Non lo si sottolineerà mai abbastanza, ma uno dei motivi della grandezza del Sonar è che si tratta di un festival che riesce ad essere di più della somma della ricchezza della line up e/o della potenza degli allestimenti e delle location. Al di là di questo o quel nome o della spettacolarità di un impianto audio o luci, il punto è che da quasi subito il Sonar è riuscito a trasmettere un’immaginario, un’estetica, forse addirittura un’etica: quella che vuole la musica, un certo tipo di musica, come un mezzo d’espressione perfetto per chi non si accontenta del prevedibile, del luccichìo autocompiaciuto del mainstream, dei rituali sempre uguali del rock, dell’euforia talvolta pericolosamente pre-confezionata del pop.
Anche quando pop, rock e mainstream fanno capolino nel festival catalano, arrivano sempre in qualche modo decostruiti, ricontestualizzati, “fotografati” di sbieco, in qualche modo addirittura “denudati”; e in ogni caso sono costretti a convivere in un habitat musicale (e non solo) molto particolare, molto riconoscibile, molto caratteristico, molto attento a rappresentare sempre una mappatura fedele di ciò che è – parole loro – “avanzato” (insomma, lì dove si scrivono i codici del presente e ancora meglio del futuro: non è un caso che spesso e volentieri al Sonar capisci con uno o due anni d’anticipo quale sarà il suono dominante nella scena elettronica mondiale).
Un traguardo, questo, a cui si arriva con una cura del particolare. Non basta, appunto, calibrare pesantamente le line up e darci dentro coi laser. Date un occhio alla storia delle immagini ufficiali usate per comunicare il festival: è infatti interessantissima. Se nelle prime due edizioni, 1994 e 1995, si aveva a che fare con un immaginario piuttosto banale e convenzionale, un certo tipo di minimalismo comincia invece a far capolino nel 1996 e nel 1998 entra in gioco l’altro elemento fondante: un astutissimo surrealismo decontestualizzante, un po’ magrittiano, un po’ lisergico, ma sempre beffardamente asciutto. Quando poi nel 2002 compare Maradona, beh, sembra quasi inevitabile. Ma al tempo stesso va specificato: “Sì, è al Sonar che potevano farlo”. L’avesse fatto un altro festival, di usare el Pide de Oro come testimonial, sarebbe sembrata una smargiassata senza senso e senza fondamento o un modo per attirare spettatori napoletani (notoriamente numerosi, paganti, appassionati, pronti a viaggiare parecchio se c’è da seguire qualche loro eroe).
Al Sonar invece no. Insomma: con astuzia sottile e classe invece grandissima hanno riscritto le regole delle comunicazione nel campo degli eventi musicali. Hanno deciso di giocarle a modo loro, queste regole. Una lezione molto interessante. Minimalismo e surrealismo. E una grande consapevolezza del valore delle proprie idee, stando sempre attenti a fermarsi un passo primo dell’autocompiacimento. Proprio in questi giorni tra l’altro è possibile vedere “Ancha Es Castilla”, il vero e proprio film che è legato alla campagna comunicativa 2014 del festival: qui potete trovare il teaser e i link alle piattaforme che ne offrono una visione integrale.
Ma noi abbiamo voluto fare di più. Abbiamo approfondito il discorso con una bella chiacchierata con Sergio Caballero, co-direttore del Sonar, regista di “Ancha Es Castilla” e primo responsabile dell’immaginario comunicativo del festival. Dal suo background personale (molto interessante) all’idea di chiamare Maradona come testimonial, questa è davvero una lettura preziosissima. Godetevela.
Prima di tutto, vorrei che ci riportassi agli anni ’80 e ai Jumo: chi eri, cosa facevi, quale era il panorama culturale della Spagna in quegli anni…
Quegli anni in Spagna sono stati senza dubbio marcati dalla morte di Franco e dalla transizione. Ricordo la nascita di quelle che potremmo definire due linee creative nella Spagna dell’epoca: da un lato c’erano quelli desiderosi di rivendicare questioni politiche e intellettuali, dall’altro quelli che sperimentavano una nuova libertà nella creatività espressiva. Negli ’80 ero con Enric Palau negli Jumo. Avevamo montato un fantastico studio tutto nostro, era il gruppo di musica dove ci siamo divertiti a dare sfogo a tendenze dell’epoca che più ci interessavano e che oscillavano tra l’elettronica e l’hip hop. Nel frattempo con Marcel.lí Antúnez e Pau Nubiola avevo fondato nel 1985 il collettivo artistico Els Rinos: amavamo definirlo “gruppo di terrorismo plastico”, ci davamo infatti all’arte non convenzionale in mille modi, principalmente graffiti ma poi anche azioni artistiche collettive, film, video e quant’altro. Col senno di poi… ci definirei delinquenti che avevano la scusa di essere artisti, ecco.
Quanto era “folle” l’idea di creare un festival elettronico come il Sonar, nel momento in cui questa idea l’avete concepita? Quanto tempo avete impiegato, tu e i tuoi soci, per trasformare quell’idea in realtà?
Dalle prime conversazioni e poi fino alla prima edizione sono passati quasi due anni, pensando, viaggiando, parlando con tanti amici e colleghi. Vedevamo la necessità di dare vita a un tipo di festival che mancava. C’erano sì festival dedicati al ballo, oppure festival musicali più radicali o classici, ma l’idea era che nello stesso festival si potesse esibire un gruppo come i “Barcelona 216”, che provenivano direttamente dai laboratori sperimentali di elettroacustica, così come si potesse assistere a un dj set di Angel Molina o Laurent Garnier. Era l’idea di unificare nello stesso “stile”, cioè nello stesso formato e contenitore, le proposte musicali più radicali con quelle più, come dire?, festaiole. Questa sovrapposizione di proposte, inserite in uno spazio di riflessione come era – ed è – il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona, rese possibile lìincontrarsi a tutti questi elementi ed idee, arrivando a formare un festival dal formato unico. Un festival per lo più diurno, giocato nel centro della città, mentre tutti i più grandi festival dell’epoca si tenevano fuori dalle città ed erano molto spesso basati sul concetto di campeggio.
La mia impressione è che l’immagine grafica legata al festival nelle prime due edizioni fosse molto “convenzionale”, quasi banale. Già invece col 1996 vedo delinearsi un tocco particolare. E’ un’impressione corretta?
Ti dirò, personalmente ho sentito un cambio importante più nel 1997 che non nel 1996. Anche se è vero che il 1996 è stato un anno fondamentale, perché abbandonavamo l’estetica del “clubbing” classica, quella dominata da immagini sintetiche e create al computer con i primi filtri di ritocco. Effettivamente nel 1996 la poltrona “Blow” del designer italiano Zanotta è stata di certo il primo passo verso un’immagine propria del festival, ma è nel 1997, quando abbiamo deciso di adottare i nostri genitori come immagine/testimonial del festival, che prende vita il concetto di “immagine” del Sonar. E questo fino a chiamare gli stages con i loro nomi, i nomi dei nostri genitori… Mia madre per esempio era il Sonar Club: si sono create situazioni bizzarre, tipo che la gente si faceva foto con lei pur essendoci Jeff Mills a pochi passi. Non era tanto e non era solo un omaggio ai nostri genitori, quanto piuttosto una riflessione sul ricreare quel “momento di fama” di cui tanto ha parlato Warhol. È stata una bella rottura rispetto all’immagine convenzionale: a quel tempo non c’era tantissima informazione, definizione e soprattutto priorità per questi tipi di musica… Per cui vedere gente di sessant’anni che pubblicizza un festival di “musica avanzata” e poi ritrovarteli lì nel festival che si fanno foto tra il pubblico…è stata una bella sfida.
Nel 1998 entra in campo la componente, diciamo così, “surreale”. Come siete arrivati a decidere per quel tipo di immaginario?
M’interessava l’idea di un creare un contrasto nell’immaginario, ma un immaginario che potesse allo stesso tempo esprimere tranquillità e positività. Gli sfondi che avevo scelto erano piuttosto conosciuti nell’ambiente dello spettacolo qui in Spagna: erano sfondi di pittura che si utilizzavano moltissimo nelle classiche opere teatrali, mare, fondali, neve… E poi pensai, perché non metterci qualcosa di vivo?! qualcosa di talmente tanto vivo e contemporaneo da non avere nulla a che vedere con il teatro classico?! Ecco che un gruppo di bellissime danzatrici di samba brasiliane non aveva di certo nulla a che vedere né con la neve di uno sfondo teatrale, né con un festival di musica elettronica – quindi, era perfetto. Quel contrasto dava vita a un’immagine d’insolita gioia e festività, pur nel suo essere assurdo e stridente. Ricordo anche il divertentissimo show delle brasiliane durante il Sonar, e che poi proseguirono un tour in giro per la Spagna… Poi un giorno mi resi conto che erano ormai note in giro come “le brasiliane del Sonar”, figurati.
Chi fu ad avere l’idea di chiamare Maradona come testimonial, per l’edizione 2002? Come furono le trattative col management del Pibe de Oro? Quali furono le reazioni di Diego?
L’idea è stata mia, era tempo che volevo lavorare con un personaggio famoso. Pensavo e ripensavo all’immagine di quei personaggi famosi che ti vendono un prodotto per le pulizie o qualcosa che generalmente non è mai connessa ai motivi della loro fama: così mi misi in contatto con Guillermo Coppola, che al tempo era il manager di Maradona. Mi disse che avremmo dovuto viaggiare verso il Messico, e così fu: lo raggiungemmo una settimana in Messico per lavorare, ho un bellissimo ricordo di quei gironi. Era l’anno del mondiale, la scusa perfetta per lavorare con Maradona e portare al Sonar l’immagine contemporanea dell’eroe che un è anti-eroe allo stesso tempo.
Esiste un’annata, come flyer e successivamente anche coi teaser video, di cui sei particolarmente orgoglioso?
In realtà non è che vada molto orgoglioso di un lavoro in particolare: come direttore creativo quello che m’interessa davvero è il processo, non il risultato. Direi piuttosto che ci sono dei singoli momenti di cui vado fiero: in tanti anni d’intenso lavoro ci sono stati processi di produzione preziosi. È proprio dalle tante innumerevoli situazioni in cui mi sono ritrovato a curare l’immagine del festival che mi sento orgoglioso, fino all’idea di estendere temporalmente il concetto d’immagine del festival alla produzione di un film / lungometraggio, come accade ora con “Ancha Es Castilla” ed è accaduto con “Finisterrae”.
Parlaci appunto anche della tua attività da vero e proprio regista: come è nato ad esempio “Finisterrae”?
L’idea di “Finisterrae” è nata dal desiderio di superare il formato bidimensionale dell’immagine del festival, qualcosa che forse iniziava a starmi stretto. Certo, il video era una componente che accompagnava già da un decennio il festival, ma l’idea di scansione temporale era qualcosa che volevo spingere più in là, al di là dello stesso evento. Di qui l’idea di due fantasmi che partono dal Sònar 2009 per dirigersi verso Finesterrae, che significa fine del mondo, ma che in gallego significa anche La Coruña, ovvero lì dove si svolgeva il Sonar Galizia 2009. Un anno prima di iniziare le riprese di “Finesterrae”, infatti, il classico formato del video che accompagnava le edizioni del Sonar si era già trasformato in lungometraggio i cui protagonisti incarnavano l’immagine del festival nel 2009: una sorta di road-movie surrealista, ambientato tra le nevi, dove si omaggia tanto la musica classica come l’elettronica. È da qui che prese forma l’idea che i protagonisti del Sonar 2010 potessero provenire dal Sonar 2009, così iniziammo a girare Finisterrae durante il festival, e le riprese sono proseguite per tutto l’anno fino all’uscita nel 2010.
Esiste un modo per riassumere in poche righe la tua personale poetica espressiva?
È molto tempo che non consumo cultura nel senso più stretto del termine, credo che lavoro di più con un immaginario di tipo personale. Penso che l’autoironia sia sempre qualcosa di molto sano e importante per l’individuo. Con il passare degli anni mi fisso sempre più sulle banali cose di ogni giorno,sui singoli istanti, da quelli che possono essere fonte d’ispirazione per un aspetto musicale, visivo o sensoriale fino ad espressioni che si convertono quasi in piccole lezioni di vita.
Per quanto riguarda l’immaginario legato all’edizione 2014 del Sonar, quali “istruzioni per l’uso” ci daresti? Quali chiavi interpretative?
Non parlerei di “istruzioni”, nel senso di foglietti delle istruzioni di montaggio. Ancora di meno lo farei nel campo culturale, dove troppe istruzioni bloccano la creatività anche del fruitore. Di certo quest’anno c’è qualcosa di più domestico e familiare, nell’immaginario di “Ancha es Castilla”. Era da tempo che pensavo all’idea di mettere insieme alcuni materiali e ispirazioni provenienti da tradizioni cinematografiche diverse ma molto riconosciute nell’immaginario collettivo. Pensavo alle tradizioni accomunate da diffusi aspetti “trash”, come quelli del cinema fantastico, passando poi per quello horror, fino al giallo d’autore. Quando poi si riportano questi aspetti in una dimensione contenuta, più che nel senso di “breve”, nel senso vero e proprio di “home-made”, ecco una grande attenzione al particolare, ai grandi e ai piccoli dettagli. E’ così che le pareti di un vecchio appartamento della provincia di Barcellona si sono trasformate in una struttura di lavoro ideale, che non presentava problemi di “forma”, tanto in termini di cornice che di contenuti. Di qui, il fatto che nei teaser di quest’anno si possa vedere una mano oppure la lampada con la quale abbiamo illuminato una scena, più tanti altri particolari bizzarri da “fuori-scena”: come a smitizzare l’immaginario che mi aveva ispirato.
Avete mai avuto paura, voi come Advanced, la crew che dà vita al festival, che il Sonar stesse diventando qualcosa di troppo grosso? O avete sempre avuto tutto sotto controllo?
In realtà non c’è mai stato tempo di avere paura, né di vedere il Sonar come qualcosa che fosse fuori dalla nostra portata. Vivendo il festival da dentro, direi che la crescita in termini di pubblico è stata sì sempre costante ma mai così repentina da farci paura. È piuttosto la crescita in termini di proposte e contenuti, quella che ci ha sempre coinvolto più da vicino; una crescita che si basa sulla riflessione costante sulle nuove frontiere della tecnologia nel campo delle industrie creative. In tal senso, è proprio questo tipo di cultura (che è sempre stata la “nostra”) a essersi accresciuta, con i conseguenti riflessi benefici sul Sonar Festival.