Ho sempre vissuto in modo conflittuale la coesistenza di device tecnologici e musica live. Ricordo un concerto dei Black Rebel Motorcycle Club nel 2010 ai Magazzini di Milano, in cui su Ain’t No Easy Way partì un pogo spontaneo dalle retrovie: si sudava, si spingeva e si percepiva l’ancestrale spirito del rock‘n’roll fatto di adrenalina e odore di ascelle, qualche livido e la possibilità di lasciare una scarpa sulla pista. Ebbene, ciò che ricordo di quell’evento è soprattutto l’amico che mi accompagnava, che si sottrasse categoricamente alla foga con quella che mi parve la peggiore delle giustificazioni possibili. “Sto facendo un video”, disse, da dietro il suo Blackberry.
Sul momento non ci feci troppo caso, e razionalizzai accuratamente in seguito. Il punto della questione era che, nel momento stesso in cui finalmente non c’era interposizione alcuna tra lui e la band, una volta aperte le porte al rapporto diretto con l’artista e l’esperienza che ne derivava, lui poneva tra se stesso e il concerto lo schermo del telefono, onnipresente già in casa, in ufficio, in qualsiasi ascolto musicale privato e riprodotto.
Sia per me che per il mio amico quel live era unico. Ma se per me quella era l’opportunità di percepirne a pieno ogni sapore e sensazione, per lui era l’occasione per immortalarlo. E questo molto prima dell’avvento ufficiale di selfie, Instagram e co. Tempi non sospetti, dunque, o diversamente tali.
La questione poi negli anni successivi ha infatti intrapreso una parabola ascendente in cui la maniacalità dello scatto, dell’autografo del ventunesimo secolo, e di quello che possiamo definire il check-in social della presenza live all’evento che già di per sè dovrebbe essere sia social che live, hanno reso inevitabile una presa di posizione da parte dei provider dell’entertainment stessi. No selfie stick, categorico. Vieni ad un concerto per gustarti la musica, non per posare insieme ai tuoi amici. Gli esempi vanno dal Coachella al Lollapalooza, il messaggio? Punta gli occhi su Flying Lotus, Trent Reznor o Sam Smith che sia, e non metterci lo schermo dell’iPhone in mezzo, o la tua faccia.
Al di là del possibile danno o rischio fisico che può essere arrecato da un narcissistick introdotto ad un concerto, la questione mi è subito parsa più complessa, e giacente nella differenza stessa tra underground e mainstream. Labile, è vero. Ma fondamentale.
Se prendiamo la rave culture e la osserviamo dalle sue origini ad oggi capiamo come negli anni si sia evoluta da 1) forma di divertimento segreto, illegale e basato sul passaparola, a 2) clubbing legale, e quindi appartenente ad un sistema di vita notturna (night time economy) regolamentato e che banalmente paga le tasse, a 3) forma mainstream di entertainment di massa che lucra sulla produzione di hashtag e in cui gli sponsor cavalcano l’isteria social prettamente per scopi di marketing. Insomma l’ennesima manifestazione dell’ego e del “io esisto, sono cool e voglio farvelo sapere”.
Se la partecipazione agli eventi e ai concerti ha sempre più o meno definito un’appartenenza o l’affermazione di un’identità, la prova della partecipazione, fino a poco tempo fa, era lasciata alla partecipazione stessa, e non alla rappresentazione virtuale di essa. Si evolvono così, insieme alla tecnologia, i concetti stessi di socialità e di identità, con tutto ciò che queste evoluzioni si portano dietro.
Se facciamo un passo avanti, ma anche un po’ di traverso, notiamo che, mentre i club e le music venues in passato erano i luoghi principali dove incontrare gente nuova, trovare (o almeno cercare) l’amore ed incontrarsi, ora per gran parte le distanze vengono accorciate dalla tecnologia e dalla messaggistica istantanea, mettendo in dubbio il ruolo tradizionale stesso delle venues. Ci sono studi precisi che identificano nei club i luoghi primari in cui, in passato, i giovani sperimentavano le proprie identità, sessuali, sociali o culturali che fossero. Pensiamo al punk, all’acid house o alla techno, alle scene queer e al ruolo dei gay club.
Ebbene, i club in Europa stanno chiudendo, incontrando da un lato, per esempio in Inghilterra, una crescente ostilità da parte dei comuni, dall’altro facendo fronte all’ancora parzialmente sconosciuto effetto prodotto sulle nuove generazioni dalle app per incontri e dalla messaggistica istantanea. Se posso cercare l’amore da casa, non ho bisogno di uscire e vagare per le strade al freddo fino alle 6 di mattina alla ricerca di quel qualcosa o qualcuno. Se posso comunicare con i miei 10 amici nel gruppo su WhatsApp, mandando foto e messaggi vocali, non c’è bisogno che ci incontriamo per decidere cosa fare stasera, magari davanti a una birra, in un luogo fisico, circondati da altre persone. Fuori casa. I luoghi di aggregazione da reali diventano virtuali e le esperienze vengono mediate dalle possibilità offerte dai 4-5 pollici più guardati al mondo. La solita tecnologia, appunto, che ha la tendenza a rivoluzionare tutto, e nel giro di pochi anni. Sì, perché ci stiamo giusto abituando alle conseguenze che i social network hanno sul nostro modo di vivere i tradizionali luoghi di ritrovo, che già un ulteriore avanzamento tecnologico arriva e rimescola le carte in gioco.
Ho avuto la possibilità di provare la realtà virtuale già a cavallo del 2014-2015, quando, nonostante gli investimenti da parte dei big (Facebook, Google, Samsung, Sony ecc…) fossero già tutti lì insieme alle prime distribuite versioni beta, molti ancora la vedevano come un’estensione dei videogiochi e comunque una “cosa da nerd.” Al di là di giochi d’azione, pornografia iper-immersiva, e mondi fantasy completamente esplorabili, una cosa colpì subito la mia attenzione. La realtà virtuale che non andava nella direzione del videogame, e quindi dell’intenzionale alienazione dal mondo attraverso la fantascienza, i paesaggi irrealistici ecc, ma quella con la più subdola pretesa di “accorciare” ulteriormente le distanze tra gli individui, e quindi la realtà virtuale in qualche modo e assurdamente “social”.
In questa ottica ovviamente non mi stupì affatto la decisione di Zuckerberg di acquistare Oculus Rift per 2 miliardi di dollari, e iniziai a immaginare alcuni utopici / distopici scenari creati dall’evidente desiderio di socialità caratteristico della nostra epoca, combinato con la crescente alienazione provocata dall’avanzamento tecnologico. Ed è proprio qui che sta l’ossimoro. Facilitare la socialità aumentando l’alienazione dell’individuo.
Ma non facciamo della filosofia e buttiamoci nella realtà, reale o virtuale che sia.
Un mese fa esce la notizia che il Coachella quest’anno si sarebbe svolto per la prima volta in realtà virtuale. Chi ha acquistato i biglietti ha infatti ricevuto con essi un headset per gustarsi l’evento in VR (virtual reality). Chi non ha potuto partecipare, invece, ha avuto la possibilità di vivere l’evento nei giorni scorsi direttamente da casa, tramite una app dedicata e previa disponibilità degli occhiali. Dulcis in fundo, la recente partnership con Here ha reso quest’anno possibile dotare ogni partecipante di un equalizzatore personalizzabile e funzionante in tempo reale, inserito direttamente nelle orecchie dell’interessato. Here infatti significa un paio di auricolari wireless molto piccoli e discreti, controllati tramite app per smartphone, che ti permettono di processare in tempo reale il suono del live che stai ascoltando. Alcuni parametri a scelta per il suono sono “psychedelic”, “small studio” e “Tiesto”. E il Coachella, nei giorni scorsi, è stata l’occasione per il lancio ufficiale e in anteprima della migliore invenzione del 2015 secondo il Time, addirittura dotata di vari preset impostabili a seconda del palco e della line-up. Sotto il palco dunque, con gli occhialoni di cartone con dentro lo smartphone e gli auricolari nelle orecchie, oppure comodamente coricato in tenda lontano dalla bolgia a “vivere” il live e personalizzarne l’esperienza in modo interattivo, o a farlo addirittura direttamente da casa tua senza nemmeno dover mettere il naso fuori di casa. Paul Mccartney aveva già fatto qualcosa di lontanamente simile nel 2014, e anche il Lollapalooza a Berlino l’anno scorso.
Il dubbio che sorge è dunque spontaneo, e quantomeno legittimo. Se il godimento di un evento esclusivo viene vissuto in modo parzialmente virtuale anche da chi il biglietto l’ha pagato profumatamente ed è fisicamente presente, può godersi l’ambiente circostante ed “interagire live” con il live e i suoi partecipanti, quanto possono diventare attraenti le possibilità compensative dirette a chi non può invece esserci, si trova nel salotto di casa, ed ha ovviamente accesso ad un computer con connessione internet, uno smartphone o un sempre più diffuso kit VR?
Avevo già, come detto, avuto la possibilità di sperimentare un evento virtuale attraverso un software chiamato JanusVR, una trasposizione della rete in 3D, in cui è possibile navigare attraverso i siti internet come se fossero stanze o addirittura palazzi. Un sito con una sola pagina statica diventa dunque una stanza semplice, mentre uno molto intricato può essere trasformato in un vero e proprio labirinto con innumerevoli stanze, in cui ogni link è rappresentato da una porta da attraversare. Camminando in quel mondo mi ero trovato in un ambiente virtuale bizzarro, lontanamente simile alla discoteca di GTA Vice City con i simil-Village People, ma tutto in realtà virtuale, e con una line-up precisa di artisti reali che si sarebbero esibiti a diversi orari quella sera. Ciliegina sulla torta: gli avatar che avevo intorno erano persone vere, con le quali potevo parlare, ballare ed interagire.
Quella era la mia prima esperienza di clubbing virtuale. La tecnologia, nel frattempo, ha continuato ad evolversi.
Virtually Live si propone come una delle “realtà” più innovative per vivere eventi reali in modo virtuale, sportivi o musicali che siano. “Now everyone can attend the game” è il loro motto. In pratica puoi essere allo stadio a vederti la finale di Champions di stasera con i tuoi amici, o ballare sotto cassa all’ultimo djset di Carl Cox allo Space, direttamente dal salotto di casa tua.
Ma non perdiamo i dettagli importanti per strada. Virtually Live è qualcosa di completamente diverso dalla partita trasmessa su Sky, o dal live streaming di un concerto. L’evento innanzitutto è live, e in seconda battuta è immersivo. Ciò significa che il sistema opera un tracking simultaneo dei movimenti dei giocatori che stanno giocando in quel momento nella città X, o del dj Y dietro ai piatti, più una riproduzione accurata dello spazio circostante, che sia uno stadio di Londra, il palco di un locale a Berlino o la sala principale dello Space a Ibiza. Il passo successivo è che tu sei dentro all’evento, e che puoi navigare liberamente in quell’ambiente, essendovi completamente immerso. Il tocco finale (e fondamentale) è che lo possono fare anche tutte le altre persone in giro per il mondo che si connettono. Tutti potete dunque interagire tra di voi nella sala del club con i dischi che sta mettendo in quel momento Carl Cox al vero Space, gasarvi con quel drop, scatenandovi a passi di danza nella bolgia e ansimando in realtà da soli e al buio nella sala di casa vostra, con un paio di occhialoni ridicoli in faccia e le cuffie sulle orecchie.
Distopico? Forse sì, o forse no. Kevin Spacey per esempio é ottimista a riguardo (min. 18:20). Forse la nostra, semplicemente, non è più l’unica realtà possibile. Forse il mondo alternativo che abbiamo creato attraverso i social si è semplicemente evoluto molto velocemente, prendendo in prestito la tecnologia nata dai videogame, e creando un mondo virtuale che ci farà arrivare dove ora non possiamo.
Analizziamone alcune implicazioni.
Tu sei, in un certo senso, nel club, allo stadio o sotto al palco di un concerto. Puoi conoscere un’avatar carina e chiederle in inglese da dove viene, e scoprire che è di Hong Kong, Chicago, San Pietroburgo o che abita dall’altra parte di Milano. Potreste darvi un secondo appuntamento ad un match di tennis virtuale e decidere che volete incontrarvi nella vita vera. La possibilità di trovare l’anima gemella dall’altra parte del mondo si fa dunque reale, come diventa reale la possibilità di vivere esperienze sociali insieme pur restando in due continenti diversi.
Ma non è finita qui.
I comportamenti illeciti legati al clubbing e allo sport assumono una dimensione completamente nuova e potrebbero uscirne annientati o esacerbati. Che forma prenderanno infatti questioni come il consumo di droga ai festival o la violenza delle tifoserie negli stadi? Se pensiamo alla situazione di pressione da parte delle autorità sul controllo antidroga in venues come il Fabric a Londra, festival come l’Electric Zoo a New York o un club italiano come il Cocoricò, capiamo che un nuovo modo di fruire gli eventi live comodamente da casa potrebbe sia ridurre il problema che renderlo incontrollabile e nascosto nella sua nuova e privata dimensione domestica. In più, il ruolo sociale della musica dal vivo e del clubbing è noto, ed ha aiutato tanti ragazzi emarginati a trovare un’appartenenza a sottoculture urbane o neotribes. Quello sociale o anti-sociale del clubbing virtuale è terreno insondato e ha in sé un potenziale di alienazione finora inimmaginabile.
Se pensiamo a quanto tempo già passiamo davanti agli smartphone e a come il tempo appunto si contragga nelle comunicazioni a distanza, modificando la nostra socialità, la nostra capacità di esperire il mondo autonomamente, senza ricorrere al filtro della tecnologia, che sia Shazam per catturare un disco che ci piace, oppure uno scatto del dj messo in tempo reale sui social o un messaggio vocale mandato all’amico che non è potuto uscire, capiamo che il passo successivo, quello in cui non dobbiamo nemmeno recarci fisicamente al concerto per vivere l’esperienza che il live porta, può risultare il più grande sconvolgimento degli habiti sociali nella nostra storia recente. E perché no, anche in quella passata.
L’inventore del telefono cellulare, Marty Cooper, in un’intervista dell’anno scorso ha dichiarato che l’iphone 6s è “noioso” e che invece la realtà virtuale è “l’inizio di un mercato interamente nuovo”. Aggiungendo poi che si sente incredibilmente fortunato per essere riuscito a vivere abbastanza per vederla nascere. Consideriamo dunque che l’avanzamento tecnologico in tema di realtà virtuale è ancora relativamente agli albori, e che possiamo supporre che l’immersione in mondi virtuali sarà presto incredibilmente più realistica e sofisticata, rendendo sempre più interessante e appealing la socialità virtuale come la è stata la comunicazione a distanza nei confronti di quella faccia a faccia. Se abbiamo avuto la prova che possiamo parlarci e vederci su Skype anche senza incontrarci e che ciò è perfettamente accettabile, perché non andare ai concerti o nei musei insieme senza dover essere davvero insieme? Perché il nostro avatar non dovrebbe diventare il vero protagonista dell’esperienza vissuta o della nostra vita, come già li sono in parte i nostri alter ego social? Chi sarà il vero beneficiario della socialità virtuale, della sperimentazione di identità e dei ruoli culturali e relazionali? Perché non dovremmo immaginare che sarà il nostro avatar ad andare a seguire le lezioni universitarie al nostro posto, permettendoci di imparare senza doverci trasferire in un’altra città e pagare affitti e rette scolastiche esorbitanti? Quanto in là può spingersi la mediazione tecnologica delle nostre esperienze reali? Quanto reali e tangibili possono essere i mondi virtuali da noi creati?
Quando ero bambino Matrix era un film di fantascienza, e se volevi partecipare ad un evento ti toccava uscire di casa. Ora posso dire con certezza che entrambe le affermazioni sono un po’ meno vere.
La domanda che sorge spontanea è: cosa succede dopo?