Franco D’Andrea Electric Tree è il nome del trio composto da uno dei migliori pianisti contemporanei assieme a DJ Rocca (anima del mitico Maffia Soundsystem e tra i primi divulgatori italiani delle sonorità bass) ed Andrea Ayassot (da molti anni nel quartetto di Franco D’Andrea e nel quintetto Quilibrì). Un progetto nato quasi per caso, nella trasmissione ‘Musical Box’ curata da Raffaele Costantino su Radio2, e diventato un progetto live e di produzione curato da LBL, in uscita su Parco Della Musica Records. Per conoscerlo meglio abbiamo rivolto alcune domande a Raffaele Costantino in rappresentanza di LBL e altre a Franco D’Andrea.
Ci racconti come è nato il progetto LBL e con quali intenti?
Raffaele Costantino: Il progetto LBL è nato dall’incoscienza. Come Snob, MIT, This Is Rome, Musical Box, etc… Nasce tutto da uno scarso livello di concentrazione. Personalmente non riesco a concentrarmi su un singolo progetto per molto tempo e dopo qualche anno sento il bisogno di nuova linfa, nuovi stimoli. Così insieme ai soliti amici con i quali lavoro da tanto tempo, abbiamo deciso di aggiungere alle tante cose da fare un nuovo livello di entusiasmo. La produzione. In questi anni ognuno di noi ha maturato la necessità di produrre quello che vende, perché alla fine di mercato si tratta. LBL arriva nel mercato della musica creando dei progetti musicali inediti, unendo i know how di chi di noi arriva dal jazz, dall’elettronica, dall’hip hop e, negli anni, ha saputo amalgamare queste culture molto affini tra di loro senza incasellarle in generi precisi. Con questo approccio abbiamo pensato di creare dei progetti musicali nei quali questi elementi confluissero su nostra commissione. E questo è il lato etichetta, che poi si sviluppa in management di questi musicisti, in cura della loro immagine e promozione, ma anche nel booking quando proprio siamo costretti. Insomma una filiera completa messa a disposizione di creature musicali che noi stessi generiamo, insieme ai musicisti coinvolti.
Un festival fondamentale come MIT che cambia modalità di programmazione e diventa, tra le altre cose, anche una etichetta per Parco Della Musica Records. Puoi condividere con noi qualche riflessione su questa progressione?
Raffaele Costantino: A un certo punto mi sono stancato della formula festival, sia da organizzatore che da fruitore. Non voglio dire che chi organizza i festival sbaglia, anzi. Io stesso ancora collaboro come consulente o come semplice amico di tanti festival e sono partner con Musical Box della maggior parte dei festival in Italia, ma non intendo più sprecare le mie energie di gran parte dell’anno per un evento che si svolge per soli due o tre giorni. Dopo le tante cose fatte mi è venuta voglia di lavorare a progetti che abbiano una durata più costante e soprattutto che lascino qualcosa anche dopo. Ecco ad esempio perché l’etichetta. Da consulente dell’Auditorio Parco della Musica di Roma mi sono concentrato ad aiutare la struttura ad essere al passo con i tempi. Sempre, ogni giorno, non due volte all’anno.
Da curatore e direttore artistico ci avrai pensato molto. Come hai scelto gli artisti per Electric Tree?
Raffaele Costantino: È venuto fuori tutto da un contest fatto a Musical Box, la mia trasmissione su Radio2. Un contest nel quale invitavamo i nostri ascoltatori smanettoni a remixare un pezzo del maestro Franco D’andrea. Hanno partecipato in tanti: producer da cameretta ma anche tanta gente affermata, incluso il mitico DJ Rocca. Abbiamo consegnato tutti i remix al maestro che, oltre ad essere un essere umano meraviglioso è anche un artista dalla sensibilità divina, e lui ha individuato in quello di Rocca la reinterpretazione perfetta. Da quel momento in poi tutto è venuto fuori in maniera naturale, li abbiamo fatti conoscere e Franco ci ha chiesto di provare ad unire un terzo elemento consigliandoci Ayassot. Mai scelta fu più azzeccata.
Dal tuo punto di vista quali sono i fattori che rendono imprescindibile e attuale una figura come quella di Franco D’Andrea?
Raffaele Costantino: Potrei risponderti con il solito approccio enciclopedico con il quale si descrivono figure di questo peso, ma lascio l’onore a Wikipedia. Franco è imprescindibile perché, ad oggi, è il musicista più curioso, agile intellettualmente, preparato musicalmente, sensibile umanamente che io abbia mai incontrato. Se Franco D’Andrea non fosse nessuno ed avesse iniziato ora a suonare, vi direi di scommettere su questo giovanissimo talento perché ha veramente tante cose da dire e da insegnare. Ma Franco suona da secoli e fa dischi meravigliosi da una vita con grandi musicisti della storia della musica nazionale ed internazionale. Quindi vi dico di scommettere su questo giovanissimo talento perché ha ancora tante cose da dire e da insegnare.
La tua biografia è una specie di mostro che non si sa da che parte afferrare. Una delle cose fondamentali che emergono è un’estrema coerenza, in una ricerca profondamente radicata nella tradizione della musica afroamericana ma che poi sa lanciarsi in avventure formidabili, collaborazioni inattese, svolte sorprendenti. Qual è il segreto per tenere questa coerenza?
Franco D’Andrea: Credo che un disegno coerente di sintesi di tutte le mie esperienze precedenti sia tracciabile a partire dalla fine degli anni ’70. Prima, con molte produzioni e altrettanti progetti, facevo soprattutto esplorazioni, esperimenti empirici basati sulla curiosità intellettuale. Il jazz l’ho incontrato, per la prima volta, a tredici anni, su un disco a 78 giri di Louis Armstrong con i suoi All Stars. Aveva una sezione ritmica moderna e un suono molto fluido, contenente tutti gli elementi che poi avrei cercato di sviluppare. Ho cominciato a suonare jazz tradizionale ma poi ho incontrato Horace Silver, John Coltrane, Miles Davis, Jazz Mesangers ed è cambiato tutto. Dato che era musica, dal punto di vista armonico, assai complicata ho dovuto lasciare la tromba per il pianoforte. Molto presto lo studio mi ha portato dalle parti di Debussy, Ravel fino ai contemporanei dei primi del Novecento come Schönberg con la sua musica dodecafonica e seriale. Il Moder Art Trio è stato il primo sbocco naturale di questo percorso. ‘Bitches Brew’ era la stella polare in quel momento. Da allora in poi posso dire di aver cominciato a sviluppare seriamente una sintesi personale e articolata.
Lo scorso dicembre la Sony Music ha pubblicato un cofanetto speciale dedicato alla mitica avventura del progetto Perigeo con sette cd – pubblicati all’epoca dalla RCA – della band con l’aggiunta di un dvd e un booklet di 52 pagine. L’ennesimo riconoscimento di una ricerca fondamentale. Si trattava di inventare un jazz elettrico europeo che integrasse alcuni stilemi del rock, la dilatazione delle forme, la sperimentazione timbrica, la ricerca e il contatto con un pubblico giovanile. Che valore dai oggi a quella esperienza? Sono in vista reunion d’eccezione?
Franco D’Andrea: Per me Perigeo ha significato soprattutto la dimensione timbrica, il colore elettronico, il fatto di poter manipolare i suoni, cosa che, per altro, già faceva analogicamente Duke Ellington negli anni ’20. Il ritmo dell’Africa occidentale e centrale, alla base di quello che il Jazz chiama swing, l’avevo scoperto all’inizio degli anni ’80 e quindi in quell’esperienza è stato fondamentale. In Perigeo, però, il mio ruolo principale era quello di creare suoni diversi dal solito, attraverso risorse timbriche inedite, utilizzando un Fender Rhodes rimaneggiato per creare un suono personale e addizionato di effetti d’ogni genere. Questo tipo di pratiche non erano certo nuove nel free jazz. Basta pensare, per esempio, a come Archie Shepp manipolava il suono del suo sassofono per ottenere possibilità timbriche impensabili prima di allora. La cosa fondamentale era creare nuove prospettive. Riguardo la possibile reunion non escludo niente ma constato che, oggi, ognuno di noi ha preso una propria strada, con direzioni anche molto diverse. L’esperienza comune in quel progetto rappresenta, comunque, un fondamentale bagaglio d’idee e, soprattutto, credo abbia insegnato ad ognuno di noi una attitudine verso l’apertura a qualsiasi situazione artistica.
E arriviamo al Franco d’Andrea Electric Tree. Quali sono i tuoi principali motivi di interesse e novità rappresentati da questo esperimento?
Franco D’Andrea: Una delle molle fondamentali, assieme all’amalgama che siamo riusciti a stabilire con Andrea Ayassot, musicista di grande sensibilità e profondità, è stato l’incontro con DJ Rocca, un artista che ritengo straordinario, in occasione di un concerto che tenevo all’Auditorium Parco della Musica di Roma come artista in residenza, subito dopo il concorso indetto dalla trasmissione Musical Box per il quale avevo suggerito proprio il remix realizzato da Luca Rocca come il mio preferito. Dal primo ascolto ho capito che la sua visione della musica ha molto in comune con la mia. Il suo senso ritmico è eccezionale e si accompagna a possibilità timbriche speciali. Ecco perché è riuscito a costruire qualcosa di straordinario da un intro in piano acustico dal mio ultimo album ‘Monk and The Time Machine’, reinventando completamente quella composizione a partire da alcuni frammenti. Questo progetto è stato anche un’ottima occasione per incontrare altri collaboratori straordinari di Raffaele Costantino, come Matteo Strada e Maurizio Bilancioni.
A proposito di frammenti: il campionamento ha una importanza fondamentale nella storia della musica afro-americana e, tra le altre cose intreccia le storie della poesia orale, del jazz, dell’hip hop, generando interi universi sonori. D’altra parte ci dicevi dell’importanza della manipolazione e modifica del suono a proposito dell’alterazione timbrica. Se uniamo le due cose sembra che si possano far collidere due ‘tradizioni’ contemporanee: quella dell’anima mutante afro-americana e quella delle infinite possibilità in seno alla musica elettronica.
Franco D’Andrea: Certo! Premesso che con Rocca avrei voluto collaborare anche se avesse suonato l’ocarina, il discorso elettronico apre un inesplorato ventaglio di soluzioni, dandoci la possibilità di creare suoni assolutamente nuovi perché inediti o combinatori. In questo senso è un campo di pura invenzione. Quello che secondo me è cruciale, nell’incontro di uno strumento acustico, come può essere il mio o quello di Ayassot, con la strumentazione elettronica di Rocca è la creazione di un amalgama.
Come è andata, dal tuo punto di vista, la prima esibizione live al Rialto di Roma?
Franco D’Andrea: Abbiamo cominciato familiarizzando con quello che ognuno di noi faceva. Poi siamo passati alla costruzione di un repertorio e alla tessitura delle prime improvvisazioni. Nella mia musica recente, anche quella col quartetto e il sestetto, parto dall’idea di un collettivo improvvisato che però muove da delle strutture, molto flessibili, che ci sono dietro e che le permettono di andare in molte direzioni differenti. Per me è fondamentale trovare la giusta interazione con gli altri musicisti e il fatto che questa interazione debba avvenire in tempo reale. Perché questo possa avvenire è importante che gli artisti si conoscano bene e abbiano il minimo di tempo per farlo. Ayassot, per esempio, è uno di quei musicisti che conosco benissimo dato che ci suono da sedici anni. Provare un concerto, riascoltarne la registrazione, discuterne… sono tutte fasi necessarie in questo senso. Uno dei metodi che uso è proprio quello di registrare tutto quello che facciamo e per poi, dopo esserci inviati a vicenda frammenti di lavorazione, poter riascoltare e confrontarsi.
È lo stesso metodo che avete utilizzato per la preparazione dell’album?
Franco D’Andrea: Esattamente lo stesso metodo. Fin dall’inizio di questa avventura abbiamo registrato tutto quello che suonavamo in studio, anche e soprattutto le jam session improvvisate. La possibilità tecnica di registrare tutto nell’ottica di riascoltare tutti insieme per organizzare aggiustamenti e correzioni di tiro si rivela determinante. Rende meno labili i ricordi presentandosi come un dato obiettivo sul quale studiare con grande attenzione e scambiarsi idee. Abbiamo prima fatto una piccola prova a Reggio Emilia, dove risiede DJ Rocca, poi una serie di sessioni preparative a Roma, lo scorso 7 giugno, per lo showcase di LBL e infine c’è stato un concerto a Pisa, che è risultato assolutamente decisivo per il consolidamento del progetto. È stato lì che abbiamo preso consapevolezza piena dell’impronta che stava prendendo il trio e ci siamo decisi ad entrare in studio per la registrazione finale del disco che uscirà su LBL-Parco della Musica Records. Ho qui davanti a me il rough mix di quello che abbiamo registrato e mi rendo conto che sono due ore e mezza di musica, tanto per intendersi. Scremeremo da lì l’essenziale per dargli la definitiva forma dell’uscita discografica.
Ascoltando il risultato di questo percorso di ricerca quanto siete andati lontano da quello che ti saresti immaginato?
Franco D’Andrea: Per esperienza ho imparato che in questo tipo di progetti la cosa fondamentale è conoscere il terreno sul quale ti muovi, capire come possono funzionare certe interazioni inedite, rodarle e, solo a quel punto, ci si può lanciare in sperimentazioni anche molto ardite. Quando siamo in tre sul palco funziona così: ci possiamo permettere di iniziare qualcosa che non sappiamo assolutamente dove ci porterà perché abbiamo comunque dei punti di riferimento precisi che derivano dalla reciproca conoscenza. Un altro fattore determinante che avevo già sperimentato e che ho ritrovato in questo progetto è la fondamentale importanze di quelle che io chiamo le “strutture minime”: una sorta di griglia conosciuta e consolidata tra i membri del gruppo dalla quale partire per esplorare ambiti e situazioni sconosciute e ogni volta nuove. In queste strutture c’è, soprattutto, un’idea ritmica per la quale, in questo caso, il raffinato orecchio di DJ Rocca si è rivelato preziosissimo.
Ci sono stati degli ascolti che si sono rivelati fondamentali nella fase di conoscenza e preparazione?
Franco D’Andrea: Molte delle cose che abbiamo ascoltato imparando a conoscersi appartengono a un mondo che io, sinceramente, non conoscevo. Anche in questo senso Dj Rocca è stata una rivelazione: è stato lui il tramite decisivo per affinare l’orecchio in un ambito musicale che ignoravo, permettendomi di aprirmi a nuove possibilità. Credo di aver, almeno parzialmente, ricambiato il favore condividendo con lui i miei lunghi studi sui ritmi africani, dedicati all’approfondimento della poliritmia tradizionale dell’Africa centrale ed occidentale, molto particolare e raffinata che poi è alla base del jazz e di molte altre musiche. Quei ritmi li ritroviamo a Cuba, in Sudamerica, a New York… tutte geografie sonore sulle quali ci siamo sintonizzati. Credo che il mio percorso personale sia inquadrabile nella confluenza tra questa influenza fondamentale, la visione prospettica sull’intera storia del jazz e la lunga frequentazione di alcuni dei compositori fondamentali nella musica europea del Novecento, quella cosiddetta ‘classica’.