Visto che la maggior parte delle persone che leggono questo blog è nata ben oltre gli anni ’70 dei mitici festival rock, l’amenità di certi rimandi tardo bucolici risulterà fuori luogo.
L’Arcadia della contemporaneità europea per 3 giorni ha avuto fissa dimora al Parc del Fòrum di Barcellona. Magari risulterò impopolare, ma l’assoluta assenza di fattanza all’interno di una manifestazione di tali dimensioni è stata tra le più piacevoli scoperte.
Il Primavera Sound 2010, oltre ad offrire molto del meglio del panorama musicale presente e futuro, è un’esperienza di condivisione che in certi lidi ci sogniamo.
In un’area prospiciente il mare, dall’architettura vagamente post-industriale, con un tramonto impagabile e tanta bella gente intorno, si sono succeduti almeno un centinaio di gruppi e interpreti della new wave rock e pop mondiale, in tutte le sue sfumature. Dall’elettronica al reggae, dal folk al noise.
Fare un report di tutti i live sarebbe impossibile, soprattutto avendo 30 anni e la schiena a pezzi. Col senno di poi sappiamo di aver perso certamente molto, magari il meglio.
Eppure. Eppure tra il pop orchestrale (per numero di elementi e composizione musicale) dei Broken Social Scene, la dance alternativa dei Delorean, il noise dei Fuck Buttons, l’indie puro dei Pavement, si innestavano con precisione il mood oscuro degli XX, il punk rock dei Big Pink (seppure con problemi di sound check), i coretti in falsetto dei superlativi Wild Beasts e la sorprendente carica dei ballabili Sleigh Bells. E questo solo per il primo giorno.
Imperdibile Victoria Legrand, la Lady Oscar con voce baritonale che milita nei Beach House (a luglio a Roma, non perdeteveli, vi stregheranno), i classici Pixies (su tutte la versione live di Caribou), la classe acustica e corale degli Yeasayer (addirittura colonna sonora delle pause infra-live di questa edizione con Ambling Amp). Deludente il cervellotico Panda Bear. L’arena straripante si è afflosciata rapidamente. Divertente il pop di Spoon e Dum Dum Girls.
Da non perdere il trash punk-raggae-ska delle attempate Slits, vestite come per andare a fare la spesa. Esilarante performance dei fighetti Drums, pupilli (a ragion veduta) dell’enfant terrible della moda Hedi Slimane.
Built to Spill da menzionare fra i migliori. Vero roots americano fatto come si deve.
Impossibile non citare lo spettacolo faraonico messo in piedi dai Pet Shop Boys: cubi post-sovietici, animazione psichedelica, proiezioni abbaglianti e una marea riconoscente che cantava all’unisono.
E dal momento che da scrivere resterebbe ancora troppa roba, la finisco qui.
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