stretti, per cui abbiamo dovuto montare due macchine sempre rifatte da me ma coi cavi fissi. Da lì al mio rientro il pensiero permanente è stato sviluppare un’idea per avere lo stesso ingombro originale ma con la comodità enorme di poter cambiare i cavi “on fly”. La soluzione sul fondo della macchina, dopo vari prototipi, è venuta proprio come la volevo io: comoda, non invasiva, e, last but not least, bella da vedere. I pezzi sono ricavati da lega leggera di derivazione aeronautica dal pieno con lavorazione completamente italiana, e il trattamento superficiale anti ossidazione viene sempre eseguito in Italia per cui campeggia sul coperchio una bella scritta ‘made in Italy’ di cui vado molto fiero, come sono fiero del design registrato a mio nome a livello comunitario che mi permette di tutelarmi da chi voglia prendere “ispirazione” dal mio lavoro. Come tutte le mie modifiche, inoltre, è reversibile senza lasciare traccia alcuna perché la macchina non deve subire nessun taglio o foro aggiuntivo. La sfida è stata realizzarla in modo che si potesse ritornare in qualsiasi momento alla configurazione originale senza lasciare nessuna “ferita”, e in questo l’approccio al collezionismo delle auto d’epoca è stato fondamentale. In Italia non conosco nessuno che faccia un lavoro esclusivo sui Technics a livello professionale, in Europa c’è qualcuno ma abbiamo approcci molto diversi. La mia filosofia è fornire macchine perfette tecnicamente senza scadere nell’addobbo in stile alberi di Natale. Come diceva Enzo Ferrari poi, un lavoro fatto bene è anche bello da vedere, per questo ho scelto di curare in modo inusuale il packaging dei miei accessori. Le prese vengono fornite in un kit di montaggio che comprende tutto quello che serve per avere una installazione con risultati professionali».
L’iconicità del Technics è fuori discussione, però la sospensione della produzione, nel 2010, fu un vero colpo al cuore per migliaia di DJ sparsi per il pianeta. «Dal 1984 in poi, quando la richiesta era cresciuta tantissimo, la Panasonic convertì un’intera fabbrica che si occupava di giradischi alla sola produzione del 1200 declinato nelle varie versioni. Oltre a rivedere alcuni sistemi di costruzione, anche le maestranze impiegate crebbero molto. Fino al 2000 le 100.000 unità che la fabbrica sfornava annualmente erano sempre state piazzate, anzi a volte bisognava attendere qualche settimana per poter avere i bramati gioielli. Dal 2000 al 2010 invece, col digitale che avanzava a passi da gigante, le cose cominciarono ad andare male: una fabbrica strutturata per produrre 100.000 unità che nel 2010 ne vende solo 5000 è destinata a chiudere per i costi fissi che inevitabilmente ne divorano gli utili. Così, dopo trentuno anni, è uscita di scena una macchina iconica rimasta impressa nella mente di molti come IL giradischi, per quella fantastica ed irripetibile armonia di prestazioni, affidabilità e mano estremamente felice nel design che lo ha reso un evergreen, caso piuttosto raro nel design industriale per oggetti così complessi. Se oggi chiedessi ad un profano che non ha mai visto un Technics 1200 di datarne il disegno non saprebbe cosa rispondere! Il crollo delle vendite del 1200 per me coincide col periodo più buio per il vinile. Ci sono una moltitudine di fattori che ne sono la concausa, tra questi oltre alla indubbia comodità spicciola del trasporto dei supporti, anche il diverso approccio alla fruizione della musica e quindi dei luoghi in cui viene ascoltata. Negli anni Ottanta se volevi ascoltare una selezione di un DJ o andavi alla serata oppure se potevi compravi la cassetta. È emblematico il caso di DJ Harvey che non registra e non vuole che si registrino i suoi set. La scorsa estate ad Ibiza gli chiesi il motivo e mi rispose che non avrei potuto capire la sua arte se avessi ascoltato quel mixato in un altro posto, dove non c’era lo stesso pubblico, le stesse luci e la stessa energia. Il glorioso ritorno del vinile non è altro che la conseguenza dell’estrema digitalizzazione della musica. L’evanescenza del file digitale ha generato la nostalgia del supporto fisico. La musica, come ogni forma di arte che diventa prodotto, conserva una componente feticista, l’umanità sta semplicemente riscoprendo il piacere del “rito” di ascoltare un bell’album nella sua forma più iconica, il disco. Col vinile è tornato pure il Technics ma non ho ancora avuto modo di smontarne (e provarne) uno. Chi si aspetta una macchina dal prezzo popolare però resterà deluso, non ci sono le condizioni di mercato per proporre un 1200 “classico” al prezzo a cui veniva venduto nel 2010. Basti immaginare una macchina riprogettata (anche se il motore mi sembra tanto simile a quello dell’SP-10) e che va a chiudere una offerta di gamma dove il sistema top ha gli altoparlanti da diecimila euro ciascuno. La Panasonic è un’azienda e non una ONLUS, non dimentichiamolo. Il 1200 è figlio di un’era ed una filosofia oramai impossibili da replicare. Il reparto ricerca e sviluppo partì da un foglio bianco e per arrivare a quelle performance progettò un sistema di controllo della rotazione inedito. Ideò internamente i chip che servivano allo scopo che infatti sono marchiati Technics. Nessun costruttore europeo poteva permettersi una cosa simile, e Technics “spalmò” questi costi su una serie molto ampia di modelli che condividevano la scheda madre col 1200, permettendo grosse economie di scala ed una macchina che rispetto ad alcuni concorrenti inglesi era un’astronave ad un prezzo decisamente basso. Poi il gruppo Matsushita, oltre a Panasonic, comprendeva tra le altre National, NEC, Technics, Audio Technica, un vero colosso mondiale insomma. Oltre al sistema di controllo della rotazione, l’idea geniale fu calettare il magnete direttamente sul platter, che in questo caso diventava esso stesso il rotore, relegando il perno centrale a mero elemento di centraggio meccanico. Tutti i giradischi costruiti prima di allora avevano il motore che agiva sul perno, e questo trascinava il platter. Una volta scaduti i brevetti la macchina è stata imitata da concorrenti del Far East con risultati altalenanti ma in nessun caso comparabili, specie per quanto riguarda l’insensibilità alle vibrazioni e la precisione dei bracci. Le tolleranze di montaggio Technics sono semplicemente un altro universo parallelo, anche oggi.
Principalmente lavoro con gli appassionati, il ciclo di vita lavorativa di queste macchine è ormai concluso ed ora li desidera chi li aveva avuti e li ha dati via nel tempo, o chi all’epoca, magari studente squattrinato, non poteva permetterseli. Il tempo è gentiluomo con tutti. Ad Ibiza invece, per le caratteristiche proprie dell’isola riguardo l’industria del divertimento notturno, il 95% dei miei clienti è una discoteca o un DJ professionista. Ci sono anche quelli famosi ma assicuro che vengono trattati tutti allo stesso modo, dal top DJ internazionale al ragazzo che mixa in cameretta. Ho fatto dell’eccellenza il mio biglietto da visita, e l’eccellenza può esserci solo se c’è per tutti. Negli ultimi anni il trend degli affari è stato sempre positivo, la presenza di un laboratorio ed uno showroom fisico, oltre al fatto che ci metto sempre e comunque la faccia, hanno aiutato ad instaurare un rapporto di fiducia coi clienti che sono la migliore pubblicità per l’azienda. In futuro credo ci sarà una dicotomia ancora più accentuata: da un lato lo zoccolo duro degli utilizzatori del vinile, con il loro bagaglio di esperienza e dischi, dall’altro gli utilizzatori più strenui delle ultime e pratiche tecnologie digitali, che in una chiavetta USB hanno tutto per affrontare qualsiasi tipo di serata. Adesso però si vedono DJ sia famosi che meno ritornare al vinile, per dare quel quid che ad una performance incentrata sul guardare uno schermo sicuramente manca. Quando ad un certo punto tutti in una sala saranno DJ questo farà la differenza. Saranno tutti e quindi più nessuno, tranne l’uomo coi dischi neri».
Anni Dieci: si delinea un nuovo scenario
Nel 2010 IFPI (Federazione internazionale dell’Industria Fonografica) diffonde un dettagliato report che evidenzia la significativa ascesa del download (legale) e l’aumento dei servizi di streaming in riferimento ad aziende-chiave come Spotify e Deezer. Sembra che il mondo del pop abbia trovato il modo per recuperare il terreno perso circa dieci anni prima a causa della pirateria. Ma non è tutto oro quel che luccica, e in quello stesso report il finlandese Teemu Brunila, prima leader della band pop/rock The Clash e poi della virtual band Studio Killers, mostra più di qualche perplessità sul mondo in cui il copyright va estinguendosi, perché ciò potrebbe segnare la morte definitiva delle attività creative a livello professionale. Ed aggiunge lapidario: «viviamo in un mondo in cui 1 euro è considerato esagerato per il download di un brano musicale ma un paio di euro sono un prezzo ragionevole per un caffè da Starbucks». Molto simile il recente commento di Roger Daltrey degli Who, che in questo articolo dichiara che «internet ha distrutto l’industria discografica e non offre alcun incentivo ai musicisti di continuare a fare quel mestiere, perché vengono derubati ogni giorno». In assenza di giuste retribuzioni viene da pensare che, andando avanti di questo passo, a produrre musica potrebbero rimanere solo gli hobbisti.
All’ambiente del pop comunque il disco sembra non interessare più come supporto, nel citato documento della IFPI il termine “vinile” non compare neanche una volta, contro le ben sessanta della parola “download”. Ad ottobre 2010 inoltre, la decisione della Panasonic di sospendere la produzione degli storici giradischi Technics SL diventa il requiem di un formato che per il pubblico generalista è già morto e sepolto. In certi ambienti però il disco continua ad alimentare interesse a dispetto della trascurabile incidenza commerciale e dello scarso richiamo che esercita per i giovani sempre più intenti ad armeggiare con dispositivi digitali. In breve l’edizione limitata diventa lo standard per quelle etichette che, nonostante le tante difficoltà e un futuro fortemente incerto, continuano ad investire tempo, denaro e passione nel disco. Ben pochi i temerari che oltrepassano la soglia delle 500 copie ma è proprio questo clima di “restrizione” ad istigare una maggior cura del prodotto, con confezioni e copertine speciali che ingolosiscono ulteriormente il cliente motivandolo all’acquisto. A rendere possibile tutto ciò sono anche i pressing plant ossia le fabbriche dove si produce materialmente il vinile, obbligate a riformulare le proprie condizioni in base alle nuove necessità dei clienti. La quantità minima di copie da stampare viene quindi ridimensionata per tenere vivo il segmento di mercato.
Pressing plant, circa quaranta nel mondo, uno solo in Italia
Secondo questa mappa le fabbriche di vinile rimaste operative a livello mondiale sono circa quaranta. In Europa si contano diversi pressing plant sparsi tra Germania, Paesi Bassi, Francia, Belgio, Regno Unito e Repubblica Ceca, mentre in Italia ne è rimasto solo uno. Trattasi della Phono Press con base a Settala, in provincia di Milano, attiva dal 1985. A luglio 2010 la proprietà passa nelle mani di Filippo De Fassi Negrelli, ex direttore bancario che decide di cambiare vita e dedicarsi ad una sua vecchia passione, il vinile. Lo abbiamo incontrato per comprendere più a fondo le dinamiche del settore. «La chiusura della maggior parte delle fabbriche di dischi in vinile in Italia avviene negli anni del boom del formato digitale. Erano aziende piuttosto grandi, spesso con molti dipendenti, e il forte calo della domanda dei dischi, rimpiazzati dai CD, ha costretto queste fabbriche a chiudere completamente o ad interrompere l’attività del reparto di produzione dei dischi in vinile. Dal 2010 registriamo in media, ogni anno, un aumento di circa il 25% della richiesta, ma negli ultimi due anni c’è stato un vero e proprio boom. Oggi stampiamo il 120% in più rispetto al 2010 e più di così non riusciamo a produrre, per cui è sorto il problema di smaltire la coda di ordini in attesa che è di circa sei settimane. Il grosso della produzione in vinile, come anticipato prima, si perse anni fa con l’avvento del CD, anche se rimanevano le tirature interessanti dei mix da discoteca, soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta e sino al 2005 circa. Gli anni più bui sono stati quindi quelli dal 2005 al 2010, quando anche il fenomeno dei dischi mix era quasi scomparso. Oggi la tiratura media di un’etichetta indipendente è di 300 copie. Negli anni Ottanta l’ordine minimo era di circa 5000 copie ma talvolta i dischi vendevano molto di più e la produzione veniva persino divisa tra fabbriche diverse. Chiaramente c’era molta più capacità produttiva rispetto ad oggi. Ora la quantità minima di stampa da noi è di 250 copie, un compromesso tra le quantità mediamente richieste e le nostre esigenze produttive. I dischi delle etichette indipendenti vanno spesso in ristampa, ciò significa che si vendono. Le ristampe dei dischi vecchi o delle colonne sonore sono ugualmente molto richieste, ma il problema è un altro: visti i tempi di attesa parecchio lunghi per ricevere il prodotto finito, il rischio è che si perda progressivamente interesse nello stampare il disco in vinile ritornando a preferire il CD, più economico e veloce da avere. Fino ad ora comunque a vincere è ancora il fascino del disco e le etichette cercano di pianificare le uscite organizzandosi molto prima, ma è anche vero che le label devono poter lavorare con uscite abbastanza regolari e discretamente veloci, e il formato vinile, oggi, non aiuta certamente».
Il ritrovato interesse che le major stanno riservando al vinile pare sia creando non pochi problemi alle etichette indipendenti che, visti i numeri ridotti delle proprie tirature, si ritrovano a dover attendere mesi per ottenere i propri prodotti. Ma De Fassi Negrelli chiarisce che «le major non hanno una corsia preferenziale rispetto alle indipendenti. Ovviamente c’è il riguardo per il grande artista ma tanti dischi “famosi” escono comunque in ritardo». Cosa accadrà nei prossimi anni? «Tutto dipenderà dall’incrocio tra domanda ed offerta. Attualmente l’offerta è poca ma la domanda è tanta, per cui, a meno di non vedere l’ingresso di nuovi player sul mercato per quanto riguarda la produzione, mi aspetto un moderato calo della domanda tra qualche anno. L’espansione e il consolidamento comunque dureranno ancora» conclude De Fassi Negrelli.
È Londra il quartier generale di Curved, pressing plant che inizia ad operare negli ultimi mesi del 2000 specializzandosi nella produzione di vinile in tirature limitate e cercando di accontentare il più possibile il cliente offrendo molteplici opzioni sul formato e packaging. Ne parliamo con uno dei proprietari, Shane Whittaker: «Sin dall’inizio lavoriamo, per scelta, solo con piccole etichette indipendenti. Negli ultimi cinque anni l’incremento di richiesta è stato fortissimo, credo intorno al 400% dopo il punto più basso toccato alla fine degli anni Zero ma già in atto dal 2005 circa, quando fare questo tipo di mestiere per noi era diventato solo un hobby. Tutte le major adesso si stanno ributtando nel mondo del vinile, ristampando classici del passato e i nuovi album, ma ciò mette in seria difficoltà quelle piccole etichette che con la loro tenacia hanno tenuto in vita le stamperie durante gli anni peggiori, perché impongono tempi di attesa non sostenibili. Già nei primi anni Duemila molti pressing plant hanno dovuto modificare le quantità minime di stampa richieste. Non c’era altro da fare. Negli anni Novanta invece la tiratura media, solo dei white label, era di 1000 copie. Esistevano ancora tanti negozi ed anche i dilettanti erano costretti a comprare dischi, seppur facessero i DJ solo nel tempo libero. Al momento la tiratura media si è assestata tra le 200 e le 400 copie. Ne stampa 500 chi è certo di avere tra le mani una hit o chi ha la possibilità di venderle nei tour direttamente ai propri fan. Non so cosa avverrà nei prossimi anni, però quando qualcosa diventa una moda, inevitabilmente giunge il momento in cui non lo è più».
Attiva sin dal 1951 è la GZ Vinyl, localizzata a Loděnice, nella Repubblica Ceca ma con filiali in Francia, Regno Unito e Stati Uniti. I numeri che emergono dal suo profilo, oltre ai 1432 dipendenti, sono i 14 milioni di vinili stampati nel 2014 e il record delle 53.000 copie di dischi “sfornati” in un solo giorno, il 30 aprile 2015. Abbiamo raggiunto Michal Němec, direttore vendite e marketing: «L’ultimo quinquennio ha visto un sensibile aumento della richiesta. Facendo un rapido confronto: nel 2014 abbiamo prodotto circa 14 milioni di dischi, nel 2015 quasi 18 milioni e per quest’anno contiamo di raggiungere i circa 24 milioni di pezzi. Non abbiamo mai registrato un crollo vertiginoso nella domanda, la produzione non si è mai fermata, tuttavia tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila la richiesta era molto bassa. Attualmente stampiamo dalle 500 alle 1500 copie per titolo ma per artisti particolarmente noti si può raggiungere anche la soglia delle 100.000 copie. La quantità minima comunque è fissata ai 500 pezzi. Credo che stiamo assistendo ad un vero e proprio fenomeno di rinascita perché a stampare dischi non sono solamente piccoli gruppi di attempati amatori dell’analogico ma anche giovani che sentono di non appartenere al mainstream digitale e cercano di differenziarsi dalla massa. Di conseguenza il vinile sta diventando trendy e riesce ad abbracciare una moltitudine di genere musicali».
Dopo l’euforia iniziale, dalla “beatportizzazione” solo qualcuno ne esce vincitore. Tanti si accorgono di non aver né monetizzato quanto avevano pronosticato le più rosee previsioni pochi anni prima, né tantomeno di aver raccolto l’ambita popolarità su scala internazionale. Poter avviare una propria etichetta e pubblicare la propria musica non significa trasformarsi automaticamente in artista o interfacciarsi ad un pubblico disposto a spendere del denaro per i propri prodotti. Lo spamming compulsivo nato ai tempi di MySpace, in cui si embeddano link a pioggia sui profili di chiunque, non sortisce risultati anzi, finisce con l’indispettire. I sogni di chi si era illuso di diventare ricco e famoso mettendo in circolazione qualche centinaio o migliaio di file vanno definitivamente in frantumi. Si inizia a pagare lo scotto per la mancanza di effettivi contenuti sostituiti da vacue operazioni parodistiche generate dalla radicale semplificazione dei criteri artistici e dall’apparente facilità, tipica di internet, di raggiungere obiettivi. A questo punto più di qualcuno desidera uscire dal vortice della digitalizzazione e tenta di reinventarsi, talvolta in modo tanto radicale da inventare nuovi pseudonimi per “cancellare” del tutto le esperienze trascorse (vedi approfondimento nell’articolo su Discogs). Il mezzo per “riscattarsi” da un passato ingombrante diventa il vinile, oggi eletto da molti come simbolo di passione, dedizione ed autenticità. Secondo un diffuso luogo comune, il disco viene anche usato come presunto metro di valutazione. Complice l’esagerata artificialità dei protagonisti della scena EDM, tra 2010 e 2011 nasce una vera e propria battaglia ideologica che vede contrapposte le fazioni del vinile e del digitale. L’aspro scontro è ancora in atto, soprattutto sui social network.
Dopo il declino avvenuto negli anni Zero, si riorganizza il settore distributivo, e ai sopravvissuti (come la belga N.E.W.S. , le tedesche Word And Sound, Vinyl-Distribution, DBH Music, Diamonds And Pearls, Straight Distribution e Kompakt, le francesi Synchrophone e Topplers, le olandesi Clone, Triple Vision e Rush Hour e le inglesi Rubadub, Veto e Prime Direct Distribution) si aggiungono nuove realtà pensate per la nuova dimensione in cui si inserisce il vinile. Da Cometomusic ad I Play Vinyl, da Above Board Distribution a Subwax Bcn e Diana Charité. In Italia (r)esistono Family Affair, Audioglobe, Self, Goodfellas, Electronix Network e Re.Birth Distribution.
In questo quadro di rinnovato interesse, tra 2012 e 2013 si fanno avanti le major, intente a ristampare i classici tratti da immensi cataloghi col fine di conquistare una fetta del mercato che nel frattempo pare diventato abbastanza consistente. A salire sul treno in corsa sono anche le GDO, che nel reparto CD e DVD piazzano in bella mostra gli LP delle star pop e rock promuovendoli con cartelli recanti messaggi tipo “gli appassionati della musica scelgono il vinile”. All’orizzonte, insomma, si intravede un buon affare commerciale e si moltiplicano gli album pop solcati su vinile. Tra i più recenti, “Simili” di Laura Pausini (doppio), “Lorenzo 2015 Cc.” di Jovanotti (triplo) e “Tzn: The Best Of Tiziano Ferro” di Tiziano Ferro (quadruplo) a prezzi non proprio proletari.
La parola ai negozianti
Quanta verità c’è sul ritorno del vinile nel mondo dei DJ e della musica elettronica? È vero che il digitale continua a perdere colpi e il CD è sulla via dell’oblio? Per saperlo c’è solo una cosa da fare, interpellare chi i dischi li vende per mestiere.
In Europa sono diversi i web shop specializzati per DJ, e tra i primi ad essere approdati online c’è l’inglese Juno, che oltre a trattare musica dance si occupa anche di strumentazioni e studi di registrazione. Ne parliamo con uno dei fondatori, Richard Atherton: «Il sito web di Juno Records viene creato nel 1996 come piattaforma su cui elencare semplicemente i titoli in uscita. Si chiamava The Dance Music Resource Pages e tornava utile per essere aggiornati quotidianamente sulle novità. Nel 1997 si trasforma in un negozio che consente agli utenti di acquistare i dischi e i CD inclusi in quelle liste. Attualmente nell’ufficio e magazzino londinese lavorano circa ottanta persone, ed ogni anno vendiamo oltre un milione di dischi. Quando Juno mise piede sul web, gran parte della dance veniva pubblicata esclusivamente su vinile mentre il resto della musica finiva su CD. Con l’ascesa della musica digitale avvenuta nell’ultimo decennio, la dance commerciale è finita con l’essere disponibile in prevalenza in download lasciando il settore del vinile ad un gruppo più piccolo e specializzato in generi come techno, deep house, disco o minimal. Adesso anche il mercato mainstream del rock, del jazz e del pop sta riabbracciando il vinile, rendendo il mercato più grande di quanto non lo fosse tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. La dance però occupa una parte relativamente piccola di questo comparto. Possiamo comunque parlare di una “rinascita” e noi di Juno lo abbiamo constatato dalle nostre vendite. Abbiamo registrato un incremento di richiesta per quei prodotti disponibili esclusivamente in vinile e destinati perlopiù a collezionisti ed amatori. Nel contempo le ristampe hanno fatto riavvicinare vecchi utenti creando un nuovo tipo di cliente, a metà strada tra il normale acquirente e il collezionista. Il forte calo di vendite coincide col periodo che va dal 2004 al 2007, quando il mercato digitale iniziò a farsi strada. Il fondo fu toccato nel 2008. Poi per fortuna ogni anno il trend ha conosciuto un progressivo rialzo. Nel 2015 abbiamo registrato un incremento nelle vendite del 15% per il secondo anno consecutivo. Vendiamo dischi in tutto il mondo quindi abbiamo una gamma parecchio differenziata di clienti ma essendo inglesi la maggior parte degli ordini proviene dal Regno Unito. Ci sono comunque utenti americani, francesi, russi, tedeschi, italiani, australiani, giapponesi e canadesi. Riprendendo quanto detto dal DJ francese Brawther, spendere del denaro per un disco prova l’amore nutrito per l’artista, e nello stesso tempo il disco attesta di contribuire con qualcosa di reale nel mondo. Credo che le etichette indipendenti possano ancora creare un buon business con le limited edition, gli hand stamped, le uscite numerate o quelle con copertine speciali. Quando una pubblicazione vende molto in breve tempo può creare il giusto hype che facilita quella seguente, e in questo modo si possono mettere sotto contratto artisti dalla popolarità maggiore e creare showcase nei locali, tutto a vantaggio del proprio profilo. Tra i più recenti bestseller ci sono “The Best” di Omar S., “Gone Today Here Tomorrow” di Byron The Aquarius, la ristampa di “Alone” di Don Carlos, “Funky President Edits Vol. 3” di J Rocc, “The World Peace EP Reissued” di Brian Harden, “Everybody Wants To…” di Africaine 808 Ft Blind DD, “Italojohnson 10” di ItaloJohnson, “1991 – 2016 Secret Doctrine” di The True Underground Sound Of Rome e “Magic Staircase” di Minimal Vision, giusto per citarne alcuni. Credo che il mercato dell’elettronica si espanderà ancora e il vinile potrebbe diventare il formato scelto da una nuova generazione di teenager, anche se rischia di rivelarsi solo un elemento ciclico legato a mode del momento. Comunque sinora la crescita delle vendite è costante. In Inghilterra, Germania ed altri Paesi europei il ritrovato e crescente interesse per il disco sta portando anche l’apertura di nuovi negozi fisici, ed è una tendenza che notiamo settimanalmente attraverso la nostra attività di distribuzione».
Restiamo a Londra spostandoci al 51 di Poland Street per incontrare il team di Phonica: «Abbiamo aperto nel 2003, siamo relativamente giovani. Per noi il punto più basso delle vendite risale alle annate 2008-2009, per il resto non stiamo registrando un grande incremento di affari. La quantità limitata di pezzi che immettono le etichette in commercio però fa pensare più ad un hobby che un vero business. Speriamo comunque che le vendite seguano una tendenza crescente, al momento possiamo ritenerci soddisfatti».
Inglese anche Bleep, online dal 2004 e nato inizialmente come store per le pubblicazioni digitali della Warp Records. Col tempo abbraccia i cataloghi di molte altre etichette trasformandosi in negozio per pubblicazioni “fisiche” nel 2008, dopo la fusione con Warpmart. Dicono di non essere in grado di stilare delle stime e si limitano allo «speriamo che le vendite del vinile continuino ad incrementare».
Dall’Inghilterra ci spostiamo in Olanda, a Delft, sulla rotta della Bordello A Parigi, nata come etichetta discografica e da qualche tempo diventata distributore e web store. Incontriamo il proprietario, Otto Kraanen: «Ho iniziato nel 2011 con la label, dal 2014 ho cominciato a trattare merce di altre etichette. Opero dal mio ufficio a Delft, in cui curo sia l’etichetta che la distribuzione Diana Charité. Attualmente distribuisco 50 label e pubblico mediamente 15 dischi all’anno attraverso Bordello A Parigi, stampando dalle 300 alle 500 copie per volta. Creai Bordello A Parigi nella fase iniziale della rinascita del culto per il disco. Le vendite sono cresciute di anno in anno, ed anche l’interesse nella nicchia dell’italo disco è sensibilmente aumentata. Da quando ho varato la distribuzione sono riuscito ad entrare in contatto con nuovi negozi. Certo, opero in una nicchia di mercato quindi i numeri non sono certamente quelli di una major, ma l’interesse e l’attenzione nei confronti della musica e della label crescono grazie ad una minuziosa cura per i dettagli, per i party e per la continua interazione attraverso i social media. Noto pure un costante apporto di nuova musica e nuovi talenti che spingono avanti il successo dell’etichetta e della scena più in generale. Quella a cui assistiamo oggi è una “rivincita” del vinile sostenuta sia dai DJ che continuano a preferirlo come formato e che non hanno mai perso l’interesse per esso, sia dall’operazione revivalistica messa in piedi dal mercato di consumo del pubblico generalista. C’è gente che compra un piatto ed inizia ad ascoltare dischi tra le mura domestiche per puro piacere. Il Record Store Day sta facendo la sua parte ma credo che abbia già toccato l’apice e quindi sarà un fenomeno che scemerà nel prossimo futuro, come avviene in tutte le mode del resto. Sono da appena cinque anni nel business quindi non posso fare grandi paragoni, ma dal 2011 ad oggi le vendite sono aumentate e questo dato è rincuorante. Da noi acquistano principalmente clienti tedeschi ed inglesi, credo che il 75% delle spedizioni sia diretto verso questi due Paesi. Non ho mai stimato quanti dischi vendo annualmente, credo intorno ai 10.000. Come dicevo prima, per Bordello A Parigi stampo una quantità contenuta di copie per uscita. Apparentemente i 300 esemplari di media potrebbero sembrare pochi ma credo non siano più tirature limitate, è semplicemente la quantità adatta alla domanda. Non vale la pena correre il rischio di puntare a quantità maggiori, sono poche le occasioni in cui è preferibile alzare la soglia ad oltre 500 copie. La limited edition è diventata ordinaria, la gente non può permettersi di spendere molto denaro per ogni versione limitata che arriva sul mercato. Uno dei best seller più recenti è la ristampa di “Melody / Stop Fantasy” di Plustwo sulla Mothball Record. Le cose ora sembrano andare bene ma non credo che il comparto del vinile sia destinato a crescere ulteriormente. A causa della capacità limitata dei pressing plant, non c’è margine per far ingrossare di molto i numeri. Probabilmente le vendite aumenteranno ancora di poco, o almeno è quello che mi auguro accada. Sull’onda del rinnovato amore per il vinile, aprono anche nuovi negozi fisici di dischi, talvolta un po’ differenti rispetto a quelli del passato perché trattano non esclusivamente merce musicale. Ho notato che anche gli ipermercati hanno iniziato a rimettere in vendita vinili ma sarà dura ritornare allo stato di un tempo, in cui ogni città aveva più di un negozio di dischi. La ragione è semplice: i costi di gestione. Un negozio web è di gran lunga più economico e può vendere a prezzi assai competitivi rispetto ai negozi fisici. Inoltre oggi la gente si è abituata ad acquistare qualsiasi cosa su internet, dai mobili ai vestiti ed alle scarpe, perché è comodo e veloce. L’idea romantica di andare nei negozi e cercare i dischi giusti in mezzo a mille titoli ormai appartiene al passato. Tuttavia penso che quelle azioni abbiano ancora qualcosa di magico, ed è il motivo per cui quei pochi negozi che effettuano una rigorosa selezione del materiale riescono a sopravvivere. A me piace andare a Rotterdam, da Clone, anche per bere un caffè o una birra e scambiare due chiacchiere col negoziante che magari può suggerirmi qualche disco. Un po’ come se fosse una riunione tra amanti della musica che condividono i propri consigli e che possono farti notare quanto sia intrigante quel titolo che ti sarebbe sfuggito nell’ascolto online di appena un minuto in streaming».
E in Italia invece? Da noi di negozi di dischi ne esistono ancora. Numericamente assai ridotti rispetto a quelli di un tempo, alcuni sono sopravvissuti, altri invece sono nati recentemente proprio in seno alla “vinyl revenge”, come Mixed-Up, creato a Rimini da Danilo Betti che racconta: «Mixed-Up nasce d’istinto nella primavera 2014 come blog e mailorder, mutando altrettanto velocemente in negozio e label nel giro di pochi mesi. Ammetto che ora siamo nel bel mezzo di un’ulteriore “evoluzione” in quanto in procinto di lanciare una nuova piattaforma online e spostarci col negozio, anche se la data e il dove sono ancora da definire. La mia adolescenza è stata scandita da Warp, Cabaret Voltaire e Trax Records, dunque un mix Sheffield-Chicago che nella mia testa suona ancora sensato e parte fondamentale dell’imprinting del progetto. Credo nell’imprenditorialità in ogni ambito che lo richieda, e l’avere un’azienda sulle spalle ti impone di vivere la cosa con un livello di professionalità altissimo, anche se ti rivolgi ad un mercato di nicchia. Come già detto, Mixed-Up nasce da un’idea molto personale che comprende una altrettanto giovane label e con la selezione di titoli in vendita volutamente ristretta, in totale contrapposizione al classico record store degli anni Novanta, più vicina al nostro personale background insomma. Scendendo nel dettaglio, siamo estimatori di cattedrali come Hard Wax, Honest Jon’s e Rush Hour, sia per condotta che per orientamento musicale. Poi, in ambito pop, credo che per tenere vivo l’interesse di alcuni artisti le major debbano sempre avere qualche prodotto commerciale pronto alla vendita. Ieri toccava al file MP3, oggi al vinile. Domani vedremo. L’andamento degli affari in negozio è totalmente incostante: ci sono settimane in cui ti paghi l’affitto in due giorni ed altre in cui non entra una sola persona se non gli immancabili amici corrieri che smazzano gli ordini online: tra Discogs e sito c’è un’ottima regolarità e molti clienti europei provengono anche da fortini come Londra e Berlino. L’online comunque surclassa il negozio fisico, non raccontiamoci frottole. Per quel che riguarda la clientela di Mixed-Up, siamo stati da subito piuttosto estremi nel voler selezionare solo determinate label più o meno underground e naturalmente ci siamo tenuti solo quella fetta di gente che ha capito l’etica del progetto. Sull’età media dei clienti, abbiamo ragazzi ancora senza patente che vogliono le repress di Larry Heard e ragazzi over 30 che sguazzano meglio nel contemporaneo più sperimentale. In comune hanno soprattutto la sfrontatezza di fidarsi dei titoli che gli vengono raccomandati, tornando poi a bussare alla nostra porta. Oggi molti si affacciano al mondo discografico (anche underground) pensando di poterci ricavare qualcosa in termini economici. Questo può ancora succedere ma richiede tempo e coerenza, oltre a budget ed ottime pubbliche relazioni. Infatti ci sono label che stampano più di 500 copie e vendono molto bene. Certo, la linea tra hobby e lavoro è quella su cui orbita la maggior parte della gente, noi compresi. Rimini è storicamente terra di dancefloor e la paradossale caduta di stile (se non addirittura la chiusura definitiva) di tanti dei suoi luoghi sacri ha risvegliato in molti la ricerca di quello che ha reso potente la nightlife anni Novanta: sto parlando della house e delle sue declinazioni più deep e baleariche. Chi si è mosso con classe in questo territorio ha avuto il mio supporto e i soldi dei clienti, senza nessuna fregatura. Tra i bestseller dell’ultimo anno posso citare Soichi Terada e il nostro Deep88. Come vendere di più? Fino ad un anno avrei fatto riferimento ad un feature su un magazine come Resident Advisor o una buona distribuzione (o entrambi) per raggiungere lo scopo. Ora invece abbiamo un mercato caotico, con troppi artisti e label a spartirsi una coperta molto corta, e un’attenzione da parte degli utenti sempre più incostante. Siamo nel 2016 ed io per primo sono un assiduo frequentatore del web e credo di aver lasciato più soldi agli store online che ai negozi fisici nell’ultimo quinquennio. Questo si riflette anche sulla nostra decisione di focalizzarci per il futuro prossimo sull’online, cosa che dovrebbe essere vista da tutti come un canale in più per il proprio lavoro e non una disgrazia. Oggi manca il tempo da dedicare al digging e così finiamo per scegliere un costante monitoraggio di alcune piattaforme. Sono assolutamente contento del lavoro fatto in negozio e siamo in prima linea per valutare una nuova location appena se ne presenterà l’occasione. Distribuzione e stamperie sono sicuramente i nostri punti a sfavore che ci costringono a spendere sempre un po’ di più per realizzare e lavorare sulla logistica di un disco dalle quantità irrisorie. Tengo però a sottolineare l’estrema professionalità che ho sperimentato con le distribuzioni e pressing plant estere. Ogni disco presente sugli scaffali di Mixed-Up arriva dritto dalle label o dalle distribuzioni (e in qualche caso anche dalle stesse pressing plant), tagliando di fatto ogni tipo di intermediario (soprattutto quelli casalinghi), tra pagamenti a trenta giorni, capacità di dialogo e feedback settimanali. Sono un sostenitore della distribuzione diretta a discapito degli intermediari e credo non ci sia nemmeno da discutere sul fatto che oggi sia un requisito fondamentale se si vuole avere un minimo di controllo del proprio business».
Un negozio di dischi di recentissima apertura è anche Vinyl Zone Shop, inaugurato a Taranto ad aprile 2015. A parlarcene è il titolare, Paolo Cottino alias DJ Pa.Co: «Il negozio è nato in seguito al progetto Vinyl Zone, partito nel 2012 come laboratorio musicale esclusivamente con dischi in vinile, nato con l’intento di mantenere vivo il valore del supporto musicale per eccellenza e di organizzare party itineranti che ruotano intorno al mondo del vinile. Ho deciso di aprire il negozio proprio perché a Taranto non ci sono più shop dedicati principalmente al vinile ma la comunità locale dei DJ, soprattutto i più giovani, mostrava l’esigenza di avere un negozio di riferimento per i propri acquisti musicali, come del resto un punto di ritrovo culturale. Abbiamo rischiato, tenendo conto della crisi generale dei negozi di dischi nata con l’era del digitale. Il ritorno del vinile, sia come supporto musicale di qualità, sia nelle discoteche, è ormai una realtà e non solo un fenomeno commerciale. Inoltre gli studi sul nuovo vinile HD permetteranno di portare l’altissima qualità audio su vinile oltre alla possibilità di inserire molta più musica su esso. Attualmente abbiamo superato la soglia dei 150 dischi venduti al mese, ma in occasione delle mostre che attirano molti appassionati ne riusciamo a smerciare anche 200 in appena 2 giorni. Con nostra grande sorpresa, a comprare dischi sono clienti di tutte le fasce d’età, anche giovanissimi. Certo, il negozio online è una necessità obbligata anche per farsi conoscere da un pubblico più vasto, ma al momento vendiamo più musica in negozio che online. I numeri ridotti delle vendite spesso fanno passare più per hobby quello che un tempo era un lavoro, ma tenendo conto degli introiti ridicoli provenienti dal digitale, vendere 500 copie fisiche di vinile equivale al guadagno che si otterrebbe con 2000/3000 download. Ho amici produttori che nell’ultimo anno hanno guadagnato di più col vinile che con gli store digitali. Sul fronte rock/pop, tra i più venduti Doors, Led Zeppelin, AC/DC, Pink Floyd e David Bowie mentre per quanto riguarda la musica per DJ, due titoli su tutti: “Sabato In Pineta” di Floskà e Cosimo Colella su Sound Department, etichetta nata in seno al club tarantino che ormai propone da anni vera cultura musicale underground, e “The Last Dungeon” di Lucretio. I fattori che influiscono sulla vendita credo siano la comunicazione e il video, ormai obbligatorio per chi ambisce a fette di mercato più ampie. Almeno per ora il futuro lo vedo roseo, con un crescente ritorno del vinile e l’avvento del vinile HD. I negozi fisici sono rimasti l’unico punto di incontro per chi ama la musica, che oltre ad ascoltarla vuole vederla e toccarla. Lo svantaggio per chi vive in Italia è quello di poter contare solo su un pressing plant ormai oberato di lavoro (ho sentito dire di attese lunghe sino ad 8 mesi per poter stampare un vinile!) e quindi il nostro mercato indipendente, che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura, si vede costretto a stampare all’estero ed anche ad affidarsi a distributori d’oltralpe che garantiscono la sopravvivenza».
Tra le realtà italiane con più storia alle spalle invece troviamo Indie, localizzato a Treviso e tra i primi nel nostro Paese ad aver sondato l’e-commerce in tempi assolutamente non sospetti, nel 1995. Incontriamo il proprietario, Nello Simioni: «Ho cominciato a vendere dischi ai banchetti dei concerti, credo nel 1985. Poi, tramite la Materiali Sonori, iniziai ad importare pubblicazioni dall’estero e a venderle a qualche negozio della zona, ma rendeva poco. Appena giunse l’occasione ho aperto Indie a Mestre, nel 1992. Tre anni più tardi varammo il sito per la vendita online, una scommessa (persa) in tempi in cui l’intuizione “indie” era predominante nel mercato discografico ma deleteria nel momento in cui ci si confrontava col mercato reale, fatto di investimenti veri e non solo di idee. Il mio sito, primo nel suo genere, è stato recensito sulle riviste di riferimento tra marchi come Swatch e Benetton, insomma miliardi contro pochi spiccioli. L’idea era creare un melting pot in cui si potessero trovare tutte le esperienze “indie”. All’epoca offrivo gratis lo spazio alle realtà musicali per promuovere le proprie esperienze e condividerle in un unico spazio indipendente. Il sito partì con circa 400 pagine in html, con la mia lista di dischi in vendita, un paio di fanzine come Arlequins, strepitosa rivista di progressive in italiano ed inglese, e i primi tre numeri della neonata Blow Up ancora fotocopiata. Poi c’erano un paio di gruppi, come i Moofloni e i Fluxus, con le proprie schede di presentazione e la pagina relativa ai tour. Il riscontro fu molto positivo, riuscii a spedire dischi in tutto il mondo, dall’America alla Russia passando per Sud America e Libano. Vendetti dischi di progressive italiana ad un già famoso Jello Biafra e, paradossale, vendetti una ventina di dischi della Konkurrel allo stesso gruppo che li aveva registrati per il semplice fatto che in America non stampavano il vinile al contrario dell’Europa, e loro quindi non lo avevano mai visto. Purtroppo il progetto web naufragò: quando proposi alle varie realtà di farne parte, tutti (!) mi risposero che stavano già elaborando un progetto simile e che stavano lavorando per attuarlo anche in forma migliore. Il tipico atteggiamento italiano purtroppo. Il solo dominio web all’epoca costava qualche milione di vecchie lire ed idem per il server. I costi erano troppo pesanti per un piccolo negozio di dischi. Poi l’azienda di hosting fallì e quindi scomparve sia il sito che il backup. Riuscii comunque a ricomprare il dominio che restò in standby per un po’ di anni, sino a quando i costi divennero più umani ed affrontabili. Le differenze tra un negozio di dischi odierno ed uno dei tempi sono abissali, anzi, parlerei di due lavori diversi. In passato bastava avere un po’ di soldi, tanta passione e costanza e il più era fatto. Le major ti davano i dischi e tutto quel che dovevi fare era venderli, magari in una location nel centro cittadino. Il primo cambiamento si ebbe con la nascita delle label indipendenti, per cui il rapporto di vendita mutava. Il commesso doveva per forza cercare di far conoscere il prodotto da vendere, sia nell’acquisto per il negozio che nella proposta verso il cliente. Negli anni Novanta sono nati i negozi specializzati in musica indie, e forse fu il momento migliore per quell’attività visto che l’esperienza del negoziante era condivisa e premiata dal cliente, anche per merito di generi musicali che stravolsero il modo di ascoltare di quell’epoca, grunge ed elettronica su tutti. Label come Sub Pop, Touch And Go, Warp, Apollo e decine di altre hanno contribuito a far crescere la qualità e la differenziazione dell’ascolto. Devo ammettere che fu parecchio divertente, almeno sino ai primi Duemila. Fatturati? Forse il doppio di un buon negozio attuale. Il vecchio Indie nel 1995 vendeva circa 5000 pezzi, nel 2002 circa 10.000. Poi il calo, lento ma inesorabile con l’avvento di fattori esterni, sino alla crescita della richiesta del vinile dove il commesso ritorna a fare la differenza, con un fisiologico aumento delle vendite. Indie è un negozio che vende solo ed esclusivamente vinile e qui a Treviso non c’è nessuno che ha avuto il coraggio di fare una scelta così drastica, forse neanche nella regione e nell’intero Triveneto. La resurrezione del vinile in mano alle multinazionali? Mi fanno incazzare quelli che attribuiscono motivazioni semplicistiche creando i cosiddetti hype, che io chiamo luoghi comuni. Basta fare un po’ di conti: il catalogo Sony è di circa 800 titoli, quello Warner 900 e Universal circa 1000, per un totale intorno ai 3000 titoli. Solo la Music On Vinyl, label olandese indipendente, ne ha 1300, e un qualsiasi distributore medio italiano (di label indipendenti europee ed americane) ne ha in media 7000/8000, e i distributori in Italia sono 5 o 6. Parlo di quelli medio-grandi, con distribuzioni esclusive quindi titoli non replicati. Quindi, analizzando i numeri, vediamo che le major, che secondo i luoghi comuni alimenterebbero il mercato, hanno circa 3000 titoli mentre gli indipendenti, a spanne, ne vantano 50.000. Altra questione non marginale riguarda le stamperie che sono private e questo basta per capire che alle major è stata sottratta la principale arma di controllo del mercato, cosa già avvenuta negli anni Novanta col CD dove il brevetto e la stampa erano controllati da Sony e Philips e le fabbriche erano di proprietà delle suddette. In quegli anni c’era certamente un controllo del mercato, bastò non stampare più vinili ed inondare i negozi di CD e il giochetto era fatto. Vorrei inoltre ricordare che i più importanti negozi indipendenti sono nati proprio in quegli anni, con la creazione e l’esplosione delle etichette indie che hanno sempre stampato i vinili, proprio in quelle stamperie abbandonate dalle major e a cui ora queste si stanno rivolgendo per realizzare i propri prodotti ma mettendosi in coda come tutti. Non essersi accorti che l’aumento della richiesta del vinile è la più grande rivoluzione musicale dagli anni Novanta in poi è terribile per chi vorrebbe ergersi ad opinion leader musicale. Per una volta il cambiamento è partito dal basso, dalla gente, dalle indie label e dai negozi che con caparbietà ed incoscienza hanno abbracciato questa controtendenza (commerciale), e solo cinque anni dopo se ne parla come un’esplosione successa ieri. Adesso vendo tanti dischi ma non posso identificare il cliente tipo perché questo è un mercato in espansione e le ultime tre generazioni non hanno mai visto dischi in vinile quindi sono potenzialmente tutti clienti tipo. La cosa fondamentale è che siano curiosi, stanchi delle continue manipolazioni del mercato della musica, annoiati di avere cinquantamila brani sul loro iPod. Il target comunque si è allargato, si va dai quindici ai settant’anni. Avendo vissuto da protagonista la nascita di label come Warp, Tresor, Studio !K7 e molte altre che hanno contribuito a dare un senso di movimento all’elettronica, ora cerco di vendere le ristampe dei dischi storici, nelle possibilità che ho nel reperirle ma cercando anche autori nuovi seguendo realtà come Planet Mu, Morr Music e passando anche per cose tipo St Germain, una pop downtempo che sta in mezzo tra l’amante e il neofita. Magari vendi 10 copie di Boards Of Canada insieme al citato St Germain. La cosa importante è cercare sempre di proporre bei dischi, come quello di Klavikon. Arrivare a 5 copie di un album come questo è già un importante risultato.
Puntando lo sguardo al futuro, non credo ci potrà essere ancora spazio per i negozi fisici di dischi. Un negozio medio di CD dovrebbe avere dai 20.000 ai 30.000 CD, la percezione di una persona “normale” che voglia avvicinarsi al vinile è uguale al negozio di CD, non si può pretendere che tutti conoscano la storia degli ultimi cinque/dieci anni, magari c’è chi ha letto della rinascita del vinile su Repubblica, Il Giornale, La Stampa, Famiglia Cristiana o Vanity Fair quindi entra nel primo negozio e chiede quello che ascolta di solito, ma difficilmente lo troverà. Per aprire un negozio di vinile bisognerebbe avere di base almeno 10.000 titoli e quindi parliamo di un investimento di circa 150.000 euro. In pochi oggi possono permetterselo. In merito alla situazione italiana della musica indipendente, ho sempre visto e concepito l’indie nostrano come parte del panorama mondiale e credo che l’unico problema ad averlo frenato sia stata autoreferenzialità e snobismo, quel senso di distacco dalle realtà europee. Ci si è lasciati abbindolare troppo facilmente dalle facilitazione del web e dal “faccio tutto io” senza minimamente capire dove stava andando il mondo musicale, limitandosi a scimmiottare i movimenti esteri nella forma ma poco nella sostanza, e non cogliendo il senso e gli obiettivi».
Altro negozio italiano capace di resistere per decenni alle difficoltà del mercato discografico è Flexi Dischi, a Lugo, in provincia di Ravenna. A parlarcene è il proprietario, il DJ Lorenzo Guerra: «Correva il maggio del 1984 quando decisi di mettere a frutto la mia passione per la musica aprendo un negozio di dischi col fine di creare un piccolo centro di ascolto e di vendita esclusiva, orientata maggiormente alla musica disco. Nasceva Flexi Dischi, una realtà di appena quaranta metri quadri, ampliati dopo cinque anni in una nuova sede (quella attuale). Fin da subito puntai su generi musicali di nicchia, come la black music, l’afro, il funky, l’italo disco, la house e la dance in generale, e in pochi anni il negozio divenne un punto di riferimento per gli appassionati e soprattutto per i DJ della zona. Nel corso del tempo il mercato è ovviamente cambiato, con un calo costante delle vendite fino al 50% a partire dall’anno in cui è comparso l’euro, il 2002. Le cause di questa lenta ed inesorabile tendenza sono state principalmente due: la vendita sottocosto dei grossi centri commerciali (supporto CD), e il download e/o streaming. Aggiungo anche la crisi dei locali da ballo e di conseguenza la perdita di molti clienti DJ. Un tempo vendevamo anche 50/60 copie degli album di Zucchero o Vasco Rossi, adesso siamo sulle 10/15, di cui la metà in vinile. Ci troviamo al culmine del fenomeno moda del vinile, e credo che anche il Record Store Day di quest’anno si sia già sgonfiato a causa di una miriade di titoli proposti (tra special edition, edizioni ultra rare e numerate) per cui si fa la corsa per comprarle ma che poi rimangono dal giorno dopo sullo scaffale a prendere polvere. Anche in merito alle ristampe dei classici, credo che le major stiano esagerando con le edizioni doppie e triple, bonus track, demo, studio session e chi più ne ha più ne metta, con l’aggravante di prezzi molto alti. Per questo considero importante l’usato, non solo comprato dal collezionista ma anche dal normale ascoltatore, in un range che va dai 10 ai 15 euro. Non credo quindi che il “ritorno” del vinile possa portare fatturati stratosferici, è semplicemente una nicchia e come tale va coltivata in maniera costante e con attenzione per permettere ai negozi, come il mio, di sopravvivere, cosa che io stesso credevo impensabile almeno sino al 2010. I risultati di vendita variano di mese in mese e a seconda delle stagioni, vendiamo 2/3 dischi al giorno ad utenti dall’età media over 40, con qualche new entry giovane che si avvicina al vinile con curiosità ma con pochi soldi da spendere. Quattro anni fa abbiamo aperto un account su Discogs che usiamo come catalogo e vendita online, e lì il fatturato oscilla tra il 10/15% di quello totale. Segnaliamo le chicche attraverso una newsletter mensile inviata ad un numero ridotto di clienti fidati. Non abbiamo ancora pensato all’e-commerce perché comporta molto tempo ed altrettanta logistica, ed inoltre lavorare con le spedizioni dall’Italia con l’estero è assai costoso in termini di tempo e denaro. Preferiamo portare la gente nel negozio e stimolare gli appassionati. Negli ultimi tre anni, con cadenza trimestrale circa, abbiamo organizzato eventi nel negozio con un filo logico e con un tema, e ci siamo accorti che questi appuntamenti catalizzano l’attenzione di appassionati e collezionisti che si muovono da tutta la regione. È un po’ come rivivere i venerdì e i sabato pomeriggio degli anni Ottanta, quando all’orario di apertura trovavi già diversi clienti in cerca di news e che passavano la giornata a parlare di musica, locali e tendenze. Siamo in contatto con diverse label che partecipano ogni anno al Music Market, e ci consideriamo compagni di viaggio dei DJ e produttori che operano dietro tali etichette e che, come noi, navigano a vista. Forse la classica stampa in vinile oggi risulta fine a se stessa. Può essere di alto livello e ben recensita ma necessita di essere figlia di un ottimo DJ o di un bravo produttore per avere longevità artistica. Dal prossimo autunno daremo avvio ad una serie di vinili 12″ ma non legati al concetto di etichetta, diciamo concepiti più come collettivo di buona musica e distribuzione “fatta in casa”. Si chiamerà Flexi Cuts. Tornando a parlare di vendite, non è bello dirlo ma la scomparsa di un grande artista fa lievitare parecchio gli introiti di catalogo, come avvenuto per David Bowie o Prince. Purtroppo di artisti come loro non ce ne saranno più. Noi speriamo di aver finito la traversata nel deserto, consci che altri negozi (la maggior parte) come il nostro non ce l’hanno fatta. Sulla sorte dei negozi di dischi fisici, pertanto, vanno considerati diversi fattori, come la zona e la città, non necessariamente una metropoli ma in una giusta posizione. Noi ad esempio siamo nel cuore della Romagna, proprio dove si vendeva maggiormente musica dance e dove, nel raggio di 70/80 km sorgevano tra le 20 e le 30 discoteche. Il negozio fisico inoltre deve puntare al cliente che varca la porta e non solo a quello che riempie il carrello online. Molti, per ridurre le spese vive, adottano il sistema dei circoli musicali ma per far questo bisogna prevedere eventi aggregativi e comunque avere finalità culturali e non solo commerciali. Non meno importante l’esperienza e la competenza. Mai come oggi aprire un negozio di dischi è una scommessa e bisogna evitare di improvvisare. Vendere il vinile che ti piace spesso e volentieri non basta per pagare le bollette. Poi c’è da dire che in Italia siamo svantaggiati rispetto ad altri Paesi europei per quel che riguarda distributori e pressing plant. Per tempistiche e prezzi a volte ci rivolgiamo ai rivenditori esteri ma a mio avviso basterebbe molto poco per allinearsi. La situazione è grave non solo per noi negozianti ma anche per chi realizza musica indipendente».
Gli eventi che si sono succeduti nell’ultimo quindicennio circa hanno stravolto più volte la musica, sia considerando l’atto artistico che quello più pratico e legato a strategie di vendita e modalità di fruizione. Il vinile, indiscusso simbolo iconico della musica stessa nonché del DJing, a distanza di pochi anni è stato prima liquidato come banale oggetto di modernariato (déjà-vu coerente con la tradizione ma che non offre alcuna idea di innovazione) e poi recuperato persino dalle multinazionali. Durante questo tumultuoso iter più di qualcuno ci ha prevedibilmente perso: ovunque siate in Italia o nel mondo, nel momento in cui starete leggendo queste righe vi verrà in mente almeno un negozio di dischi che avete frequentato e che ora non c’è più, crollato sotto la scure dei costi e dei mancati introiti. Tra gli ultimi ad aver chiuso dopo ben trentacinque anni di attività, purtroppo per motivi non legati all’economia, è il fiorentino Disco Mastelloni. Una storia si conclude ma un’altra comincia proprio nella stessa Firenze, con l’apertura di Deejay Vinyl. Anche il commercio elettronico è costantemente sotto pressione e talvolta non basta essere ben organizzati, basti prendere in esame casi come il francese Nuloop o il belga Flexx che, dopo rigogliosi trascorsi, hanno concluso la loro corsa.
La facilità di produrre musica, l’appiattimento dell’offerta spesso livellata in basso, le previsioni future che non vedono più neanche il download ma solo streaming sembrano calare definitivamente il sipario sul formato più amato dalle vecchie generazioni, eppure quando ormai pare tutto perduto ritorna il Technics SL-1200, il Record Store Day diventa un fenomeno di portata mondiale (quest’anno sono state quasi 300 le pubblicazioni ufficiali annunciate dall’industria italiana) e la terza edizione del Music Market di Bologna (street market e laboratorio indipendente italiano che unisce etichette discografiche, musicisti, produttori e collezionisti) si riconferma come evento di successo. C’è anche chi, come i ragazzi della milanese 51Beats, attraverso un progetto di crowdfunding sta cercando di raggranellare il denaro necessario per creare un mini pressing plant in grado di soddisfare le etichette indipendenti desiderose di stampare sino ad un massimo di cento copie dei propri dischi. Già, perché questo tam tam mediatico che è scoppiato intorno al vinile pare stia portando non pochi disagi alle case discografiche più piccole, costrette ad attendere mesi per ottenere i propri prodotti visto il risveglio delle major che, a quanto si vocifera nell’ambiente, godono della precedenza perché committenti di lavori ben più remunerativi. A tal proposito segnalo questo articolo che racconta la chiusura del negozio di dischi Echo Park: è paradossale che ad uscire da perdenti siano proprio quelli che si sono battuti per tenere in vita il vinile negli anni di totale “black out” in cui il calo d’interesse per tale supporto ha toccato i massimi storici. Le major si sono ricordate dell’esistenza del vinile ma se fosse stato per loro non sarebbe rimasto nulla dei pressing plant e dell’utenza, ben diversa da quella che frequenta ipermercati o Autogrill.
Si inizia ad avvertire la necessità di “ri-atomizzare” la musica, renderla nuovamente visibile e non più solo ascoltabile. Da qualche tempo sono tornate anche le cassette (e del “Cheetah EP” di Aphex Twin ne sono state vendute ben 2000 copie in poche ore!) ma bisogna rimanere coi piedi per terra perché il rischio ora è quello di generare un surplus di brani stampati su supporto fisico. La “solidificazione” della musica come risposta alla “fusione” imposta dalla digitalizzazione non aggiunge automaticamente ad essa un valore di tipo artistico. C’è chi, come Neil Young, parla di fenomeno modaiolo (come si legge in questo articolo, chi, come Preston Jones, è dubbioso sulla forza esercitata dal vinile come “dinamo” o “carburante” dell’industria discografica (come si legge qui) e persino chi invano spera che tale “ritorno” possa far annegare la pletora di DJ improvvisati. Al momento non sappiamo se il mercato del futuro sarà suffragato da numeri sempre più eccitanti e tantomeno se la digitalizzazione sfrenata continuerà ad alimentare indirettamente il ritorno alla tattilità delle cose. Anche il termine “rinascita” per certi versi pare improprio, perché si può rinascere solo dopo la morte, e il disco non è mai morto. Certo è che, nonostante si profetizzi la sua fine da tempo immemore, il vinile è ancora qui tra noi, e questo basta per riempirci il cuore di gioia.