Mi vengono in mente le parole di un pezzo importantissimo dei CCCP, quando Lindo Ferretti canta che sia “una formalità / o una questione di qualità”. Il libero arbitrio ci distingue dagli animali, possediamo la coscienza di scegliere se agire in un modo piuttosto che un altro: esistono quindi codici di comportamento da seguire in alcune circostanze perché doverosi, in altre perché più opportuni o logicamente sensati. Ricoprendo un ruolo di rappresentanza, o anche solo godendo di un’autorevolezza tale da veder accreditata la propria opinione come influente per la collettività, questi costumi da osservare e rispettare si irrigidiscono ancora di più; sta ai “discepoli del profeta” comprendere che il “profeta stesso”, per quanto dispensatore di verità e bellezza creativa, rimanga un essere umano, quindi fallace e potenzialmente capace di compromettere la propria credibilità.
Pacou è un nome forte, storico, militante da oltre un ventennio nella scena techno di Berlino in cui è nato e cresciuto. Resident del Tresor, pubblica sull’omonima label del club sin dai primi anni Novanta; fonda la sua etichetta, produce senza sosta e gira il mondo coi suoi dischi, ascendendo all’Olimpo di quelli bravi e rilevanti. Un paio di giorni fa compie il gesto più comune del nostro millennio: pubblica un commento on line a un EP su una piattaforma di recensione musicale e, nel giro di qualche minuto, il potere mastodontico del world wide web trasforma quel commento in uno statement determinante per la sua carriera. Il casus belli ha ad oggetto un’affermazione di carattere razzista, sufficientemente fuori luogo rispetto all’esprimere un giudizio di merito su un prodotto sonoro. La frase suona personale, inappropriata, definisce l’artista dell’EP come un “sad immigrant” (il ragazzo in questione, peraltro, è italiano e di stanza proprio nella capitale tedesca).
Ne segue un polverone mediatico in cui il Tresor si dissocia dalla condotta di Pacou cancellandone la successiva gig fissata per il 20 aprile e troncando ogni relazione in modo netto: atteggiamento coerente con la filosofia del club e, più ampiamente, di un tessuto sociale come quello berlinese aperto all’accoglienza ed etnicamente fra i più diversificati, moderna America in cui sognare opportunità di cambiamento e sensibilizzazione. Pacou torna sui social media, esprimendo su Facebook cordoglio per l’accaduto, scusandosi pubblicamente e rimarcando la propria vicinanza alla causa dei migranti, di chiunque per ragioni economiche o politiche abbia dovuto affrontare l’abbandono delle sue origini. Come a dire: non certo il caso di quell’italiano lì, o degli altri che vengono a “succhiare” l’aura di Berlino (e quest’ultima cosa la scrive pure esplicitamente). Se possibile, si incastra peggio di prima lamentando la costruzione di una macchina del fango ai danni della sua immagine intenzionalmente ordita, riconoscendo l’errore commesso, ma comunque specificando che lui, il suo supporto, ai “real immigrants” lo ha sempre dimostrato.
(Questo è il pezzo della discordia, giudicate voi stessi; continua sotto)
Quali sono i “real immigrants”? Quali sono quelli falsi? Perché parlare di “immigrati” quando si parla di musica? L’arrampicata sugli specchi stringe il nodo alla gola di un personaggio noto trovatosi a dover giustificare un’opinione spigolosa, e sudando freddo per venirne fuori limitando i danni collaterali. Un po’ si contraddice: è evidente e percepibile il conflitto morale che attraversa nel doversi prestare a pubblica ammenda, perché evidentemente è necessario, pur provando a rivendicare come condivisibili, in minima percentuale, le sue ragioni. Il punto è che in origine non si sarebbe dovuti finire su un tema razziale e socio-politico, che di attinenza ne ha nessuna visto che si parlava semplicemente di musica: Pacou ha dimenticato per un attimo che chi ascolta le sue tracce avrà voglia di pari passo anche di ascoltare le sue parole, le sue idee, e che quando il tuo nome è equiparato a quello di quelli “di alto livello”, la deontologia richiede che tali parole siano esemplari. È una formalità, sicuramente; ma anche una questione di qualità nella misura del buon gusto e del rispetto umano e professionale.
(I due post di Pacou, uno dietro l’altro, in cui annuncia il “niet” da parte del Tresor, parlando anche di complotti, e poi prova a scusarsi e giustificarsi; continua sotto)
Già Konstantin, patrono di Giegling, due anni fa era stato protagonista di uno scandalo simile, avendo affermato in una intervista come le donne nel mondo del DJing fossero tecnicamente meno capaci degli uomini, godendo però di promozione maggiore per il solo appartenere al sesso femminile e dovendo, tuttavia, perdere le proprie qualità assumendo caratteri mascolini nel momento di agire in console. The Black Madonna, DISCWOMAN e la scena tutta avevano reagito ferocemente, condannando lo sciovinismo ed il triste exploit testosteronico, all’alba di un #metoo in cui Konsti aveva assunto le sembianze del Weinstein hollywoodiano. Tutti erano a conoscenza delle sue visioni di pensiero; pochi avevano avuto prima dell’episodio coraggio di discuterne in pubblica piazza. Anche per lui scuse ufficiali, pentimento, stop artistico a tempo indeterminato (…relativo, però). E ancora prima Ten Walls: che sul proprio account Facebook nel 2015 si era speso in una critica omofoba estremamente efferata, anche lui scordando che un canale di comunicazione, per quanto personale, raggiunto un certo livello di fama è un megafono al mondo di contenuti a propria firma, con un peso di un certo tipo. Faccenda che poi si era sviluppata così (nel frattempo lui ha ripreso a suonare, senza clamori e facendo le cose a modo).
Purtroppo non è possibile prevedere chi dirà cosa, quando o perché: gli artisti sono creature umane perfette solo nelle foto in bianco e nero su Resident Advisor. Possono inciampare, assumendosi a proprio carico le conseguenze di aver macchiato non soltanto la propria immagine, ma anche produzioni lunghe decenni e qualitativamente apprezzate. Il paradosso fondamentale è che episodi di violenza psicologica, verbale, morale, in un’epoca come mai prima attenta alla protezione dei diritti del singolo, si verifichino in un ambiente che è fra i più emancipati e tolleranti in assoluto, quello musicale. Se quella della techno è una comunità, i suoi membri sono cittadini attivi pronti a contribuire al bene comune e a difenderne l’equilibrio rendendo tale spazio privo di pregiudizi, di manifestazioni d’odio e repressione. Si pensi anche solo al caso della discesa in piazza a sostegno del Bassiani, all’attivismo contro la morte della vita notturna a Rotterdam, al rave organizzato per protestare contro la Brexit nel Regno Unito. La techno ha un significato politico nel senso etimologico del termine: quello di una polis greca in cui tutti sono sottoposti alle stesse norme, vivendo armonicamente ed agendo in prima persona perché il meglio sia comune e condiviso. In questo ambiente dalle porte spalancate ad ogni nuovo arrivato, si può esprimere un messaggio producendo tracce, organizzando feste in cui la creatività e la libertà sono visionarie espressioni di libertà, di rivoluzione. Anche la techno può cambiare il mondo, ogni volta che vince sulle forze del male.