Per chi ci segue, Godblesscomputers non ha bisogno di molte presentazioni: ne abbiamo sempre parlato con attenzione e soddisfazione, perché rappresenta quel tipo di artista con una serie di pregi che sì, ci stanno molto simpatici: come la curiosità, l’attenzione per le radici della musica black, la capacità di non farsi inscatolare da mode o diktat da hype, il muoversi in un terreno compreso tra hip hop ed elettronica. E’ stata una soddisfazione vederlo diventare un artista via via sempre più importante, da piccolo nome di nicchia che suona di fronte a un pugno di persone ad artista capace di radunare grandi pubblici ed anche un vero seguito sui vari canali di streaming, costante ed appassionato. “The Island”, il disco uscito in questi giorni, segna un ulteriore passo in avanti: per la musica in sé, ma anche per la struttura che gli ruota intorno e per i suoi obiettivi. Abbiamo allora deciso di fare un’operazione un po’ particolare: una intervista divisa in Side A e Side B – come i cari vecchi vinili! – dove nella prima parte parlano anche il suo manager e primo artefice dell’upgrade di obiettivi, Francesco Tenti, ed il suo discografico, Enrico Molteni de La Tempesta Dischi (nonché uno dei Tre Allegri Ragazzi Morti), una delle label più illuminate e musicalmente “aperte” – in particolar modo nella variante Tempesta International – del panorama italiano. Nella seconda, ci si concentra invece più su Lorenzo, sul lavoro che sta dietro a questo nuovo album e su come stia cambiando la sua vita (e il suo pubblico). Il risultato, ci sembra, è piuttosto interessante, da gustare con attenzione (…come si fa coi vinili, no?).
SIDE A
Ok, allora, partiamo da questo scenario: Godblesscomputers sta facendo il disco nuovo. Tu Enrico, che ne sei il discografico, visto che il disco esce su Tempesta International, in quale fase di questo processo entri in gioco?
Enrico: Beh, Lorenzo è chiaramente uno di quegli artisti che fa tutto un po’ da solo. Se lo fa a casa sua, in studio, in piena autonomia. Visto poi anche il suo carattere e il tipo di rapporto di grande fiducia reciproca che c’è, alla fine noi come etichetta arriviamo solo all’ultimo, quando il disco è praticamente già pronto.
Lorenzo: Confermo assolutamente.
Quindi insomma l’etichetta alla fine della fiera serve solo come appoggio “logistico”, o comunque c’è un minimo di input artistico?
Enrico: Con Lorenzo non c’è, l’input artistico. E’ indipendente al cento per cento. E, fortunatamente, praticamente sempre ha ragione lui (risate, NdI). Poi guarda, già di nostro come Tempesta non è che siamo un’etichetta particolarmente “interventista”, anzi; è capitato davvero molto di rado che mi sentissi di intervenire dicendo “Sì, ok, però secondo me…”. Con Lorenzo poi la sintonia a livello di gusti estetici devo dire che è davvero forte.
Lorenzo: L’unico volta su cui c’è stato uno scontro un po’ deciso è stato non sulla musica, ma su una copertina… Ricordi, Enrico?
Enrico: Vero!
Lorenzo: Alla fine l’abbiamo cambiata in corso d’opera. Parliamo di “Plush & Safe”, quindi due dischi fa.
Enrico: Eh, volevi mettere tua mamma in copertina…
Lorenzo: Sì, perché era tutto legato ad un concept specifico, ma poi mi sono conto che effettivamente era una scelta un po’ forte. La foto era scattata coi palazzoni del Pilastro, a Bologna, sullo sfondo. Una scelta forte, però in realtà aveva senso ed era “leggibile” probabilmente solo per me.
Beh, avresti anticipato di qualche anno Ghali.
Lorenzo: Vero! Nella copertina di un suo singolo, giusto?
Già. Comunque ok, con Enrico il discografico abbiamo capito che la collaborazione è liscia ed entra in gioco solo negli stadi finali, perfetto. E con Francesco il manager, invece?
Francesco: Beh, il ruolo del manager alla fine è un po’ a trecentosessanta gradi. Fondamentalmente, il suo compito più importante è quello di creare un team di supporto; e in questo team, l’etichetta ha ovviamente un ruolo fondamentale. C’è lei, c’è l’ufficio stampa… Comunque sì, posso dire che – tenendo anche in mente possibili realtà parallele – la Tempesta è davvero una “etichetta gestita da artisti”. Nel senso che lascia grande libertà all’artista e gli dà grande fiducia, non vuole insomma intervenire nei vari processi di produzione artistica. Il ruolo del manager è quello di far dialogare tutti gli attori in gioco, e poi anche di occuparsi di tutta quella che è un po’ la parte “noiosa”, quella legata alla burocrazia varia. La vera differenza in “The Island” è che si tratta di un disco che, fin dall’inizio, è stato pensato come un prodotto non solo italiano, ma proprio internazionale, pur essendo al 100% Made In Italy. Quindi già l’anno scorso abbiamo contattato, grazie ad alcuni amici a Londra, un distributore inglese, trovando alla fine una partnership, cosa che rende questo disco una uscita internazionale a pieno titolo. Con tanto di promozione sia in italiano che in lingua inglese, per i mercati esteri. E c’era pure un progetto specifico di respiro internazionale, per quanto riguarda i live. Questo è un bel risultato – e una bella differenza rispetto ai lavori precedenti.
Non voglio sapere le cifre precise che sono affar vostro, ma mi sento di chiederti: cosa in cambia a livello di budget, almeno in percentuale? Pensare il disco come subito direzionato sia al mercato locale che a quello internazionale credo che cambi un po’ le economie, no?
Francesco: Guarda, con questa cosa dell’estero noi avevamo effettivamente costruito un progetto organico, capillare: c’era di mezzo come ti dicevo anche la componente live, quindi erano stati stretti pure precisi accordi sul booking con alcune agenzie europee. Sì, confermo: il progetto era ed è ambizioso. A livello di costi, il distributore è però un non-costo: questo perché fortunatamente AWAL è un distributore atipico. Ha una barriera all’ingresso, non è che prende tutti, ha un ufficio A&R che seleziona attentamente i progetti che trova in target. Una volta che si stringe un accordo con loro, non c’è nessun costo a monte – si limitano a dedurre la percentuale che gli spetta dalle royalty effettive, e questo è. Il vero costo per quanto riguarda l’estero è piuttosto la promozione: gli uffici stampa inglesi top hanno dei costi che sono inavvicinabili per una realtà indipendente come la nostra. La soluzione è andare ad individuare dei free lance appassionati e bravi, specializzati in determinati settori – nel nostro caso, quelli più legati all’elettronica, al deejaying. Ce l’abbiamo fatta, a costi abbastanza contenuti. Ovviamente è una prima fase, per quanto riguarda la promozione; quando finalmente potrà partire il tour europeo, bisognerà aggiungere i costi dei vari press office nelle singole nazioni dove si andrà a suonare.
Domanda per Enrico: quanto pesa “International” in Tempesta International?
Enrico: Inizia ad avere un bel peso. I primi dieci anni di attività per noi sono stati solo come La Tempesta Dischi, pubblicando unicamente lavori col cantato in italiano, proprio come scelta programmatica. A modo suo una figata: perché tutti quelli che mandavano il demo col cantato in inglese potevamo subito liquidarli con un “No, ci dispiace, ma proprio non possiamo prenderti in considerazione”… (risate, NdI) Tra l’altro questo per certi versi ha spinto un po’ di realtà anche a misurarsi con l’italiano, penso a One Dimensional Man, Teatro Degli Orrori, Fine Before You Came. Poi, arrivati al 2010, abbiamo pensato che forse non aveva tanto senso questo limite, era una regola in fondo un po’ assurda; e lì abbiamo iniziato a pubblicare tanta roba con un respiro assolutamente internazionale. Effettivamente, questa scelta si è rivelata una figata. Nella sezione International de La Tempesta ci sono molte cose di elettronica, di reggae, ora anche di cumbia. Rock? Magari c’è quello più strano, più psichedelico. E’ abbastanza chiaro infatti che ciò che di italiano funziona di più all’estero è quando entri in un genere ben preciso, ben delineato, e questo genere non deve essere il pop-rock. In effetti: perché un inglese dovrebbe ascoltare del pop o del rock cantato da un italiano? Magari può capitare, eh; bisognerebbe però fare tutto un lavoro particolare, mettendo in campo delle forze economiche che noi non abbiamo, per convincere ad esempio le radio a suonare dei pezzi cantati nella nostra lingua. Non è al momento molto realistico. Più sei specifico nei generi musicali non mainstream, più aumentano le possibilità di farsi notare: con l’estero funziona così. Sicuramente è d’aiuto anche il tanto amato e tanto odiato Spotify: è infatti un attimo – se ti mettono in determinate playlist specializzate, se hai la fortuna di finirci – attirare l’attenzione da tutto il mondo. Questa devo dire è una cosa che mi rende molto felice. E la musica di Godblesscomputers è interamente strumentale, o alla peggio con ospiti che cantano in inglese: è proprio fatta per essere internazionale.
Beh Lorenzo, l’hai sentita questa responsabilità lavorando a “The Island”, sapendo che sarebbe stato un disco per più mercati e non solo quindi quello italiano?
Lorenzo: In realtà queste cose emergono solo dopo la lavorazione del disco. Io, quando creo musica, lo faccio sempre allo stesso modo: “fotografando” il momento storico che vivo, sia quello personale che quello in generale sociale. Stop. Per “The Island” insomma non ho fatto nulla che non avessi fatto in precedenza, come metodologia creativa, fatta salva la specificità che ogni singolo album si porta dietro. E’ vero però che mi è sempre piaciuta l’idea di essere ascoltato anche al di fuori dell’Italia: perché parliamoci chiaro, la musica che faccio essendo strumentale può potenzialmente arrivare a chiunque, no? Tant’è che negli anni mi è già capitato di avere feedback particolarmente positivi dall’estero, magari da persone che mi avevano scoperto un po’ per per caso via Bandcamp o Spotify. Nell’ultimo periodo poi è stato fatto un lavoro veramente importante, che mi ha fatto finire con alcuni pezzi in playlist di Spotify veramente potenti a livello globale; e magari ti sentono lì, poi a qualcuno viene voglia di approfondire anche il resto di quello che fai, tutto il tuo back catalogue, che è già lì pronto, a disposizione… Sono molto contento di aver trovato persone che mi possono aiutare tangibilmente a far circolare la mia musica. E non è stato facile: perché io di mio sono molto “geloso” di tutto quello che faccio e sono sempre stato molto indipendente, quindi voglio mettere una cura enorme in ogni singolo aspetto. Se proprio devo collaborare con qualcuno ed affidarmi a qualcuno per un qualsiasi compito o una qualsiasi componente che riguarda la mia musica, beh, faccio prima mille valutazioni. Con Enrico e La Tempesta ormai si lavora insieme da molti anni, e mi trovo molto bene: non solo perché mi lasciano molta libertà e non interferiscono, ma perché lui è proprio una persona con cui è bello parlare, con cui è bello poter dialogare. Per certi versi è così anche con Francesco: in realtà lavoriamo assieme solo da quest’anno nel suo caso, ma ci conosciamo già da tempo. Anche lui è un grande appassionato di musica, abbiamo gusti che vanno in direzioni simili… insomma, non è solo l’uomo dei conti e della burocrazia. Poi c’è un altro aspetto che spesso si sottovaluta, nel lavoro del manager di un artista: essere un buon supporto psicologico. Qualcuno cioè che sai che puoi chiamare in qualsiasi momento, sapendo che troverà le parole giuste. E ti dirò, in tempi come questi si tratta di una componente ancora più importante. Perché stiamo vivendo la musica in maniera veramente “immateriale”, pare che esista solo su internet, solo se ti scrivono lì; mentre invece la musica per me è anche condivisione fisica, è uscire con gli amici e far sentire quello che fai accendendo lo stereo della macchina, o andare a vedere insieme un concerto. Poi oh, alla fine ti adatti a tutte le situazioni e ci siamo adattati anche a questa di isolamento sociale forzato, va bene, ma inizia sinceramente ad essere un po’ stancante.
In effetti: ha senso far uscire un disco adesso, a vita e “socialità” dimezzata, a partire da quella artistica? Non è che si perde qualcosa, a livello di impatto?
Enrico: In effetti attorno a questo punto c’è stata una discussione approfondita, ed anche accesa, con alcuni artisti, con altre etichette, con insomma i vari addetti ai lavori. Col senno di poi, parlo per La Tempesta, posso dire che sì, abbiamo fatto bene ad andare avanti e a pubblicare tutto quello che avevamo in programma di pubblicare. Sai, noi siamo una struttura semplice, agile, pienamente indipendente: possiamo fare insomma un po’ quello che vogliamo, e il fatto di essere così “presenti” sul mercato alla fine c’ha fatto sentire vivi. In tutta la sfera trap, per dire, so che le cose sono state vissute in maniera molto più complicata, magari proprio problematica: perché quello è un contesto che è basato pure su altre dinamiche, altri fattori… penso a sponsor, investimenti di un certo tipo, eccetera. Quindi sai: se Nike ti dà 100.000 euro per fare un video con le sue scarpe addosso, lo fa perché pretende che già dal giorno dopo per chi questo video lo guarda ci sia la possibilità concreta di uscire fuori ed andare a comprare le scarpe in questione. Coi vari lockdown e le limitazioni, questo meccanismo invece si inceppa. E allora ci sta che chi di dovere ti dica “No, aspetta”; tanto più che la trap è una musica che si ascolta tendenzialmente in compagnia, sui motorini, nelle piazze, magari pure in palestra, mentre la nostra musica è molto più potenzialmente “solitaria” come modalità di ascolto. C’è poi comunque da considerare un altro fattore fondamentale, ovvero quello dell’impossibilità di far seguire i concerti all’uscita del disco. Noi per dire abbiamo un disco già pronto dei Ninos Du Brasil: ma loro ci tengono veramente tanto ad andare in giro a suonarlo, a presentarlo dal vivo, e un concerto come il loro – ammesso e non concesso che si possano fare ora dei concerti – non ha molto senso se ci sono mille limitazioni e distanziamenti. Ogni artista insomma può avere le sue specificità, questo è il senso. Io personalmente però ti posso dire che sì, siamo molto contenti di non esserci fermati: numeri alla mano. Ho notato che boh, la gente è come se avesse un po’ più di propensione all’acquisto rispetto al passato… Si vede che tutte le birre non bevute al bar avranno lasciato quei 10 euro in tasca in più, sarà questo? Chissà. Anche se la crisi c’è, ed anzi sta per arrivare ancora più forte: speriamo di riuscire a superarla, tutti insieme.
(prima di cambiare lato dell’intervista, ecco “The Island”; continua sotto)
SIDE B
Lorenzo, è un disco che suona davvero bene, hai raggiunto una maturità a livello di suoni – e anche di competenza tecnica nel trattarli – che secondo me non avevi mai toccato prima.
Lorenzo: Grazie davvero per questo. Diciamo che sì, col tempo si cerca di fare le cose sempre meglio. Lo fai imparando, lo fai anche “aprendoti” agli altri: per me è stato importantissimo iniziare a collaborare negli ultimi anni con musicisti (che poi sono anche amici). Sono effettivamente molto contento di come suona “The Island”. Peraltro, è un disco che ha avuto tutta una sua personale evoluzione: alcune tracce nella stesura originaria risalgono ancora al 2017…
Però appunto, rispetto a “Solchi” mi pare un upgrade e penso che proprio l’esperienza di portare quel disco lì dal vivo con una band vera e propria sia stata molto importante – e credo che questa esperienza tu l’abbia in qualche modo portata nello studio, al momento di lavorare poi a “The Island”.
Lorenzo: In effetti in questo nuovo disco ci sono tante parti suonate, ma succede spesso che esse siano arricchite coi sample, così come succede che i sample siano arricchiti da parti suonate. O ancora: è capitato di prendere delle parti interamente suonate e trattarle però come se fossero dei sample – per dare quel colore “tipico” delle mie produzioni, quello che da sempre un po’ mi identifica.
Quando hai iniziato a fare la tua musica come Godblesscomputers, si trattava di un genere ancora “nuovo”, giovanissimo. Negli anni hai mantenuto la tua identità: non ti ho mai visto avere l’urgenza di inseguire le mode del momento e di adattarti anche un minimo ad esse. Insomma, è come se avessi strutturato un suono che ormai si può definire per certi versi “neo-classico”, molto riconoscibile e slegato dai tempi. Non voglio dire che sei un “vecchione da classic rock” solo traslato sull’elettronica, eh, ma è vero che il tuo punto di riferimento restano sempre più progetti come Thievery Corporation piuttosto che robe più recenti.
Lorenzo: Beh, Thievery Corporation… hai detto nulla!
Ma rischiamo di diventare noi, noi dell’elettronica di un certo tipo, i nuovi tradizionalisti della musica, come approccio?
Lorenzo: Questa è un dubbio interessante. Avendo io un’anima molto legata all’hip hop, al funk, al soul ed anche al dub, tutto questo assieme, è inevitabile mi senta legato a quello che succedeva negli anni ’90 in certa Inghilterra, o con Kruder & Dorfmeister, o i Thievery Corporation. Ovviamente io non è che mi metto a ponderare suoni ed influenze col bilancino: di musica ne ascolto tanta, ciò che fa da filtro è la mia personale sensibilità. La musica che faccio nasce nella mia testa prima di tutto, si sviluppa poi nel mio studio. Questo punto di vista su quanto noi si possa essere dei “nuovi tradizionalisti” è assolutamente interessante, ma prima ci devo riflettere un po’, per capire cosa pensarne davvero.
La domanda potrebbe anche essere: non è che stiamo diventando “adulti”, musicalmente parlando?
Lorenzo: Beh, se per “adulto” intendi uno che è arroccato sulle proprie convinzioni e non è interessato a quello che succede di nuovo nel mondo, no. Non mi sento tale. Seguo molto le nuove uscite, magari non tanto nel campo dell’elettronica ma molto per quanto riguarda jazz ed hip hop, lì sì. Mi piace l’idea di aver raggiunto una maturità, come musicista, ma non sono uno che ha iniziato a guardare con nostalgia al passato. Men che meno sono uno che pensa che pensa che le cose, così come sono fatte oggi, siano sbagliate o vadano in direzioni inappropriate. La musica è la somma di tanti fattori, anche contraddittori – ed è questo il suo bello.
Ma che effetto ti fa il fatto che l’hip hop – che è una musica con cui sei cresciuto – sia diventato il nuovo pop? Oh, credo di poter parlare a nome di entrambi: quando ci siamo avvicinati all’hip hop era un modo, anzi, forse “il” modo per essere alternativi e controculturali, per essere insomma una minoranza; ora è un po’ il contrario. La cosa ti riguarda fino ad un certo punto perché, come si diceva, tu vai tranquillo per la tua strada, va bene: ma dovendo dare un parere “da fuori”, come vedi questa situazione?
Lorenzo: Beh, bisogna fare molti distinguo. Ci sono tante cose nell’hip hop che hanno un grande valore e livello di produzione e composizione, e magari hanno messo in campo soluzioni ed invenzioni mai tentate prima, riuscendo poi anche ad evolverle; e poi c’è chi invece segue l’hype. Dobbiamo ricordarci sempre di una cosa: in linea di massima chi segue le mode prima o poi passerà, mentre chi ha lavorato su soluzioni originali o comunque non “facili” e le ha sapute sviluppare e mantenere fresche resterà. Hai ragione, la mia coerenza mi ha portato a non inseguire mai il suono-del-momento, sganciandomi completamente da questo tipo di dinamiche. Vero. E sì che avrei potuto seguirle queste dinamiche, eh. Anzi, ci tengo a specificare: io non ho nulla di prevenuto contro le ultime cose che stanno venendo fuori dal mondo hip hop. Magari alcune mi piacciono pure. E’ che semplicemente non si legano troppo al mio tipo di sensibilità artistica nel creare musica: le guardo, le ascolto, ma poi io faccio il mio.
Fai il tuo, ed è un “tuo” dove comunque resta sempre difficile sentire un mc che rappa sopra a quello che crei. Sbaglio?
Lorenzo: Qui bisogna fare una distinzione, e mettere in campo l’altra identità artistica che mi sono creato recentemente, ovvero Koralle. Koralle è una valvola di sfogo di totale libertà, lì dove invece Godblesscomputers – avendo ormai un suo seguito, e portandosi dietro un certo tipo di aspettativa – chiama in campo scelte più ponderate. Koralle mi fa sentire molto più libero nell’affrontare la materia dell’hip hop strumentale, così libero da aver anche finito col collaborare con alcuni mc internazionali. Tra l’altro ad un certo punto è finito anche in circuiti di nicchia ma piuttosto grossi sia europei che mondiali, ma rispetto a Godblesscomputers vorrei che restasse un percorso un po’ “nascosto”. Sai, per me è importante e benefico che restino due percorsi diversi.
Infatti la mia impressione, così a naso, è che Koralle sia andato anche molto al di là delle tue aspettative: hai mai avuto, o hai ancora adesso, la paura che si possa un po’ “mangiare” Godblesscomputers?
Lorenzo: In realtà, no. Anche perché se mai succedesse fermerei tutto! (risate, NdI) Mi piace l’idea che Koralle sia un progetto che mantiene vivo lo spirito iniziale, quello con cui ho iniziato a fare musica, quello con cui ho iniziato a fare i beat nella mia cameretta, con i miei vinili, il mio campionatore. E’ insomma una cosa molto intima e personale. E’ una valvola di sfogo. In più, è un progetto molto rivolto verso l’estero: paradossalmente, mi auguro che in Italia resti qualcosa di semisconosciuto.
Come sono state le prime reazioni al nuovo materiale a nome Godblesscomputers?
Lorenzo: Molto buone. Anzi, sarò sincero: non mi aspettavo che in questo periodo ci fosse così tanta attenzione, penso ai singoli che sono usciti prima dell’album – ed eravamo comunque già sotto la cappa della pandemia. Una cosa interessante è rendersi conto come, dopo anni di percorso, la tua fanbase cambi. Ed è naturale sia così, se ci pensi bene. Perché se io inevitabilmente ho sempre un rapporto strettissimo con la musica che faccio, non si può dire lo stesso di chi era mio fan tipo nel 2014: perché nel frattempo magari ha avuto dei figli, ha un mutuo, il lavoro, insomma, la vita gli è cambiata completamente, e forse non ha più tempo (o forse semplicemente voglia) di immergersi così tanto nella musica – nella fattispecie, la mia. Non ha più il tempo di andare ad un concerto, di seguirti. Quindi sì: se da un lato non mancano quelli che mi seguono dalla prima ora e continuano a farlo ancora adesso, al tempo stesso vedo molte persone nuove. Me ne accorgo dalla facce nei live, dai commenti sui social.
I social sono veramente così importanti, oggi come oggi, nella gestione di una figura artistica come Godblesscomputers?
Francesco: La gestione dei social di Godblesscomputers non è mai una gestione maniacale, ossessiva. E’ invece sempre molto calibrata, ponderata. Lorenzo poi è uno che si concentra molto sulla produzione di musica: quello ruba il grosso dei suoi sforzi, della sua creatività, della sua attenzione. Sono veramente pochi in realtà gli incontri in cui io e lui ci mettiamo a parlare della strategia da seguire sui social. La seguiamo, la curiamo, non è che sia lasciata al caso; ma se in altri progetti è fondamentale apparire il più possibile postando di continuo, con Godblesscomputers funziona che si cerca di mettere pochi contenuti ma validi, che siano in grado di dare un minimo di valore aggiunto. Meglio insomma un post in dieci giorni che racconti la storia che sta dietro alla cover di “The Island” che dieci post di fila fatti tanto per apparire, per non smettere di essere presenti nei feed, come invece fanno legittimamente altri. C’è un preciso flusso editoriale attorno alla figura di Lorenzo, e devo dire che l’entità “alternativa” di Koralle è utile anche in questo caso: perché è stata un flusso di produzioni che ha fatto da “valvola di sfogo” in un anno in cui, per cause di forza maggiore, non era possibile andare in giro a fare concerti come Godblesscomputers. Dovendo però riassumere in una frase: i social per un musicista sono importanti, sì, ma mai più importanti della musica, di quello che produci come artista.
Lorenzo: Nella mia evoluzione sia da persona che da artista il ruolo dei social è progressivamente cambiato. In passato ci passavo sopra molto più tempo ed esprimevo molte più considerazioni, mi riferisco soprattutto a Facebook; ma negli ultimi tre, quattro anni le cose sono cambiate. Ho smesso di frequentarli troppo, ed intervengo molto poco. Scrivo poco, leggo poco; e per giunta se devo leggere, leggo solo quello che mi interessa strettamente. Mi sono reso conto che il mettere in pasto la tua vita e la tua emotività può essere un’arma a doppio taglio: c’è chi ti conosce, e sa interpretare la tua sensibilità, e c’è invece chi non è proprio strutturalmente in grado, zero. Ho proferito allora dedicare più tempo prima di tutto alla musica, ma poi anche a ricerca, lettura, al trovare cose che mi stimolino ed incuriosiscano. Penso che in questo modo la mia vita sia migliorata: mi sento più equilibrato umanamente, e vivo le cose in modo molto meno negativo. Sì: probabilmente sono cresciuto. Mi sento in una fase molto buona della mia vita, sono molto contento di quello che sto facendo.
Foto di Guido Garotti