Per chi scrive, Apparel Wax produce la migliore house music di marchio italico, con quattro EP e un quinto in uscita (8 ottobre) di pura, purissima house vecchia scuola abbracciata a uno stile jazzy che è virtuosismo e serenità. Decidere di fare un’intervista a quello che si definisce un collettivo fantasma, con un nome che spesso viene indicato come il nome della label (che invece è Apparel Music), non è certo facile. La sfida è ancora più ardita quando si scopre che la mente dietro il gruppo di “fantasmi”, dietro l’etichetta e dietro tutto il progetto è DJ Kisk, al secolo Giuseppe D’Alessandro. Lui non è un personaggio semplice, è un sognatore vecchio stampo, è uno che non lo dice ma ha suonato dappertutto, dal Fabric al Tresòr. È produttore, inventore, grafico, creativo e anche – sebbene non ci tenga a farlo sapere – il project manager di Claudio Coccoluto. È chiaro che davanti a una figura simile non ci si poteva trattenere dallo scavare più a fondo possibile. Ne è venuta fuori un’intervista fiume, che parla di meditazione e attacchi di panico, EDM e house music, infine di quel distacco che progressivamente si è venuto a creare tra chi la musica la fa e chi la musica l’ascolta.
Partiamo dal principio. Mi racconti come nascono Apparel Wax e Apparel Music?
Allora partiamo proprio dal principio! La casa discografica Apparel Music nasce nel 2010 e da dieci anni tratta jazz. Non intendevamo associare il jazz alla musica elettronica, ma il virtuosismo del jazz all’elettronica in generale. L’idea era quella di andare alla ricerca di artisti che si esprimessero senza che fossero minimamente condizionati dalle chart né dal genere e che avessero un’interazione empatica con il jazz, fregandosene di armonie ritmiche e cose simili. Nei primi anni ammetto che è stato molto difficile, abbiamo trovato difficoltà nelle vendite: è ovvio che, quando fai prodotti più di nicchia, puoi creare il tuo zoccolo duro di fan ma con il tempo diventa sempre più complesso progredire, quindi è un continuo investimento.
A fondo perso…
Non necessariamente, perché guadagni un rispetto e una benevolenza attorno a te che non hanno prezzo. Ricordo di aver letto un’intervista a Pat Smith in cui diceva che l’unico lavoro che davvero paga è quello di tenere pulito il proprio nome. È un po’ quello che faccio anche io, perché se l’unico lavoro è celebrarsi, prendi ad esempio le classiche etichette che hanno un “label’s owner” che non fa altro che puntarsi un occhio di bue addosso, questo secondo me va a discapito della label. Diciamo anche che Apparel Music nasce in Inghilterra, questo è un passaggio fondamentale a mio avviso perché finché ho provato a farmi distribuire dall’Italia nessuno ci cagava di striscio. Non appena invece sono riuscito a costituire una Ltd a Londra, mi hanno risposto subito.
Questo perché l’Italia all’estero non riesce ancora a vendersi come una produzione di musica non commerciale ma di qualità.
Io ricordo che in quel periodo succedevano cose strane: Richie Hawtin mise un veto dicendo che non voleva più sentire demo provenienti dall’Italia. Questo accadeva sicuramente per l’improvvisazione di alcune persone dall’approccio assolutamente non professionale. Tutto questo è servito da insegnamento, ci ha insegnato soprattutto a tenere una linea. Io ho aperto Apparel Music nel 2010, in un periodo in cui i vinili non si stampavano più. Inoltre, Wordandsound mi fece un piccolo sgambetto inizialmente: mi fece firmare un contratto, distribuì il mio primo vinile ma dal secondo in poi – che era quello su cui avevo lavorato di più, che conteneva otto rivisitazioni di “Caravan” di Duke Ellington – mi disse che erano pieni con la distribuzione fisica, mettendomi in una condizione difficilissima. Considera che io avevo i vinili fermi, pronti per essere distribuiti, e un contratto di due anni con loro praticamente solo in digitale. Se provavo a rivolgermi ad altri per la distribuzione del vinile, mi chiudevano chiaramente le porte.
Una situazione con poche vie di uscita…
Credimi, le ho provate tutte, producendo circa quattrocento brani. Alla fine dei due anni sono tornato da loro dicendogli “o mi date anche la distribuzione fisica o me ne vado“, hanno accettato e da sei anni ho una distribuzione seria fatta da chi crede in me e nel mio lavoro.
Hai dovuto fare la gavetta della gavetta…
Assolutamente sì! Ma questo pagato e mi ha consentito di intrecciare collaborazioni su collaborazioni in giro per il mondo, fino a due anni fa, quando ho avuto una piccola parentesi nell’aiutare un’artista olandese ad aprire Quartet Series. Quella è stata anche un’altra spinta per andare a collaborare con il mondo dell’arte, del fumetto e della grafica, un campo che si è subito fuso molto bene con quello che facevo, con la mia label, e che in un certo senso – lo puoi vedere dalle copertine – è uno degli aspetti che contraddistingue la nostra casa discografica.
Arriviamo ad Apparel Wax…
Dopo otto anni, ho capito che avevo bisogno di dare una rinfrescata. Vuoi o non vuoi nell’ultimo periodo è tornato in voga questo approccio jazzy all’house, tenendo in qualche modo ancora vivo il mio catalogo. Ho deciso quindi di creare un collettivo anonimo che mettesse al primo posto la musica. Ho capito che l’unica soluzione per portare avanti la mia idea era quella di mettere in secondo piano l’artista. Ho creato quindi un collettivo fantasma, una quindicina di persone in tutto il mondo che amano vedere celebrati e suonati i loro vinili senza che si sappia che sono stati loro a farlo.
È un concetto interessante, che sento ripetersi da più parti. Un po’ di tempo fa intervistavo Obi Baby e mi diceva che a suo avviso il male del clubbing di questo periodo è proprio l’eccessiva importanza che viene data al DJ superstar, perché si perde il contatto con la musica.
È così! il mio sogno sai qual è? Organizzare un tour mondiale di Apparel Wax. Considera che questi artisti sono referenti per il collettivo nel Paese in cui vivono. L’idea è quella di proporre una formazione che si adatti alle esigenze. Immagina quindici artisti che sono tutti in qualche modo Apparel Wax, e viene deciso all’ultimo chi sale su quel palco, in quel determinato club o in quel determinato festival. Economicamente, poi, consente di abbattere i costi perché è un collettivo totalmente globale.
Come ti sei interfacciato inizialmente con i puristi del jazz, sia con la label sia con Apparel Wax dove immagino gli interscambi rimangano.
Sai, credo che questo purismo da parte dei jazzisti sia più un sentito dire che la verità. Se a livello empatico ti poni con i modi giusti, se fai capire ai musicisti che vuoi creare una connessione con l’esterno, vai a dischiudere un mondo che in realtà il jazzista cerca. Il jazzista nasce con l’improvvisazione, perché non dovrebbe cercare nuove contaminazioni? Il jazz per me è il primo e l’ultimo genere, è libertà.
Mi è chiaro il discorso di fondere la musica elettronica al virtuosismo del jazz, quello che ti chiedo però è come siete arrivati all’house music e a quel tipo di house music.
Mi piace definire quel tipo di house music lo-fi. È house che vuole avere quel calore e quella sporcizia di una volta. Ho scoperto due anni fa che c’erano degli artisti, per la maggior parte dalla Francia – ahimè – che avevano capito e delineato bene il concetto di party. Nel momento in cui mi sono trovato a creare questo progetto, si sono create delle linee guida che si avvicinavano molto a questa idea di festa. Ho pensato anche molto al concetto dei various artist, ai loro pezzi che passano sempre più sulle compilation e ho collegato queste idee a un concetto di comunione delle anime. È come fare l’amore, l’amore si fa in due, se ti masturbi non fai l’amore, non puoi fare un figlio. Io questo volevo, volevo dei figli creando attenzione e rispetto in un progetto che non fosse vario ma definito.
Sei andato a prendere quella parte dell’house un filo più organica che tra l’altro si era persa. Se vogliamo l’house in questo momento ha smarrito un po’ della sua organicità, del suo essere sexy…
Infatti, è proprio quello il discorso: la sensualità, il brio. Ci vuole un’onda.
Tra l’altro, in un percorso difficile perché non è proprio l’house del momento. Probabilmente l’house che in questo momento chiede il pubblico è quella di Purple Disco Machine, house molto lontana dalla vostra, sebbene io poi consideri vera house quella di Apparel Wax e non quella di Purple Disco Machine, che mi sembra più derivativa, fatta solo di re-edit, che rende di fatto questo genere statico, addirittura per alcuni morto.
È sempre un discorso di onde, di un pezzo che si fonde con la carriera di un’artista con cui si lega inesorabilmente. Il fatto di essere un collettivo evita questo sistema, i pezzi non rimangono associati a un unico artista ma vanno verso un’idea di genere. Secondo me è in corso un cambio generazionale, uno stacco da questa digitalizzazione, da questa sovrabbondanza di cose dello stesso genere. A questo sopravvivono buon gusto e creatività che non possono non fondersi in house organica. Il discorso della staticità è vasto. Prendi come nasce l’house. Nasce in un periodo in cui la disco music non faceva più nulla, c’erano orchestrine low budget da trenta persone chiuse in uno studio tutto il giorno a cercare la melodia sensuale. Quando hanno capito che questa cosa non portava più da nessuna parte, hanno trovato la chiave per riprendere a far ballare la gente. Hanno preso i sample della disco music, ci hanno messo un bel cassone sotto, una ritmica in levare. Se ci pensi non sono altro che “cut and paste” che vengono dal passato e che ancora inebriano produttori su produttori. Io credo che la vera musica emozionale si trovi dagli anni 80 a ritroso, se partiamo da questo concetto abbiamo ancora quaranta anni di musica da scoprire per cui basta una sinfonia, una piccola melodia per far partire un quid di reinterpretazione con una diversa chiave di lettura.
Aprendo un baule enorme di cose da scoprire…
Capisci perché a questo punto non si possa parlare di genere morto o statico? Questi sono i meccanismi che muovono i produttori da sempre. Anche la techno degli anni 90 è la stessa cosa di base – poi l’hanno vista in maniera diversa, hanno pensato a questa cosa per cui il computer comunica con l’uomo, ma la base è la stessa. Si potrebbe discutere parecchio del tipo di figura che portato in giro questa musica.
Facciamolo…
Ho sempre visto male la figura del DJ. Io mi sentivo uno sfigato tanto quanto il ragazzo con la chitarrina che suona in spiaggia e che alla fine è l’unico che non scopa. Da un anno e mezzo non ho più suonato e non suono più, per assurdo da quando esiste Apparel Wax mi sono fermato. Ho cominciato a soffrire di attacchi di panico e mi sono dovuto fermare. Io sono uno timido, uno che è sempre stato nel suo, lontano da meccanismi di autocelebrazione, ma ho suonato dappertutto, dal Fabric al Tresor, passando dall’essere il DJ della trattoria toscana o dell’Old Fashion. Forse ho cominciato ad assorbire troppo un meccanismo assurdo che stava investendo la figura del DJ.
Un meccanismo che prevedeva la totale alienazione e il totale distacco dal pubblico, quasi ci fosse un muro invalicabile tra la sala e la consolle…
Guarda il documentario sul povero Avicii, spiega bene questa forma di distacco che ha sancito la fine non solo di un genere ma di un certo tipo di intendere la musica e che credo e spero sia definitivamente finito. Di sicuro, è finito per me. Si era persa ogni forma di contatto tra chi la musica la faceva a e chi l’ascoltava, mentre il DJ dovrebbe essere un sacerdote, un comunicatore.
Possiamo dire che l’idea di Apparal Wax è un atto di ribellione contro questo sistema?
Sì, è esattamente quello. L’ unico modo per ribellarsi a questo meccanismo dove il nome è più importante del prodotto. Tutti vanno dietro a un nome. Tutti conoscono i Doors, ma se ti chiedo quale etichetta ha prodotto i Doors non la conosce nessuno. È bastato fare “due più due” rispetto a quello che non volevo e non volevamo essere. Ppensa che ancora oggi c’è qualcuno che pensa che Apparel Wax sia la label.
Non voglio calcare troppo la mano, ma ti chiedo se non sia anche un grido d’allarme, un invito a capire che questa continua ricerca del nome famoso, della superstar, del brand abbassa inevitabilmente la qualità di ciò che si ascolta.
Basta guardare il logo, è semplicemente un vinile che parla, che ti dice “seguimi, ascoltami”.
In un certo senso è anche l’anti-Internet, no? È come quando a quindici anni senza Web si compravano i dischi guardando la copertina e partiva una nuova conoscenza in forma fisica. In un momento storico dove conta il tutto e subito, torniamo sempre a questa idea di anti-sistema…
È un buon punto di vista, questo. Mi sembra abbastanza chiaro che debba esistere un interesse nello scoprire ciò che non sai. All’inizio c’erano un sacco di artisti che volevano uscire su Apparel Music per quanto esprimevamo già dalla copertina, forse proprio per questa idea di stimolare la ricerca oltre che per la cura del suono che da sempre ho provato a mettere in ciò che producevo.
Quali sono secondo te le regole fondamentali per passare dagli attacchi di panico di un anno e mezzo fa a questo stato di serenità che hai trovato producendo e vivendo Apparel Wax?
Sicuramente, meditare e perdonarsi. Arrivare alla consapevolezza che siamo tutti imperfetti e soprattutto tutti sotto lo stesso cielo, che la competizione non serve a un cazzo. C’è una frase di mia moglie, una scrittrice (Tatiana Carelli, autrice di Discocaine, ndI), che dice che la naturalità è l’evoluzione dell’eccesso. Questo spiega tutto secondo me. Il ritorno alla naturalità, la fuga da questa digitalizzazione di tutto e di tutti, il bisogno di contatto. C’è bisogno di toccare e di toccarsi, per questo è tornato il vinile: certe cose abbiamo bisogno di vederle, di toccarle.
Un sentimento di organicità…
Esatto. Una volta decretata la morte della discoteca intesa come club, siamo passati ai festival, ma i festival cosa sono? Il voler uscire da un ambiente chiuso, il bisogno di stare insieme all’aria aperta tutti vicini. È lo stesso concetto che prima animava i rave, lo stesso desiderio di fuga. Io credo sia normale che a questo punto se partiamo da tutte queste considerazioni circa le forme di ribellione, circa questo bisogno di annullare il distacco tra chi la musica la fa e chi la produce, non si poteva continuare ad ascoltare minimal techno o questi generi dissociativi che andavano di pari passo con certe droghe.
C’è anche una necessità di ristabilire il concetto di party inteso davvero come festa. L’house music non è riuscita a seguire il carrozzone EDM che sul concetto di divertimento sta facendo scuola, sebbene ci siano forti distanze anche verbali tra i vostri due generi.
Sono d’accordo su questa cosa. Ho aperto Apparel Tronic, una sotto-label di Apparel Music, con Ludovico Schilling per concentrarla sul lato sperimentale di Apparel Music, nel senso che gli artisti che partecipano a questo progetto suonano live, non sono DJ. All’inizio lui fece questo album con un brano che io per gioco feci remixare a un duo EDM. Quello era un brano davvero da testa delle classifiche, anche se non l’abbiamo mai pubblicato. Ti ho raccontato questa cosa per dirti che non c’è chiusura nei confronti dell’EDM né nei confronti di quanto questo carrozzone può produrre, perché per come la vedo io l’EDM ha il potere di tirare fuori dall’ oscuro un qualcosa di chiaro, perché ha questa attitudine di rendere le cose pacifiste.
Anche perché, proprio per il periodo storico che stiamo vivendo, c’è bisogno di una pacificazione in tutto, non solo tra i vari generi musicali.
L’house, come la techno, dovrebbe servire proprio a questo. Il concetto di base alla nascita di questi generi stava nel fatto che non riuscivi a capire, almeno inizialmente, chi avesse fatto un certo brano, se un canadese, un italiano, un francese, un americano: c’era un’idea di unificazione. Per questo uno dei principi fondamentali di Apparel Wax non sta nel celebrare l’autore bensì nel celebrare l’intuito che qualcuno ha nel trasmettere felicità, unire le persone.