In questo momento post “Syro”, in cui si spera si siano calmate le acque di hype o delusioni, dietrologie ed esaltazioni, possiamo dire che sia giunto a compimento l’invecchiamento (nel senso di maturazione completa) per quanto riguarda una scena elettronica che si è sempre vista storicamente come “nuovo/futuro/novità”. Una scena che, per questo, spesso è stata ghettizzata e trattata un po’ come il fenomeno sonoro “sofisticato/indecifrabile” che una volta passato di moda (attraverso i vari cicli e ricicli del famigerato “hardcore continuum” evocato da Simon Reynolds) è subito diventato o prescindibile o masturbatorio (o entrambe le cose) per una parte della critica underground più sul pezzo. Per non parlare poi di una critica rock/pop più istituzionale per cui questo blocco di scena elettronica inglese anni ‘90 è rimasto ottusamente “nuovo/futuro/novità/indecifrabile”. Sarebbe bello invece rigettare queste dicotomie inutili (“nuovo vs. fuori moda”…) e iniziare invece a capire meglio, ora che c’è una distanza sufficiente, l’eredità musicale lasciata da quegli artisti anglosassoni anni ‘90 influenzati da house, techno e dai primi rave.
In concreto stiamo parlando di una scena la cui musica un bel giorno, grazie a gruppi Usenet e mailing list (eh sì: la rete – non “l’internet” – c’era anche nel ‘91), si iniziò a chiamare Intelligent Dance Music: IDM. Termine che non solo chi vi sta scrivendo non ama, ma che fu subito rigettato dagli artisti stessi. Pensate che sul libretto di “Frequencies” dell’allora duo LFO (il cui unico titolare Mark Bell ci ha lasciato purtroppo pochi giorni fa, segnando l’ennesima grave perdita in campo “elettronico” del 2014) si parla solo di “house music” e si cita il giro acid di Chicago, roba concreta e sudata, con tanto di “Love Is The Message“: per certi versi quanto di più lontano dall’immaginario serioso che da subito quella maledetta parola “intelligent” messa lì davanti al “dance music” ha contribuito a dare. E se proprio deve essere immaginario mentale, che sia allora quello futuristico detroitiano (la famigerata techno di cui tutti oggi sono tornati fan…) di una compilation come “The Philosophy Of Sound And Machine“, sorta di sacro graal IDM in cui Kirk DeGiorgio e la sua A.R.T. si uniscono a Grant e Richard della Rephlex (che scelsero di descrivere il sound della loro etichetta come “Braindance”, a mo’ di dichiarata presa in giro del termine IDM). E’ il 1991, e dentro già ci trovate l’Aphex techno ambient (a nome Q Chastic e Soit PP) e quello puramente ambient come il “Blue Calx” che tre anni più tardi riapparirà intatto in “Selected Ambient Works vol. 2”. Ci trovate pure un Black Dog e futuro Plaid come Ed Handley (a nome Balil), a precedere molti sull’uso complesso di break e melodie (i Boards of Canada ad esempio), così come ci trovate giustamente un detroitiano illustre come Derrick May a remixare (per ribadire da dove partivano questi inglesi). La cosa curiosa è notare come si somiglino un po’ tutti in quella raccolta, e come invece già inizino a differenziarsi nella più spigolosa (merito degli Autechre) ed esplicitamente d’ascolto casalingo post-club (come da missione Warp) “Artificial Intelligence vol. 1“. Ad ogni modo, per quanto a volte ci siano stupendi squarci di “pura” techno futuribile, quelli di queste due compilation sono i primi esercizi su una techno (e su di una elettronica industrial inglese) da cui mano a mano avverrà un distaccamento definitivo. Dal giro di ex-raver radunatisi sotto la bandiera Warp avremo la visione completa di una nuova psichedelia elettronica, autonoma rispetto a qualsiasi funzione sia danzereccia che di ostentata avanguardia elettronica. Inutile datare precisamente quando avviene questa autonomia, questo distaccamento: ci piace pensare al 1995 come l’anno della vera indipendenza sonora, volendo giusto tirare fuori una data. Abbiamo gli Autechre, che iniziano a dedicarsi alla loro famigerata fredda complessità ritmica e timbrica in “Tri-Repetae” e da li non si fermeranno più squagliando software e macchinari come se non ci fosse un domani; o Luke Vibert che tramite il suo progetto Plug spinge Aphex Twin (fresco del capolavoro “I Care Because You Do” e del doppio onirico – “ipnagogico” si direbbe oggi – “Selected Ambient Works vol. 2”) ed un ancora sconosciuto Squarepusher ad adottare e liberare i break jungle, allora davvero onnipresenti in UK, facendolo senza regole alcune: c’è chi l’ha chiamata “drill’n’bass”.
Luke, Richard e Tom. Chi è stato il primo a drillare?
Non si tratta però solo di complessità e virtuosismi, ma di vera e propria libertà creativa tecnologica partita dai rave (e dalla propria stanza) per giungere a nuovo tipo di psichedelia contemporanea. La cosa è evidente in un disco come “In Pine Effect” di Mu-Ziq in cui si passa tranquillamente e coerentemente da ballate bucoliche, a buffe sigle tv, a distorte scorribande ritmiche – il tutto ha decisamente un sapore “primi anni ’90”, ascoltato con le orecchie di oggi. Con l’avvento poi dei comodi pc portatili (laptop) a partire dalla seconda metà di quel decennio, tutto l’operato di questi artisti e dei tanti affiliati si accelera ulteriormente, il loro mondo in qualche modo si “compatta”: il linguaggio che ne scaturisce è quello di un trip sonoro che corrisponde alle loro fisse tecnologiche, ai loro videogiochi, ai loro rave, alle loro droghe. Qualcosa di strano e bizzarro che corrispondesse all’esser cresciuti con già trent’anni di musiche alle spalle: non c’erano internet e l’accesso istantaneo a tutto, ma c’erano comunque bombardamenti sempre maggiori di suoni, siglette, rumori da tv, console, radio e quant’altro. Per la prima volta tutti questi stimoli potevano essere finalmente imbrigliati in strumenti su cui smanettare in indipendenza e libertà, anticipando quella dimensione liquida e impalpabile che adesso diamo per scontata.
Oggi, ci troviamo quasi vent’anni dopo quel ‘95, è finita l’era dei rave (tranne poche sacche di resistenza); ma tutto il resto su cui Warp e co. hanno costruito questo linguaggio elettronico non solo c’è ancora ma è addirittura aumentato esponenzialmente, in una maniera che pochissimi riescono a controllare e contenere. L’invito è quindi quello di rifiutare tutta la pappardella preconfezionata sull’IDM. Adesso, ad acque ormai calme, è forse molto meglio e più soddisfacente ragionare per singoli artisti, etichette, e gruppi di artisti. Così potremmo vedere una continuità maggiore tra l’operato di questi pionieri e tutto ciò che invece è stato il post-2000 (…quindi il post-rave). Prendiamo un personaggio fondamentale di oggi per tutto il filone “bass” come Kode 9 (la cui prima uscita avvenne non a caso su Rephlex): la sua Hyperdub – insieme ad altre, ma più delle altre – ha portato in casa sotto forma di album tutta la nuova generazione grime/hardcore, riallacciandola al passato e lanciandola nel futuro. Soprattutto, Hyperdub ha avuto in Burial non solo e non tanto uno dei primi lp dubstep ma anche e soprattutto il rinnovamento di un discorso di musica “di ritorno dal club” (e ricordo di esso), iniziato proprio dalla Warp con la serie “Artificial Intelligence” già menzionata. Non stupisce quindi che proprio da questi contemporanei lidi post-dubstep (considerati da molti erroneamente come anti-IDM) crescano artisti come Objekt, uno che è passato dalla UK bass / techno della Hessle Audio ad autechrismi con acidi aphexiani in uno split (non a caso) con Dopplereffekt (dispiegando questi ultimi al massimo nel suo lp di debutto su PAN). O ancora: naturale osservare lo spirito giocoso più libero della Warp rappresentato giustamente da un Flying Lotus partito da istanze e background sì diversi dalla “generazione rave”, ma dalla simile attitudine famelica, turbocompressa e iperdettagliata. Fautore di una visione futuristica tra psichedelia videogiocosa e spiritualità jazz, FlyLo ha liberato ritmi hiphop e cultura black americana in un mare liquido digitale su cui ha posto alcuni luminosissimi fari, grazie anche all’attività della sua Brainfeeder (nome molto rephlexiano fra l’altro). Abbiamo fatto due nomi di cui avrete letto fino alla nausea (Hyperdub è al suo decimo compleanno, Flying Lotus è giunto ad un ambizioso quinto disco) per farvi capire che le novità stanno altrove e che molti hanno già raggiunto una maturità tale da potersi confrontare con campioni del passato. Il suono nuovo, la rivoluzione non è da cercare solo ed esclusivamente in artisti che venti/venticunque anni fa hanno già dato (e hanno dato pure incredibilmente tanto); non sarà il ritorno di Aphex che come per magia salverà, con chissà quale nuova trovata, tutta l’elettronica in un solo utopico sogno rave. No. Sta piuttosto a noi ascoltatori e fruitori navigare e prendere il meglio da microscene odierne apparentemente disgiunte tra loro che (in album, in festival, in djset, in mix/playlist da streaming, in etichette) devono tutto al modus operandi di quella gente che ora giustamente sta nel salotto tranquilla con i propri figli a raffinare un linguaggio ormai classico.
E comunque. Se amavate l’Aphex che vi sorprendeva ad ogni uscita e non accettate la rilassata, magniloquente classicità di “Syro” che fa riferimento alla braindance rephlexiana (quindi a se stesso), sicuro vi piacerà “Tomorrow’s Harvest” così apocalittico e attuale con il suo gancio “carpenteriano” ma autonomo e spanne sopra qualsiasi giovane retro-waver; e se invece vi dirà poco l’operato dei Boards Of Canada nella loro ultima sortita (ancora voci di bambini che elencano i numeri?), allora non potrete fare nulla contro un doppio album monolitico come “Exai” che ci dona gli Autechre più sperimentali e al contempo più completi e risoluti di sempre. A questi over 40 di una Warp in piena celebrazione e ad ogni modo sempre in salute, ci potete affiancare Mike Paradinas (Mu-Ziq) che con la sua Planet Mu non ha mai smesso di tessere un filo continuo che dalla breackcore/IDM è arrivato (via dubstep e tanta psichedelia acid elettronica…) alla scoperta e diffusione della footwork, così come è meritevole anche il suo ritorno in prima persona (con “Xtep” e “Chewed Corners”) alle sue classiche melodie stavolta innestate felicemente su bolle bassose di 808. E se Squarepusher pare perdersi troppo spesso in un egotrip che lo porta a orribili esibizioni solo basso, a pessime finte band electropop (Shobaleader-One), a stucchevole prog-fusion per robot, e invece a tentativi riusciti di rifarsi una vita giovane (“Ufabulum”), possiamo in ogni caso goderci la maturità compositiva raggiunta dal suo fratellino raver-nerd Ceephax, che l’anno scorso con “Cro-Magnox” ha sbaragliato qualsiasi concorrenza electro/lo-fi house nata in seno alle attuali hypate scene di ex technoni ed ex noiser (rubando forse persino agli stessi Boards of Canada il primato per le miglior melodie e miglior “paddoni” morbidoni).
Purtroppo non tutti ce la fanno. Vedi la Rephlex smantellata l’anno scorso dal suo titolare Grant-Wilson Claridge, che al massimo riappare in maniera carbonara con numeri di serie separati per ogni singolo artista (per ora Aleksi Perala/Ovuca e la sua “Colundi Sequence” / “AP Musik“; Jodey Kendrick e il suo “EDM Trip“; i fratelli D’Arcangelo con “Audiovisual Designs”) e produzioni limitate in base a pre-order. Questo tipo di fine ha purtroppo un suo senso nel panorama super brandizzato dell’attuale musica indipendente: la Rephlex ha veramente puntato sempre tutto sulla musica con vero spirito autarchico rave, e ora che questa estetica è (apparentemente?) finita ha restituito tutto al puro underground, essendo la sua estetica impossibile da pubblicizzare a qualche massa che ha bisogno di una precisa direzione monomaniacale (spettacolare?) su cui puntare il proprio desiderio. Prima di sparire completamente la Rephlex però ci ha salutato, sempre nel 2013, con un album di cristallina classe electro futuristica tutta italiana: il delicato “Good Programs (To Be Coloroud In Yellow)” del maestro analogico Bochum Welt e (anche se non più ufficialmente Rephlex) ci vogliamo mettere in questo elenco anche il summenzionato doppio “Audiovisual Designs” di D’Arcangelo, veramente un gioiello da amare e tenersi stretti (un primo cd da ascolto più melodico da bagno di luce neon cyberpunk ed un secondo più secco e sperimentale votato ad astratto electro-funk). Questi due artisti italiani li scegliamo anche per darvi l’idea di cosa si è perso chi non ha seguito con attenzione le varie uscite “Analord”, o le avventure (forse non sempre riuscite in quanto il mood è troppo sul “frustrato/involuto”) di The Tuss. Così come magari ci si è fatti sfuggire le giovani leve electro-acid (anzi “braindance”…) allevate da Rephlex: come ad esempio Monolith, Jodey Kendrick ed EOD. Ché il suono post-rave non è (e non può essere) solamente quello laccato tutto sound design da sfilata di moda in HD di (ad esempio) Zomby, o da relegare ad operazione concettuale d’avanguardia come (il pur ottimo) Diversions di Lee Gamble: con certa musica è sempre bello anche poterci giocare, senza prendersi eccessivamente sul serio.
Concludendo: oggi con la giusta prospettiva possiamo goderci la goderci la saggezza degli ex raver senza chiedere loro (di nuovo) l’impossibile, così come possiamo possiamo goderci la creatività dei loro “figli” che sono ripartiti da zero su nuovi spazi ritmici perfezionando strade poco battute ma anche l’incoscienza dei “nipotini” che ascoltano rapiti le storie dei propri nonni mentre pasticciano con l’attuale mondo iperconnesso. Tutto questo è partito da artisti che, se chiusi nella definizione IDM, sarebbero dovuti rimanere la “novità” e non avere quindi un vero futuro, o almeno la possibilità di essere storicizzati (e quindi liberamente reinterpretati). Se ora si è tornati ad essere interessati a certi suoni, vi preghiamo, non chiamatelo “revival dell’IDM”: perché l’IDM non è mai esistita, almeno come monolite, e contemporaneamente quel tipo di ricerca non si è mai fermata. Al massimo, è tornata per anni sotterranea, dopo un’overdose di informazioni sonore fin troppo grande. Overdose che stiamo digerendo solamente adesso.