La sedicesima edizione del Club To Club Festival è alle porte. Come sapete i nomi in cartellone a Torino dal 2 al 6 novembre prossimi, annuncio dopo annuncio, hanno composto un mosaico di eccellenze (non solo) europee che restituiranno uno spaccato dell’elettronica contemporanea a 360°; allargato ancora dalle ultime nuove che annoverano Nick Murphy nelle vesti di Chet Faker, Arto Lindsay e i talenti nostrani Jolly Mare e Populous a fare squadra con gente del calibro di Autechre, DJ Shadow, Laurent Garnier, Arca, Andy Stott, Motor City Drum Ensemble, Jon Hopkins e Tim Hecker.
Quel “non solo” messo tra parentesi è, per noi che scriviamo, la chiave di lettura di questa edizione. Il festival ha infatti scelto di concentrarsi su sonorità “non convenzionali”, dando voce anche a quei mondi sonori – relativi per esempio al Sudafrica e al Medio Oriente – che solitamente non sono centrali rispetto alle scene più chiacchierate. Club To Club ha fatto una scommessa e anche noi abbiamo deciso di puntare su questi artisti, dedicandogli le righe che seguono. Sono quelli che, forse, hanno nomi meno altisonanti ma che vi consigliamo vivamente di ascoltare perché possono riservare sorprese autentiche; abbiamo chiamato questa mini guida “l’altro Club To Club 2016” proprio perché sarebbe un peccato stazionare davanti ai palchi solo dei produttori di primissimo richiamo, tralasciano personaggi che, da più o meno tempo, stanno proponendo cose nuove o meno “potabili”, sicuramente coraggiose.
Una doverosa ultima chiosa: non è una lista di sventurati che non conosce nessuno, ci sono nomi che hanno alle loro spalle poche (ma validissime) produzioni ma anche alcuni che nelle proprie nicchie di riferimento sono dei primattori o, perlomeno, figure dalle quali comprendere “come-si-fa”. Garantiscono Maurizio Narciso e Giulia Scrocchi.
Amnesia Scanner
M. Dovreste assistere alla loro esibizione perché sono ciò che più si avvicina al futuro della musica della quale ci interessiamo (se proprio non si vuole scomodare il futuro, parliamo perlomeno di lucidissimo presente). Il misterioso duo finlandese trapiantato a Berlino ci serve un’elettronica in alta definizione, ma non come quella degli ultimi Autechre – per chi scrive i grandi protagonisti del Club To Club 2016 – piuttosto come un amalgama irresistibile e affilata di noise, glitch, musica concreta e post-dubstep. E’ musica astratta che arriva dritta al cuore.
G. Degli Amnesia Scanner in questa edizione del festival torinese ce n’era veramente bisogno. I motivi sono molteplici, nati da una – così sembra – imprescindibile serie di eventi a catena: è stata toccata la soglia della saturazione della “musica-da-club” (ammettiamolo, si sente nell’aria già da un po’), siamo in procinto di un prossimo ciclo e le spinte sotterranee di una nuova astrazione/cognizione cominciano a farsi sentire. Questo è il caso del duo, berlinese d’adozione, che ci racconterà la sua proiezione del futuro: bass music, grime, abstract, forse le nuove sommerse poesie degli anni avvenire.
Chino Amobi
M. Negli ultimi tempi le soluzioni sonore audaci/non convenzionali non provengono solo dall’alveo della musica d’avanguardia/elettronica; stiamo assistendo a sperimentazioni interessanti nel pop, nel folk, nell’hip-hop, artisti quali Kanye West e Bon Iver – ma anche Beyoncé e Rihanna – stanno rendendo la faccenda sempre meno scontata, con produzioni avventurose e al passo con i tempi. Per questo non potete perdervi il set di Chino Amobi, che mette assieme mondi diversi con gusto e creatività: pop e IDM, melodia e complesse stratificazioni sonore; mi ricorda l’ultimo, ottimo, Oneohtrix Point Never ma in una veste ancora più irriverente.
G. La visione creativa-musicale di Chino Amobi riecheggia nei valori della sua etichetta “NON”, formata da un collettivo di artisti africani con l’obbiettivo di abbattere “l’eurocentrica” percezione della musica dance. Amobi prova a piegare le regole dell’industria anche attraverso la sua musica sperimentale, e ci riesce. Ci riesce in una travolgente e bizzarra miscelazione dei principali canoni estetici dell’hip-hop, del folk, dell’avant-pop e della world music con immancabili accenti grime. Sono proprio i graffi grime a dare alla sua musica quel tocco intransigente, contro-culturale se vogliamo, sicuramente di protesta nei confronti della cultura europea.
DJ Lag
M. Lwazi Asanda Gwala (DJ Lag) ad appena vent’anni è già una figura cardine del sottobosco elettronico africano. Il suo suono è potente e diretto, poco levigato, com’è tipico dei movimenti artistici che nascono dalla strada. Questa strada è quella del Sudafrica e dello stile “Gqom”; finalmente si guarda al continente madre di tutte le civiltà per scoprirne i suoni contemporanei, quelli più intransigenti e (ancora) autentici, espressione della voglia di comunicare anziché di emulare o seguire il filone stilistico del momento.
G. La mente dietro la “Gqom” intesa sia come crew che come l’omonima etichetta discografica (“Gqom Oh!”) sembra proprio essere DJ Lang. Ciò che emerge da questa realtà è una forma molto grezza, forte, seppur minimalista, della musica del Sudafrica, oltre che un acuto riadattamento della bass music del Regno Unito e della scena footwork di Chicago. DJ Lang – insieme alla sua squadra – cerca di formare una nuova, fiammante, struttura in grado di mettere in risalto la loro cultura: il suono “Gqom” nato tra i vicoli della township (l’area delle persone di colore del Sudafrica). Le vibrazioni del suo set lasceranno il vostro corpo pervaso da entusiastiche scosse.
Forest Swords
M. Matthew Barnes, è questo il nome del giovane produttore inglese che si fa chiamare Forest Swords, tratta la musica elettronica come un alchimista farebbe con la materia, trasfigurandola a piacimento in un processo solo all’apparenza semplice. Il suo suono è una cascata di battiti sintetici e di campionamenti da strumenti veri che danno forma ad un mantra armonico dove luce ed ombra si rincorrono. Convince soprattutto perché riesce a condensare il meglio dell’immaginario dell’etichetta “Tri Angle” – per la quale ha dato alle stampe il consigliato debutto sulla lunga distanza “Engravings” – aggiungendo però un tocco personale che profuma di trip-hop.
G. Forest Swords nel corso degli anni è riuscito a trovare il suo “spazio vitale” tra i micro generi: drone music, drone-step, musica psichedelica, chillwave, ed è proprio tra tutte queste influenze che si posiziona. Infiltrarsi in una fessura stilistica è capacità solo di chi possiede una grande personalità. Difatti, il suo emblematico suono con nostalgiche venature R&B ne è prova tangibile. Sembra parlare della frustrazione urbana densa del desiderio di poter essere da qualche altra parte. Forse, il compito di Forest Swords è proprio questo: riuscire a portare chi ascolta all’interno della sua dimensione cosmica, lasciandogli la possibilità di immaginare ciò di cui più sente il bisogno.
Lafawndah
M. La musica di Yasmine Dubois (Lafawndah) riflette la contemporaneità nella quale viviamo, fatta di commistioni stilistiche che solo ad una lettura superficiale possono sembrare antitetiche. E’ così che la sua vocalità, che oscilla tra il soave e il sanguigno, si adagia su basi elettroniche spezzate e imprevedibili, rimandando agli ultimi The Knife pure mantenendo quella componente multiculturale (il non avere un riferimento stilistico preciso perché si è affascinati da tutti i suoni delle periferie del mondo) che ha fatto la fortuna di Björk. Per essere una produttrice all’inizio della sua carriera, di carne al fuoco ce n’è già tantissima.
G. Lafawndah, artista egiziana-iraniana, indossa con sentimento le sue origini, attinge alla sua eredità culturale per creare un pop elettronico in chiave sperimentale. La sua crescita artistica/personale inizia dal Medio Oriente e porta con sé i ritmi caraibici, essi verranno poi amalgamati alle influenze della capitale francese nella quale ha studiato arte. Il Messico poi, le ha insegnato ad apprezzare i ritmi della salsa e della cumbia. Ma fu New York ad illuminarle il cammino. Con New York conosce il clubbing e la sua musica comincia ad arricchirsi di bassi profondi e ossessivi. Il suo suono è imbevuto del suo background, è un pop devozionale. E’ un nuovo ibrido.
M.E.S.H.
M. Immaginate una musica ambientale dall’andamento placido eppure percorsa da battiti e clangori industriali e avrete un’idea del suono di James Whipple (M.E.S.H.). Ma c’è dell’altro, perché il produttore di stanza a Berlino cura ogni minimo particolare – vorrei chiamarlo rumore se non venisse inteso nella sua accezione negativa – della sua matassa sonora. Questa si dipana lentamente, facendo emergere increspature e fragori che rimandano di volta in volta all’IDM, alla musica astratta, al grime, con un’attitudine da perfezionisti del suono che appartiene a pochissimi produttori (un nome su tutti: Holly Herndon).
G. M.E.S.H. fa parte di quel microcosmo di individui che cercano di creare “musica e suoni che non esistono”. Se vi state domandando cosa io stia cercando di dirvi, fate bene. Artisti come M.E.S.H. potrebbero essere definiti “sperimentalisti”. Puntano a dar vita a qualcosa che suoni innovativo, seppur sempre vicino alle radici del genere. Il produttore berlinese sembra non essere contaminato dalla scena della capitale e coccola – si fa per dire – i suoi ascoltatori con una buona dose di IDM, breakbeat, musica astratta e grime.
Mura Masa
M. Mura Masa è pop. Certamente questa è una provocazione, ma rende bene l’idea del suono del giovane produttore inglese, che riesce a vaporizzare elettronica e R&B suonando fresco, godibile e per tutti (sia per chi fa zapping che per chi è curioso di capire fino a dove può spingersi la musica fatta con le macchine quando è più zuccherina). Se dovessi azzardare un paragone im(possibile) i primi nomi che mi vengono in mente sono i Disclosure e la Grimes degli ultimi tempi, ma qui le atmosfere sono ancora più leggere, con l’inserimento misurato di strumenti veri dei quali il ragazzo è padrone, essendo anche un polistrumentista assai capace. Siamo curiosi di capire in che modo si presenterà dal vivo e su quali elementi preferirà porre l’accento.
G. Mura Masa è la maschera dietro la quale si nasconde Alex Crossan, ventenne nativo di Guernsey. Ci siete rimasti male anche voi? Io mi sono ingenuamente lasciata ingannare dal suo nome giapponese. Mura Masa, invece, è l’alias tratto dal nome di un fabbro nipponico del 16° secolo. Ed è proprio nell’espediente del suo nome che si nasconde l’essenza dell’artista. Il Mura Masa del XVI secolo era “in possesso di una mente violenta e mal equilibrata, tendente alla follia”, così Alex, sceglie di dare forma al suo personaggio diventando – attraverso la musica – tagliente come una scimitarra. Nel suo suono però c’è tutto: delicati elementi asiatici, strumenti percussivi, suoni inaspettati, tradizionali e non, il tutto coronato da dense pennellate pop. Qui, non parliamo più di impulsi sotterranei che prendono il sopravvento, ma di un nuovo modo di unire il pop al clubbing.
One Circle
M. One Circle è il progetto di tre produttori visionari che mettono in comune esperienza e talento. Lorenzo Senni, Daniele Mana e Francesco Fantini decidono di tornare a collaborare assieme in occasione del Club To Club 2016 aggiornando un’attitudine multiforme e sfuggente che già avevamo avuto modo di apprezzare nei due lavori dati alle stampe tra il 2013 e il 2014. E’ elettronica scura, la stessa alla quale ci ha abituati l’etichetta “Gang Of Ducks” (non per altro responsabile della pubblicazione del loro secondo disco “Transparency”) ma che flirta con la trance ed è rischiarata da beat malinconici che la rendono imprevedibile.
G. La dichiarazione d’intenti del trio italiano One Circle porta onore non solo al festival in sé, ma anche alla nostra beneamata terra e alle persone che ci credono. Sì, perché quando degli artisti italiani “ce la fanno”, ci sentiamo un po’ tutti più felici. Il suono nato dalle menti di Lorenzo Senni (l’ultima firma per la Warp Rec), Daniele Mana e Francesco Fantini si rispecchia in quel “warmhole temporale” che collega abissi e superficie, concedendogli un prezioso e impareggiabile equilibrio. Sinuose melodie ondeggiano affianco a oscure pulsazioni che navigano avvolte da una nebbiosa malinconia. Le tre personalità convivono all’unisono, rimanendo intatte, regalando a chi ascolta la possibilità di perdersi e ritrovarsi.
Toxe
M. Il collettivo di riferimento nel quale si muove Tove Agelii (Toxe) si autodefinisce “post-genre” in riferimento sia alla propria natura che alla musica scelta per presentare il suo personale progetto (parole d’ordine superamento di qualsivoglia steccato stilistico). Il verbo sonoro è nervoso, sincopato e tagliente ma anche gentile e sinuoso, soprattutto dal punto di vista dei campionamenti vocali – un esempio su tutti, ascoltate questo tributo/provocazione – ovvero come portare Britney Spears al Club To Club 2016.
G. La giovane Toxe rappresenta il lato più ruvido dell’etichetta svedese “Staycore”. L’estetica -apparentemente – cruda del suo suono, si sovrappone perfettamente al suo lato più delicato, creando un profilo unico. Tove Agelii racchiude nelle viscere della sua musica anche il suo attivismo femminista, dipingendo un quadro molto umano ed emotivo. L’ispirazione femminista è sorta da un gruppo privato di Facebook denominato “Sisters”, nel quale donne-artiste condividono in libertà, passioni ed esperienze. Toxe ci racconta quel che vedono i suoi occhi ogni giorno, attraverso un terremoto di drum e synth; sussurra le sue emozioni con scheletrici beat hip-hop, rapidi campioni, vibrazioni e ritmi house. Gli orizzonti della bella svedese sono davvero ampi.
RP Boo
M. Chicago, footwork, RP Boo. E’ questa la triangolazione necessaria da fare se parliamo del produttore americano che per primo ha traghettato la ghetto house da un’altra parte, alterandone il suono e meticciandolo con tutto ciò che gli stava a cuore: hip-hop, funk, acid-house. Kavain Space (RP Boo) è uscito alla scoperta solo in tempi recenti grazie a quell’altro genio creativo che è “Mike Paradinas”, responsabile dell’etichetta scova-talenti “Planet Mu”, ma la sua attività è di lungo corso e si è fatta le ossa al di fuori dei canonici canali di distribuzione musicale: “street music” d’eccellenza.
G. Mi sembra corretto mettere subito le cose in chiaro: chi scrive nutre un profondo debole per le sottoculture e muove fin da subito una particolare attenzione ai movimenti della “Planet Mu”, trampolino di lancio per gli artisti underground europei e americani, in grado di esplorare con maestria e attenzione gli stili musicali nati dai sobborghi delle città statunitensi. Questo è proprio il caso di RP Boo, potremmo dire l’inventore primo del footwork: Kavain Space nasce e cresce nella sovversiva Chicago e muove i suoi primi passi sotto la guida DJ Slugo, uno dei re della ghetto house. Condivide la consolle con gente come DJ Deeon e si infiltra nei circuiti del juke, per poi immergersi in ritmi sincopati e beat liquidi sconfinando in quello che poi sarebbe divenuto il footwork.