Prendete un discografico, fategli fondare una Label come XL Recordings (in coabitazione con altri due soci); fatela diventare una delle etichette più importanti del panorama che solitamente dalla nicchia passa alla massa; fate tirare fuori dal cilindro di questo produttore nomi come Ibeyi e Sampha (quest’ ultimo con l’associata Young Turks), ma anche The Prodigy o Adele se volete nomi di caratura più pesante; fate che tra le altre mille geniali intuizioni sia anche capace di ridare un caldo focolare ai Radiohead in fuga dalla EMI. Adesso, immaginate la classica storia dell’artista che diventa discografico o produttore e fatela invece girare al contrario, come un disco degli anni ’70, facendo lo stesso backmasking di “Revolution 9” dei Beatles: il produttore si fa artista. Ecco, nel caso di Russell e del suo esordio “Everything Is Recorded” la storia gira proprio come quel pezzo: invertita. E con un messaggio subliminale dietro.
Richard Russell in 29 anni di onorata carriera le ha indovinate praticamente tutte. Anzi, sarebbe sufficiente ricordare come sia riuscito a trattenere Adele per un altro disco ancora, dopo due successi clamorosi come “19” e “21”, quelli che di solito ti catapultano, inevitabilmente, nelle braccia di una major. Ma non se il tuo discografico è lui. Di certo non basta mezz’ora a far diventare “artista”, nell’accezione più semplice della parola, il produttore più influente fra quelli non-major. Ci voleva una miccia, un innesco; ci voleva una storia vagamente “American Dream”, anche se siamo in Gran Bretagna, la stessa Gran Bretagna che ha votato per uscire dall’Unione e che ormai è il cinquantunesimo stato d’America. Ecco: il fermento artistico post Brexit potrebbe essere già una motivazione più che logica, una spinta propulsiva consona a creare qualcosa di diverso, mettendosi in gioco in prima persona. Ma – come dicevamo – non si diventa artisti in mezz’ora. Nemmeno con lo choc Brexit di mezzo. Serviva di più. In questo caso, dolorosamente di più. L’innesco è una brutta malattia, che mette Russell di fronte a se stesso e ad una nuova vena artistico/produttiva (e da cui riesce ad uscire felicemente). Ecco il significato molto ponderato di una storia, appunto, vagamente “American Dream”. Da un momento di crisi, la scintilla.
“There are moments in our lives
That we feel completely alone
We feel as though, no one knows what we are going through
It is possible to be alone, and not live alone
You made me believe in something more than hurt”
(Richard Russell, “Intro”)
“Everything Is Recorded” è il risultato parziale dell’enorme combustione che l’innesco raccontato sopra ha generato. Russell convoca (o meglio, invita) un cast all star di performer che per una ragione o per l’altra sono esplosi nell’ultimo periodo su XL. In un’operazione alla “Ghetto Superstar” gli affida i suoi beat, le sue idee, soprattutto la sua personale idea di soul e, tra ore e ore di registrato, sceglie i migliori 37 minuti con cui fare un album.
Nell’esordio di Russell non c’è nulla di effettivamente nuovo, non c’è nu soul, non ci sono intuizioni generazionali o seminali. C’è del rap, c’è volendo anche del dub, il tutto amalgamato con un’idea dannatamente chiara, limpida, azzarderemmo istituzionale: fare musica, farla bene, creare arrangiamenti mai scontati su linee melodiche comunque ampiamente esplorate.
Il risultato? Esplosivo, eccellente, e senza mai dare nemmeno per un solo minuto l’idea di un qualcosa creato a tavolino con puro intento esibizionistico. Sampha in “Close But Not Quite” canta una delle più belle canzoni degli ultimi anni, rendendo semplice un pezzo che in tanti ascolti ci è sembrato di complicatissima interpretazione. È poi sempre lui che in “Mountain Of Gold” si fonde in un unico paradiso di armonie con Ibeyi e Kamasi Washington. Basterebbero solo queste due tracce a gridare al miracolo, ma perché accontentarsi? A completare l’offerta trovate infatti anche Syd (The Internet), in un paio di barre dal rappato 90’s (“She Said” è bellissima), trovate nuovamente le Ibeyi che ormai non stupiscono nemmeno tanto son brave, e due o tre giri di basso “strizza capezzoli” che rimangono impressi in un solo secondo.
Recensione troppo entusiastica? Forse. In fondo non è altro che una compilation o poco più? Forse, o forse no. Recentemente Lele Sacchi ci ha offerto un buon spunto di riflessione in una nostra recente intervista: il problema, nell’era di Spotify a pagamento per tutti (e ci sarebbe da vergognarsi anche solo al pensiero di crackarlo) e degli album solo digitali con cadenza mensile, è che non ci sono più le hit, nessuno fa più hit. In effetti, se ci pensate, da quanto un album non contiene più di tre quattro belle tracce e tanti altri riempitivi, fino ad arrivare alla fatidica lista delle nove canzoni, ormai minimo sindacale?
”Everything Is Recorded” gioca un’altra partita: dodici pezzi, dodici potenziali hit, passate senza troppi proclami, senza troppo hype, senza troppa attesa, ma che a distanza di un mese, lo confermiamo per l’ultima volta, regalano per quanto ci riguarda in un disco imprescindibile. Vediamo cosa uscirà in seguito, l’anno è ancora lunghissimo, ma ad oggi abbiamo, a parere di chi scrive, il primo indiscusso capolista.