Ci sono festival che nascono come piccolo ritrovo tra amici e diventano grande evento capace di muovere migliaia di persone senza perdere comunque l’anima musicale, puntando anche a nomi conosciuti, e poi ci sono delle cellule corsare che probabilmente mai diventeranno un evento grosso e che, soprattutto, non vogliono diventarlo. Ma nell’ecosistema musica sono preziose, preziosissime.
Jazz Is Dead da tempo rientra in questa ultima categoria. Un festival che sprigiona energia urticante e dissacrante – a partire dall’uso di “Jazz” nella parola sociale, quando del jazz può esserci l’improvvisazione e la libertà attitudinale, ma quasi mai la pasta sonora – ma anche un festival che ci riporta lì dove non dobbiamo mai dimenticarci di stare: nella ricerca, nella volontà di scoperta, nella passione bruciante che ti porta a volerti immergere in suoni programmaticamente non convenzionali (anche tagliando di traverso i generi).
E’ ancora più bello che il deus ex machina del festival, Alessandro Gambo, inizialmente si sia fatto un nome nel circuito del clubbing torinese: oggi sembra quasi una sorpresa che chi arriva da quel contesto lì possa andare al di là del “solito” dancefloor, coi soliti nomi e le solite dinamiche consolidate, approntando invece qualcosa che guarda alla musica a trecentosessanta gradi (quello che dovrebbero fare tutti i veri dj, nota bene, mentre oggi impari a mixare in quattro brano troppo simili tra loro e vai all’incasso). Vuol dire che stiamo “pensando” male, e Jazz Is Dead arriva ogni volta a ricordarcelo.
Da oggi 10 settembre fino a domenica 12 a Torino, al Bunker in zona Barriera Milano, ci si può davvero immergere nel senso di avventura sonora. Un’avventura senza limiti, che attraverso pure i territori “nostri” (dal bravissimo Andrea di Ilian Tape a Jolly Mare che dà libero sfogo alle sue idee senza più ansia di successi immediati), territori anche alt-gillespetersoniani (vedi alla voce Oaxaca o Healing Force Project), ma anche l’apocalisse noise (Balasz Pandi, Attila Csihar), l’improvvisazione radicale dei Frequency Disasters (il trio capitanato da Steve Beresford con Valentina Magaletti e Pierpaolo Martino), mille altre cose ancora (anche i dj set saranno curatissimi ed “on purpose”: Passenger ad esempio tirerà fuori la sua collezione di dischi più orientati verso il jazz improvvisativo).
Le info di base le trovate qui, il programma completo è questo, ogni giorno si inizia alle 18, l’ingresso con tessera ARCI è gratuito e non mancheranno anche spazi espositivi e ristorazioni fatte a modo. Perché sì: Jazz Is Dead non è un’accigliata accolita di snob esclusivisti, è un festival di ricerca ma al tempo stesso inclusivo, accogliente ed appassionante. Ti spinge ad andare su strade qualche volta anche accidentate (ma non sempre, attenzione), ma sono sempre strade che mettono al primo posto la libertà. La libertà espressiva. L’antidoto migliore contro le “messe cantate”. Ogni tanto è bello andare in chiesa e cantare tutti insieme, anzi, anche più di ogni tanto, ma dobbiamo ricordarci che un mondo che diventa tutto prevedibile e dove vai ad un festival non per fare delle scoperte ma solo ed esclusivamente per cantare in coro o alzare le braccia per le conferme è un mondo molto più povero, molto più noioso. Lunga, lunga vita a Jazz Is Dead.