Eh sì: eravamo impazziti di gioia quando avevamo sentito “La terza estate dell’amore”, uscito ormai tre anni fa. Non ne siamo pentiti. Riproporremmo passo dopo passo, frase dopo frase quell’entusiasmo. Però oggi, nel 2024, dovremmo aggiungerci una nota amara: quel disco non è stato pienamente capito, non è stato pienamente amato da chi – in teoria – doveva amarlo ed adottarlo. Non è questione di meri numeri. Sì, ok, “La musica illegale” forse poteva diventare una hit da corteo, e in parte lo è diventata, viralizzandosi; ma in generale non era un disco di singoli. Non c’erano “ultime feste”, non c’erano malinconie cittadine, non c’erano ritornelli da cantare in coro con retrogusto di Battisti: c’erano fratture, slogan bizzarri, testi stralunati molto debitori del lato più surreale e “veloce” della trap (…non di quello più scemo, vivaddio). Dove volevi che andasse, “La terza estate dell’amore”?
…in realtà, c’era un posto dove volevamo che andasse. Volevamo che diventasse un alleato forte, fedele ed imprescindibile di chi conosce e vive davvero la club culture. Di chi l’ha conosciuta sul serio, di chi l’ha vissuta nel profondo. Partendo da lì, andava benissimo che la “ala indie / it-pop” del pubblico di Cosmo scoprisse la cassa in quattro, i concerti che durano ore senza soluzione di continuità, l’estasi quasi da rave, un altro modo di vivere l’esperienza-concerto e il rapporto sia col proprio corpo che con le proprie emozioni; andava benissimo, sì, perché ok chi sarebbe arrivato da queste sponde sarebbe stato un neofita ingenuo, sarebbe stato magari pure un turista temporaneo, ma in un’Italia troppo spesso ingessata dal conservatorismo e dal modaiolismo Cosmo aveva fatto una cosa clamorosa: aveva fatto un disco intriso di club culture radicale proprio nel momento in cui quest’ultima peggio se la passava, rimpiazzata com’era – e com’è – dalla luccicante estetica da festival, dai lustrini EDM e post EDM, dal tremendismo adolescenziale della trap, o dal simulacro avido, conservatore e commerciale di se stessa.
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Il mondo del clubbing puro in Italia si era spaccato in due: chi aveva abbandonato, chi era invece rimasto per tentare di fare i soldi sopra su quel non tantissimo che ancora avanzava dall’enorme ondata degli anni ’90 e di essa si nutriva o ancora la fruiva, per esperienza diretta o per passaggio di testimone da amici, genitori e fratelli maggiori, quando cioè alla discoteca si andava ogni sera della settimana o giù di lì, quando andare a ballare era un fattore identitario. Bei tempi, oggi lontanissimi. Oggi clubbing vero è rimasto un decimo rispetto a dieci anni fa ed un centesimo rispetto a venti, venticinque anni fa. Una situazione un po’ malconcia ed incerottata, quindi, non certo una linfa aurifera su cui buttarsi per ergersi re del mondo. No? Beh, a Cosmo non gliene era fregato un cazzo. Aveva scoperto il clubbing, l’aveva scoperto e capito nel profondo, e aveva deciso di buttarsi anima e corpo in questa scoperta con l’idea di raccontarla, condividerla, viverla e infine farla vivere, senza filtri. Un caso più unico che raro nel pop italiano, nel mondo della musica italiana.
Sì, non c’erano i singoli ne “La terza estate dell’amore”, va bene; ma avrebbe dovuto esserci una forte chiamata alle armi per chi davvero aveva a cuore le sorti della club culture, non nei numeri e nei fatturati ma nello spirito. Ovvero, per chi ancora adesso impazzisce per Loco Dice come per l’EBM belga anni ’80, per chi si nutre di techno detroitiana come di Circoloco all’ultimo grido fashionista, per chi va di Bibi, per chi si prende Pawsa, per chi ama davvero Garnier, per chi partendo dall’EDM ha scoperto Sandwell District, per chi partendo da Skrillex è arrivato a ritroso fino a Shackleton e Benga, per chi dai colori di Four Tet è arrivato al rigore di DVS1, per chi conosce la differenza tra Martyn e John Martyn (e sceglie il primo dei due senza pensarci un attimo): sì, lo sappiamo, abbiamo espresso un arco costituzionale molto ampio, un arco costituzionale fatto spesso di correntine e correntoni che si guardano in cagnesco fra di loro, ma che anche se non lo vogliono riconoscere hanno comunque in comune una scelta di campo e un background ben chiaro su cui costruire le proprie scelte e i propri orientamenti di consumo culturale, e di soddisfazione socio-emotiva. Gente che de “La musica illegale” doveva fare una bandiera e di tutto l’album doveva fare una bandiera, e un momento di collettiva presa di coscienza e riscossa.
Niente, un cazzo.
Chiaro, se parlavi con le singole persone – dj/producer di grido ed esperienza, promoter navigati – spesso ti dicevano che Cosmo lo apprezzavano molto, ne erano fan. Ma quella che poteva essere una chiamata alle armi collettiva per rimettere filosoficamente il clubbing al centro del villaggio è rimasta inascoltata, è caduta abbastanza nel vuoto. Il nucleo forte di chi dice di avere il ballo al primo posto del suo background, del suo presente e delle sue passioni non ha realmente colto quanto importante fosse l’uscita di un disco così atipico e controcorrente come “La terza estate dell’amore”. In fondo, ha continuato a vedere Cosmo come un corpo estraneo, come uno che faceva un altro campionato. A livello di numeri e di composizione di pubblico nell’altro campionato ci giocava, Cosmo, quello del pop e dell’indie all’italiana; ma la verità secondo noi è che non vedeva l’ora di abbandonarlo, per (ri)creare una wave di appassionati di musica che metteva al primo posto il ballo, l’estasi, l’abbandono, l’euforia da BPM, e non la vita attraverso un ritornello dolceamaro da cantare in coro.
A Cosmo non interessavano il successo o i numeri; a Cosmo interessava far vedere che una via alternativa al vivere la musica era possibile, e questa alternativa passava attraverso il ballo, attraverso la club culture. Chi per DNA culturale doveva capire, cogliere l’occasione ed imbarcarsi con lui in questa impresa, è rimasto lontano e/o distratto. O, in qualche caso, era troppo occupato a continuare a perpetrare quello che il clubbing in chiave tehcno-house purtroppo oggi è diventato: uno degli ambiti più statici, piatti, irregimentati e conservatori del panorama amusicale (…un esito che sarebbe quasi da definire ironico e bizzarro, se non fosse invece scoraggiante ed irritante).
“Sulle ali del cavallo bianco”, il nuovo album di Cosmo uscito oggi, è una grande ritirata. Quasi ogni idea di utopia collettiva e di palingenesi diffusa è stata sostituita dal ritorno al privato, al personale, all’introspezione; ad un guidogozzanismo magari non estenuato, esangue e puritano ma vitale e sfrontato, ok, per carità… Però ecco – pur sempre guidogozzanismo.
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Anche la scelta – ottima! – di collaborare con quel drago e vecchissimo amico di Alessio Natalizia aka Not Waving, uno dei più grandi producer italiani di elettronica degli ultimi trent’anni (ovviamente emigrato e poco cagato da noi in patria), è stata alla fine usata in maniera conservativa. Non si è osato, non si è spinto sull’acceleratore del o-vita-o-morte, non si è cercato il futuro e la rivoluzione, ma si è invece cercato di divertirsi, di citare, di rendere le cose sì buffe, creative ed originali – però sempre al servizio della forma-canzone all’italiana più canonizzata e prevedibile, che è tornata trionfale a stendere il suo velo battistico su tutto.
Il risultato non è male. È interessante. È musicalmente più fragrante ed originale di quasi tutto quello che è stato stato prodotto nell’ultimo decennio da ciò che un tempo si chiamava it-pop, che oggi è esattamente quello che erano Baglioni trent’anni fa e Antonacci vent’anni fa, anche se provano a raccontarci il contrario; ma nell’essere tale, comunque ciò che risulta è che non spicca mai il volo a corpo morto, non si assume mai il rischio di uno slancio senza rete. Di una rivoluzione.
Lo aveva già fatto questo volo, si era già preso questo rischio, coll’album precedente, aveva già fatto questo richiamo; non è stato raccolto, non è stato capito, non è stato appoggiato, ha figliato quasi solo gossip e situazioni perfettamente riassunte nel testo “Troppo forte” (chi c’era, sa), la fedeltà dei fan acquisiti.
Ora, giustamente, si è stancato… Ed ha deciso di tornare a guardare a sé, al proprio racconto personale; così come alla scelta più facile e in qualche modo “famigliare” per mantenere comunque una presenza nobile e dignitosa nel mondo del pop. Perché sì l’elettronica, sì Not Waving, sì qualche fragrante stranezza, ma l’unica traccia in questo nuovo album che veramente rapisce il cuore di chi spera(va) in un palingenesi collettiva che unisse generazioni ed ambiti di ascoltatori è “E se”, mentre per il resto del disco di tutto questo resta solo qualche traccia episodica, qualche detrito, qualche fatamorgana, come la gabber accennata in controluce dell’iniziale “Come un angelo”.
Che ci sia stato un ritorno al Cosmo de “L’ultima festa”, neanche a quello di Cosmotronic, quindi ben due passi indietro, lo si capisce bene da “Tutto un casino”: l’uso dell’amen break magari nelle intenzioni voleva essere spiazzante e mettere elementi da Atari Teenage Riot in una traccia intima e confidenziale, creando un cortocircuito fertile e fecondo, nella realtà pencola fra l’essere una soluzione un po’ kitsch e l’essere un tentativo – non riuscitissimo – di rifare “Heaven” di Emeli Sandé. Poi per carità, sempre meglio di “Sulle ali del cavallo bianco”, la title track, fatta uscire come singolo qualche settimana fa: in realtà nell’economia dell’album assume un po’ più senso se si ascolta finalmente il disco dall’inizio alla fine, un po’ la contestualizzi, ma lì per lì fatta uscire da isolata, per giunta presentata appunto come apripista dell’album in arrivo, sembrava uno scherzo di incerto gusto, un divertissement in cui Cosmo provava con trent’anni di ritardo ad essere Franchino.
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A scanso di equivoci, tocca ripeterlo: questo album uscito oggi è comunque nella fascia alta di qualità ed originalità del pop italiano contemporaneo. Sia per musica (soprattutto gli arrangiamenti), che per scrittura dei testi. Punto. Se questa recensione è amara, se è negativa, se è delusa, è perché avevamo intravisto grandi cose con “La terza estate dell’amore” e siamo convinti le avesse intraviste anche Cosmo stesso; poi però è tornato l’autunno, sono tornate le serate a casa con la copertina, e l’”amore” è diventato più umilmente e più umanamente tornare a provare a capirsi fra chi si conosce e si ama già, non partire verso una esplorazione di illusioni, scoperte ed istinti.
Però ecco, in questa esplorazione sfrenata e selvaggia quasi tutti quelli che avrebbero dovuto entusiasti accompagnare Cosmo e fare staffetta con lui, comprendendone perfettamente gli obiettivi e sostenendolo, hanno fatto flanella. E in questo la colpa, secondo noi, non è di Cosmo. No: non è sua. Non è lui che ha sbagliato qualcosa.
Ce la meritiamo, Peggy Gou (qui usata come simbolo, per carità, non se la prendano a male i fan della djessa coreana!); così come ci meritiamo che oggi la serata Planet Mu, se arriva in Italia, con una All Star della label, faccia fatica a fare 100 paganti. Ci meritiamo poi che il clubbing faccia sempre più fatica, al limite del coma e della testimonianza residuale, e che invece prosperino solo le cose più commerciali e nazionalpopolari.
Però, chissà: la ruota, prima o poi, gira.