Inutile nasconderlo: abbiamo atteso con grande trepidazione l’ultimo di Clark.
Chi scrive, infatti, non può non ammettere quanto sia profondamente legata a tanta, tantissima, produzione sfornata da una label rivoluzionaria come la Warp. Rivoluzionaria per quanto è riuscita a costruire negli anni ’90, visto che, a partire dal secondo millennio, tante uscite sono state di alta qualità, ma poche sono riuscite a segnare profondamente un fase storica. Com’è naturale avvenga per ogni fenomeno eccelso: si vola alti, ma poi si deve pure riatterrare da qualche parte.
Comunque, nei suoi aspetti rivoluzionari, la Warp lo è stata talmente tanto da riuscire a dare vita ad un vero e proprio universo sonoro riconoscibile dopo pochi istanti – deviato, oscuro, angosciante, onirico, seducente, misteriosamente carezzevole, violento, folle, a tratti ironico, equilibrato nel suo squilibrio – in cui praticamente ogni deriva elettronica si è felicemente amalgamata con il meglio della scena techno-rave, jungle, electro ed ambient. Clark, come pure Aphex Twin, Squarepusher e Plaid, per citare alcune glorie della label, si sono fatti conoscere ed amare proprio per tutte le caratteristiche sopra elencate, ognuno mantenendo una precisa identità sonora, pur pescando proficuamente dal serbatoio warposo comune.
Clark in particolare ci ha abituati a seguire caotici e seducenti sentieri filo-techno in cui abbiamo sempre trovato conforto (grazie alle componenti ambient) e pane per i nostri denti (in quanto a ritmiche ben piazzate e melodie tra il dark e il sognante). Ci siamo innamorati di molti suoi “intermezzi”, brevi tracce capaci di scavare un baratro emozionale di bellezza inaudita. Abbiamo goduto delle sue discese nei più dolci purgatori, in cui il malsano accarezzava con tenerezza l’ambientale, beandoci di quanto tale schizofrenia musicale potesse condurci a stati psico-mentali non da poco conto.
Tirati su così viziati, ci siamo finalmente messi all’ascolto di “Death Peak”, il suo ultimo lavoro, uscito lo scorso 7 aprile. Ciò che ci sentiamo di poter affermare è che ci è parso di ritrovarci dinnanzi un Clark nuovo.
Badate bene: le novità non ci spaventano affatto – anzi! Permangono la trama techno, i beat di forte impatto, le distorsioni sonore molto warpiane; permane pure la struttura viaggiosa, ma con benda sugli occhi (…quel procedere ignari di ciò che ci attende, tutti fiduciosi nella nostra guida che ci tiene per mano, pronti a sperimentare lo sperimentabile senza paura). Ciò che di nuovo si insinua nel tutto è una componente “rassicurante”, quasi romantica. Per arrivarci, Clark ci invita inizialmente a goderci le prime tracce che, tolta la prima – uno dei suoi cosiddetti “intermezzi” – sono un inno alla fisicità, quasi al benessere, ma senza fronzoli sentimentali: sono ballabili, hanno la giusta dose di verve techno e le componenti sonore deviate, come la super classy “Butterfly Prowler”, con le sue distorsioni pepate e il groove parecchio clubbettaro ma con estro, o la deliziosa “Peak Magnetic”, in cui aleggia un’atmosfera “happy” che ci conquista subito per sapienza ed ironia e dove il finale a sorpresa ci lusinga alquanto. Oppure “Hoova”, a nostro avviso una delle tracce migliori dell’album, con la sua trama a più strati, dove un martello techno della migliore scuola Uk 90s lascia spazio a linee di synth taglienti ed isteriche, per poi farsi ambient, carezzevole e pure condita da angeliche vocine. O un pezzo come “Slap Drones”, dove il titolo potrebbe quasi spaventare, soprattutto se scelto da un “giocherellone” come Clark, mentre alla fine si rivela per nulla schiaffeggiante. La sua è una progressiva evoluzione che la porta a farsi techno, poi electro-astratta, con ad un certo punto l’entrata di un ritmo flamenco, quasi impercettibile, inserito e tolto quasi in un respiro, per giungere ad un finale di gagliarda techno industrial. Forse la traccia migliore, perché Clark ci piace imprevedibile, sporco, intenso, ironico e dark, apprezzando sì le sue derive poetiche, purché incorniciate dal giusto contesto. Sottolineiamo ciò dato che per la prima volta, avvicinandoci alla fine dell’album, riscontriamo in Clark delle componenti che quasi ci infastidicono. Non per cacofonia o manierismi, ma proprio per il contrario: lo troviamo quasi troppo sentimentale, come si trattasse di un Clark debilitato dal troppo “rave on”, desideroso di lande più pacifiche, eteree.
Nello specifico, ci turba l’overdose di vocalizzi effettati, che iniziano a farsi sentire, senza dare troppo fastidio, nella sopracitata “Hoova”, ma che in “Aftermath”, “Catastrophe Antheme” e “Living Fantasy” ci lasciano sinceramente un po’ perplessi. Non perché siamo dei bruti senza cuore, o perché ricerchiamo testardamente in ciò che ascoltiamo le tipicità dei sound a cui siamo avvezzi, tipo la poetica angoscia di tanta produzione clarkiana. E’ perché ci pare Clark esageri, senza ironia, con sincero pathos. Ora, non vogliamo essere nemmeno mal interpretati: non stiamo assolutamente asserendo che il nostro Clark si sia dato a del pop sentimental kitsch tutto vocine ammiccanti, ma non possiamo tacere quanto provato durante l’ascolto degli ultimi pezzi: fraseggi vocali leggiadri, cori di fanciulli e dolci nenie, tutti parecchio agglomerati sul finire del disco, ci richiedono pazienza e tolleranza. E ci viene da chiederci cosa abbia portato tanta luce e tenerezza in quell’universo in cui avrebbe potuto sì regnare della sognante poesia, ma magari non spalmata di miele. Preferiremmo infatti un Clark più oscuro, meno melodico; questione di gusti, forse anche di maledetta abitudine. Per smorzare i piccoli fastidi provati, ci corre in aiuto “Un U.K”, pezzo finale che salva dalle tenerezze dei tre brani precedenti grazie alla sua struttura metamorfica, imprevedibile, seducente; incontrollabile come la materia bislacca di cui sono fatti i sogni.
Ci fa comunque piacere l’idea che questa svolta/evoluzione di Clark, seppure non macroscopica, possa avvicinare al suo universo anche un nuovo tipo di pubblico (col successo crossover che ha arriso a gente come Four Tet, Burial Gold Panda), dato che questo potrebbe solo fargli del bene. Continuiamo infatti a pensare si meriti tutta la stima possibile e riteniamo “Death Peak” un album molto al di sopra della media, nonostante certe sue pecche sentimentaliste. Clark continua ad essere uno degli artisti più interessanti entro il fascinoso e poliedrico calderone Warp – e non solo. Ma ecco, magari levategli le vocine di troppo.