“In fondo, fra Amsterdam e Milano non dovrebbero esserci troppe differenze, no?”. Vero. Nelle dimensioni (oddio la capitale olandese fa la metà degli abitanti della metropoli lombarda), nella propensione europea, nell’economia che si poggia su un terziario avanzato (moda, architettura, commercio, finanza…) – ed è inutile che fate ironie sui coffee shop, perché tanto salvo colpi di scena dal primo gennaio 2013 ci potranno andare solo i residenti olandesi, o forse no.
Bene. Immaginatevi una Milano (o una Roma, una Firenze, una Bologna, una Napoli…) che per quattro giorni mette in circuito settantacinque (sì: settantacinque) club grandi e piccoli più qualche location particolare, luoghi diventano un tutt’uno mettendosi in rete fra di loro e proponendo tutti quanti eventi a getto continuo. Ve la immaginate? Noi no. In Italia abbiamo le nostre eccellenze, per carità, sulle pagine di Soundwall ve le raccontiamo spesso e volentieri, ma ciò che veramente ci causa invidia marcia non è tanto la dimensione numerica dell’Amsterdam Dance Event quanto il supporto che la città tutta, a partire dalle istituzioni, dona a questo evento (…l’ADE ricambia portando qualcosa come duecentomila visitatori).
In Italia abbiamo Vercelli che snobba Jazz:Re:Found, una parte di Foligno che ignora o fa la guerra a Dancity, Milano che accetta Elita solo perché è durante il Salone del Mobile e lì vale tutto… Giusto Torino con Club To Club un po’ si sbatte (e magari non è un caso che il festival torinese sia cresciuto così tanto, no?). Invece, cammini per le bellissime strade che costeggiano i canali di Amsterdam, e l’ADE è ovunque. Discretamente, ma ovunque.
Una sensazione bellissima, perché l’ADE – in qualche modo – siamo noi. Ovvero: la nostra cultura, i nostri gusti, i nostri eroi, le nostre abitudini, le nostre conoscenze, le nostre idee sulla creatività in musica e non solo. Ciò che in Italia è ancora visto con sospetto o liquidato come “discoteca” (coi patetici tentativi dei vari Sindacati Del Ballo E Dei Localari di difendere il decrepito e l’indifendibile, dicendo che di volta in volta i problemi sono i rave, i centri sociali, i disco pub…), ad Amsterdam per qualche giorno diventa invece protagonista numero uno. Con la piena dignità di un festival per dire di musica classica, o di un grande summit politico. Una sensazione bellissima. Chissà per quanto tempo ancora per respirarla a pieni polmoni saremo costretti a varcare i confini di casa nostra. Chissà.
Ma cos’è e come funziona di preciso l’Amsterdam Dance Event, per chi non c’è stato mai? Più che un festival vero e proprio, è un network di eventi che dura giorni e percorre tutta la città in cui si può trovare di tutto, ma veramente di tutto. Dalle commercialate mainstream (a partire da quel circo da carnevale nonsense che è diventata l’annunciazione della top 100 di DJ Mag, all’ADE rivelata in anteprima) fino alla breakcore negli squat, con poi tutti i gradi intermedi – e tutti questi gradi vengono trattati con pari dignità, perché si è consapevoli che in una manifestazione che vuole essere lo specchio di tutto un mondo, molti sono i gusti e le direzioni in campo. In Italia, diciamolo, un fan di Ceephax Acid Crew direbbe “Minchia che merda, ma in programma c’è pure Laidback Luke, che venduti, non sono dei veri amanti dell’elettronica”; beh, quando sei lì all’ADE, magari col programma in mano, di queste contrapposizioni te ne fotti, hai come la percezione – indotta forse anche dallo spirito che permea la capitale olandese, rilassato e tollerante – che tutto è lecito ed è giusto che ognuno abbia il suo. Tu hai Ceephax, lui ha Laidback Luke. No? E siamo tutti contenti.
C’è poi un’altra componente dell’ADE molto importante: quella diurna, slegata dai live e dj set in sé ma legata invece a workshop, panel, eccetera. Qui non è una faccenda smisurata, ci si concentra essenzialmente in due edifici uno attaccato all’altro – l’Hotel Dylan, il Felix Meritis, vicino al bellissimo quartiere dello Jordaan – ma si ha veramente la sensazione che noialtri, noi del clubbing, siamo diventati una cosa seria. Ci si vede per ascoltare le conferenze (non è per tutti, un costo da vera e propria fiera altamente specializzata: 215 euro l’ingresso) ma anche per conoscersi, parlare d’affari, proporre festival e booking. Proprio come una fiera vera: si è lì per lavoro. Con la differenza che non ci sono gli inutili gigantismi delle fiere tradizionali, ma è tutto più agile, più veloce, più essenziale, meno inutilmente formale: esattamente le caratteristiche culturali che connotano il clubbing, ora che da decenni il rock è un dinosauro, la classica è ostaggio degli ottantenni, il jazz dei cinquantenni e il pop dei cinici profittatori. Conosciamo bene la fiera musicale per eccellenza, il MIDEM di Cannes: le volte in cui ci siamo andati ci è sembrato progressivamente un cimitero degli elefanti. Allegria. O per meglio dire: per favore, pietà.
In più, all’ADE non abbiamo visto – o abbiamo visto pochissimo – il sottobosco molto house anni ’90 che ha infettato la Winter Music Conference di Miami, con loschi o cialtroni promoter di serate house che provano a venderti loro “cuggino” spacciandolo per una super mega star, o che comunque fanno poca differenza tra Gigi Dag e Blawan. In Olanda ci si vede, ci si parla, si va sull’essenziale, si stringono accordi ed alleanze. Poi ci si distrae con qualche panel o workshop particolarmente riuscito, come quello – divertentissimo e cazzeggiatorio – in cui Dave Clarke si diletta a dirigere una giuria formata sul momento e molto sfaccettata (da Mauro Picotto a Laidback Luke passando per DJ Pierre – detto così pare un’allucinazione) che ha il compito di ascoltare e recensire in tempo reale e di fronte ad un folto pubblico dei demo ricevuti, con gli autori dei suddetti demo presenti in sala (grazie a questa cosa abbiamo scoperto che Dave Clarke è anche molto simpatico, non è il mezzo stronzo scontroso che spesso ama far finta di essere).
Insomma, se si vuole vivere in profondità e in maniera professionale il clubbing e la club culture l’Amsterdam Dance Event è un appuntamento imprescindibile. Perché anche se non avete un’etichetta, non siete un dj, non ve ne importa nulla di organizzar serate, vedere come una città signorile quale Amsterdam tratti la club culture, ovvero come ci tratti, è un’esperienza che apre la mente e conforta molto.
Conforta poi moltissimo anche un’altra cosa: ritrovarsi in club o meravigliosi o comunque molto interessanti che sono tutti, e intendiamo tutti, con un sound system ad altissima qualità. Può essere una chiesa sconsacrata dell’800 come il maestoso e fantastico Paradiso, il sogno di ogni organizzatore di concerti e di eventi, ma può essere anche un mezzo squat nella corte interna di un condominio come l’OT301 (dove abbiamo visto ciò che è praticamente impossibile beccare in Europa: Jeff Mills che suona in un club da 300 persone, non di più, per giunta per sei ore di fila permettendosi di fare di tutto di più): il risultato non cambia. Ma poi che dire del Trouw e del Melkweg, due luoghi dove la musica si sente probabilmente meglio che al Berghain, in strutture riadattate con grande intelligenza a misura di clubbing, appunto, intelligente?
Insomma, la qualità esiste. Esiste la professionalità. Esiste il supporto delle istituzioni. Esiste la possibilità di trattare ‘sta-cosa-della-discoteca come un fattore altamente sofisticato, culturalmente nobile ed economicamente produttivo per la collettività. Questo è ciò che è più importante, come eredità dell’ADE. Poi sì, abbiamo visto Mathew Jonson nella sua nuova collaborazione coi Minilogue (così così, non c’è ancora la giusta alchimia fra loro, si peggiorano per ora a vicenda), abbiamo visto tutta la squadra Delsin e Rush Hour (elegantissimi e pieni di classe, tra house, deep e richiami Detroit: grandi), la cricca Wolf+Lamb (in buona forma), Jeff Mills come già detto in versione party abusivo in uno squat, la serata breakcore, l’after con Speedy J sugli scudi; avremmo poi potuto vedere miliardi di altre cose ancora; ma tutto ciò passa in secondo piano. L’ADE è un’occasione perfetta per riflettere su stessi, su quello che la club culture è diventata e sul modo in cui essa può e deve rapportarsi col mondo “normale” (o di come essa possa diventare una delle parti più interessanti proprio del mondo in questione).