“L’hating fa male solo a chi lo fa. In questa fase storica c’è questa ossessione di crearsi una immagine sulla base di quanto ti fai notare sui social, non di quanto fai. E’ facile diventare in questo momento il “man of the moment” facendo grosse polemiche: ecco, mi piace che in questa nostra chiacchierata non ce ne siano state”: in realtà però sono tante, e spesso molto appuntite, le considerazioni che sono venute fuori in questo lungo confronto con Lele Sacchi. Due release in uscita (a marzo “Dreaming Won’t Do” a suo nome, con remix di Tiger&Woods e Benoit&Sergio; ad aprile una faccenda potenzialmente grossa legata a una serie tv con di mezzo anche Recondite e Dardust), ma soprattutto una carriera più che ventennale, fatta inizialmente – e questo sorprenderà qualcuno – di drum’n’bass, hip hop e centri sociali, poi di residenze storiche (Magazzini Generali), di molte date all’estero, di ruoli strategici nel clubbing milanese e nazionale (Elita), di molto lavoro dietro le quinte (sonorizzazioni per brand di prestigio), di lavoro di qualità in radio (“In The Mix”, su Radio Due), di rischi presi (infilarsi nella prima avventura, quella forse ancora accettabile, di “Top Dj). Un curriculum densissimo, che davvero pochi in Italia possono vantare. Eppure lo guardi, Lele, e per aspetto, determinazione e motivazione ti sembra ancora un dj affacciatosi ora alla scena pronto, con la giusta dose di sicurezza in sé, a spaccare.
…no, non sono un “giovane”. Non sono in quella fascia anagrafica. Sei “giovane” finché la tua età ha un due davanti; passato quel limite, alla peggio sei un “giovane adulto”, che è una cosa diversa. Perché già una volta passati i trent’anni non è giusto che tu sia ancora considerato “giovane”. C’è un dato di fatto incontrovertibile: le nuove sottoculture e i nuovi movimenti sono sempre stato creati da adolescenti, da chi ha vent’anni.
Bene: significa che a noi due bisognerebbe dire “Basta, avete rotto il cazzo, levatevi”…?
No. Non è che uno deve smettere di fare le cose. Sono convinto di questo. Però di sicuro deve smetterla di di vendersi e considerarsi come un “giovane”… con tutto quel che ne consegue. Anche perché passata una certa età, tutto quello che dici ha un peso: inizi ad avere una responsabilità, devi sapere fare da guida visto che l’esperienza ce l’hai, devi sapere in qualche modo educare. Vale soprattutto nel nostro periodo storico, quello attuale, in cui mi pare che dalle generazioni più giovani, almeno nel nostro settore, c’è molto rispetto e molta attenzione per quello che diciamo e facciamo. Ed è giusto sia così. Quando ero io, ad essere ventenne, di rispetto verso i trentenni, quarantenni e passa ce n’era molto di meno.
Oh sì. Quelli più vecchi volevi spazzarli via.
Assolutamente. Era così negli anni ’60, ’70 i ’80, la cosa è arrivata fino agli anni ’90. Poi si è moderata. E va bene. Perché l’equilibrio serve, saper riconoscere chi ti può dare un mano ad orientarti e chi può farti da guida in modo sensato è importante. Resta però fermo il fatto che le vere rivoluzioni possono e devono essere fatte solo da chi è giovane. Solo così c’è la vera spontaneità. Perché da una certa soglia in poi, è fisiologica che tu non possa essere più spontaneo: hai fatto e visto talmente tante cose che ti viene sempre da essere più strategico che impulsivo.
Nella nostra, di generazione, quella dei nati negli anni ’70, c’era proprio la voglia di scardinare via sia il pubblico che la critica di matrice rock. Era questa la nostra battaglia.
Vero. C’è stata, questa battaglia. C’è stata perché ce la siamo portata in eredità dai decenni precedenti, dove questa forma di conflitto era visto come un passaggio inevitabile. Ma attenzione, la nostra non era una battaglia contro la musica rock in sé. Io, per dire, mi sento al cento per cento figlio musicalmente del punk, delle chitarre, perché quello è il momento in cui c’è stato il primo “incendio interiore” che mi ha portato a comprare dischi, ad andare ai concerti, questo fin da quando avevi tipo dodici o tredici anni. Ecco, io posso tranquillamente dire che da giovane ho fatto un sacco di cose: per questo trovo importante che chi abbia vent’anni o meno lo faccia anche oggi, che sia attivo, protagonista, che agisca realmente. Torniamo ai nostri, di vent’anni: sì, c’era tutta una fascia di fruitori della musica (da pubblico come da giornalisti o addetti al settore) che aveva un’ottica di vedere il tutto che era diversa e, ai nostri occhi, profondamente sbagliata o comunque superata. Li vedevamo come dei tromboni: vero. Avevamo le nostre ragioni, credo. Sai perché? Perché si trattava di persone che erano cresciute sì col rock ma con idee che gli erano state messe stando in Italia e in Italia, lo sappiamo bene, su certi argomenti e certi settori c’è sempre stata una grande arretratezza culturale rispetto ad altre nazioni. Soprattutto nel campo della musica rock. Quindi quello che loro avevano introiettato non era la cultura rock in musica, ma era la cultura rock in musica alla maniera italiana – una maniera approssimativa ed arretrata, perché negli anni ’60 e ’70 questa cultura è arrivata dalle nostre parti filtrata in modo molto approssimativo. Ti faccio un esempio concreto: la musica rock non è, di suo, una musica politica. In Italia invece per un sacco di tempo l’abbiamo presentata come tale; poi, lascia stare che comunque oggi ci sarebbe effettivamente bisogno di molta più consapevolezza politica anche in chi è appassionato di musica, questo è un discorso a parte, per quanto verissimo. Quello che voglio dire è che per molto tempo in Italia del rock, e di quello che significava, è arrivata una visione distorta, parziale, non pura. Quindi sì, ho combattuto contro certe cose: e posso dire che penso ancora adesso di essere stato dalla parte giusta, di aver combattuto battaglie sacrosante. Ho fatto errori, quelli li abbiamo fatti tutti, ma di sicuro abbiamo fatto molto per far sì che la techno, l’house, la club culture in generale venissero accolte nel discorso culturale. Ecco, forse qui sta la differenza: chi ha vent’anni oggi vede nei quarantenni – come posso essere io, come sei tu, come può essere un Dj Tennis per parlare di un nostro amico comune e di una persona con esperienze simili – delle persone che comunque stanno dalla loro parte, vogliono parlare lo stesso alfabeto. Un tempo non era così. Un tempo ci sentivamo dalla parte opposta della barricata, rispetto a un Luzzato Fegiz. Da adolescente, l’unica musica che ascoltavo era l’hardcore punk, i Negazione, gli Indigesti, e poi nei miei vent’anni è arrivato l’hip hop, prima con le Posse, in modo spurio, poi con espressioni più autentiche come Sangue Misto, Kaos, eccetera. Era tutto antitetico, rispetto al mondo degli “adulti”. Oggi invece mi pare che spesso e volentieri, tra generazioni diverse, tra “noi” e “loro”, ci sia comunità d’intenti e una lingua culturale condivisa.
Quando ero io, ad essere ventenne, di rispetto verso i trentenni, quarantenni e passa ce n’era molto di meno
Potrebbe essere un rischio tutto questo? Perché a furia di essere sulla stessa barca e di condividere istanze simili, il problema è che potrebbe diventare tutto troppo statico, senza una dinamica interna, senza contrasti che spingano a un cambiamento e ad un’evoluzione.
Che si sia in una fase molto statica, è assolutamente vero. Bisogna avere l’onestà di riconoscerlo. E non è questione di voler fare i tromboni. Occhio ad un’altra cosa, però: io trovo parecchi non-ragazzini che si entusiasmano in maniera sospetta per alcune musiche fatta da giovani e che si rivolgono in primis ai giovani, senza il minimo approccio critico. Non sto dicendo che oggi non escano dischi validi, anzi. Io ascolto montagne di musica, mi diverto a farlo, di release buone e anche ottime ce ne sono parecchie. Ma non posso non notare che manca ad esempio una cosa: i grandi album, quelli che ti soddisfano e ti emozionano dall’inizio alla fine, quelli che hanno sia i grandi singoli che una coerenza e una compattezza complessiva. Oggi devi scegliere fra gli album di “flusso”, belli ed interessanti, senza però due o tre pezzi che possano diventare delle vere hit; o, al contrario, trovi dischi che hanno due o tre hit ma tutto il resto è un riempitivo. Io invece sono molto affezionato al formato album quando è fatto in perfetto equilibrio tra questi due estremi, quando riesce ad essere sia una bella opera ascoltata nel suo insieme senza per questo rinunciare ad avere due o tre pezzi che veramente spaccano, che possono parlare a tutti: è un’arte difficile e preziosa, e per me molto importante, saper combinare questi due aspetti senza sacrificarli a vicenda. La situazione odierna volendo ti dà più libertà, sia chiaro, questo non si può negare: perché volendo puoi fare un album anche senza l’assoluta necessità che ci siano dei potenziali singoli dentro (che un tempo invece erano obbligatori, perché altrimenti l’album non lo potevi fare e basta), così come puoi stare sul mercato anche solo tirando fuori delle tracce isolate, solo singoli. Però non bisogna perdere una visione più d’assieme, che non sia concentrata solo sul presente. Va benissimo tentare di comprendere le epoche che si vivono, ed è stupido essere contro a prescindere rispetto ad esse, non ha molto senso; al tempo stesso però vedo tante, troppe persone che inseguono l’ultima novità come se fosse il Bene assoluto. Io, sinceramente, se devo ascoltarmi un disco per piacere personale continuerò a preferire i Fugazi a Jlin. Il che non significa snobbare Jlin: l’ascolterò, tenterò di comprenderne il senso e la rilevanza rispetto a quanto succede oggi, per me questo è un aggiornamento professionale importante, ma non per questo me la farò piacere a forza, perché sennò se non riesco a farmela piacere allora vuol dire che non ci capisco più nulla. Ecco, dobbiamo recuperare la parte più bella musica, dell’ascoltarla: potervisi immergere senza avere l’ossessione di dare sempre un giudizio estremo (questo sì / questo no) su tutto. Un’ossessione che è coltivata da questa società che comunica a misura di social network. Oggi bisogna avere un’opinione su tutto, e deve essere il più radicale possibile perché solo così ci si riesce a far notare.
Quindi, se devi scegliere ascolti i Fugazi, ma non hai problemi con chi ascolta Jlin.
Mmmmh. Problemi no.
Però sei perplesso.
Torniamo proprio alla questione generazionale, con cui abbiamo iniziato questa chiacchierata. Chissà, forse siamo proprio noi trenta/quarantenni che siamo ancora schiavi di un certo tipo di schema interpretativo, quello che chiama sempre in causa uno scontro tra generazioni, una dicotomia tra vecchio e nuovo. Forse un diciottenne di oggi questi problemi non se li pone proprio. E ci sta: perché se ci pensi, vivono un rapporto con gli adulti – in primis coi loro genitori – che è completamente diverso da quello che avevamo noi. Molto più da “pari”, da amici, da persone con cui possono condividere interessi. In generale può essere che sia cambiato proprio il concetto del tempo: questo anche perché oggi puoi avere – nel campo dei consumi culturali e sociali – tutto e subito e magari pure gratis, ovunque esso o essi si trovino. In questo modo viene a cadere la percezione della distanza, delle cose costruite col tempo. Ma va benissimo. Quelli che però non capisco sono coloro che invece hanno un altro background, una storia diversa, ma fingono in primis a se stessi di essere perfettamente organici alla attuale attitudine nel fruire le cose e, di conseguenza, nel giudicarle. Detto in parole povere: quelli che pur con una certa esperienza alle spalle si buttano per forza sempre e comunque sull’ultima novità emergente, dicendo che è una figata – e questo solo per dimostrare che sono perfettamente al passo coi tempi. Questa per me è una stronzata.
Io, sinceramente, se devo ascoltarmi un disco per piacere personale continuerò a preferire i Fugazi a Jlin
Ti faccio però a questo punto una domanda: ma la musica elettronica, quella diciamo a matrice dancefloor nel senso più ampio del termine, è ancora la musica per eccellenza rivolta verso il futuro, come è stata fin dalla sua nascita e per molti anni, o non più?
Negli ultimi due, tre anni è emersa una tendenza, che io trovo comunque corretta, di guardare molto ai grandi classici del genere. Un tempo non era così. Che accada ora, ci sta: perché dall’avvento di techno e house sono passati più di vent’anni, quindi ormai di mezzo c’è un intero ciclo generazionale; perché in tutto questo tempo è fisiologico che ci siano dei brani che abbiano avuto la possibilità di diventare via via dei classici, testati nella loro resistenza nel tempo; e perché nell’ultimo periodo, effettivamente, questa sfera musicale non è più riuscita ad esprimere grandi hit, quindi giocoforza si va a guardare a quelle del passato. Resta tuttavia il fatto che se vai ad ascoltare un dj set di musica elettronica, in tutte le sue declinazioni possibili, è ancora oggi il contesto in cui ascolti la maggior percentuale di musica nuova, appena sfornata, così nuova che non la conosci proprio. Credo che questo sia ancora una grandissima distinzione rispetto ad altre scene musicali. E, fondamentalmente, è stato qualcosa di rivoluzionario. Perché se pensi agli altri sottogeneri, nel momento della loro fruizione sotto forma di dj set e di serata in un locale, difficilmente incontri situazioni in cui gli unici brani conosciuti dal pubblico siano uno o due, o giù di lì. Significa che la musica elettronica da club presuppone un’audience che arriva con un particolare tipo di attitudine, qualcosa di molto ben disposto verso il futuro, verso la novità, verso l’inedito. Questo aspetto per fortuna è ancora vivo. Certo: come dicevo prima, mancano sempre di più le hit. Ed è questo uno dei motivi per cui si sta perdendo terreno rispetto a, per dire, l’hip hop. Non ci sono le hit. E’ da un po’ che non si riescono a sfornare delle hit.
A proposito di contesti d’appartenenza: quanto può averti fatto male il fatto di essere stato legato così a lungo e così intensamente coi Magazzini Generali, a Milano? Nel senso: avresti potuto lavorare di più, come dire?, sul “branding di te stesso” andando al di là del tuo ruolo di resident e direttore artistico lì, che è quello che ha occupato un momento cruciale della tua vita (in primis, della tua carriera) per un bel po’ di tempo.
Non saprei. Di sicuro, reputo una fortuna essere stato legati così intensamente e per tanti anni ad un posto come i Magazzini Generali. Perché parliamo di un club che per moltissimo tempo è stato un vero e proprio punto di riferimento. Poi sì, magari da un certo momento in avanti si è un po’ “trascinato”, ma sono cicli normali che capitano a tutti i grandi club. Ora tra l’altro vedo che ha ripreso a fare delle cose importanti e di qualità, dopo un periodo un po’ buio almeno su certe cose, ma su questo non posso dire nulla, sono solo un osservatore esterno già da un po’. La mia storia “interna” ai Magazzini inizia con la stagione 1999/2000 e dura fino al 2012 circa.
E’ un periodo di tempo lunghissimo.
Abbastanza, sì. Ma anche Elita, se ci pensi, è dal 2006 che ci sono coinvolto e siamo ancora qua, così come Radio Rai ormai sono sette anni che ci lavoro. La gente mi vede in giro per molte cose, ed effettivamente è così, un po’ di qua un po’ di là, ma quando ci sono progetti in cui credo fermamente il rapporto è sempre molto lungo. Questo contrariamente alla media del nostro ambiente, dove i rapporti di lavoro tendono ad essere un po’ effimeri. Io sono convinto che sia importante costruire, e per costruire bene ci vuole tempo: è inevitabile. I Magazzini sono stati per Milano un grande valore aggiunto, per quanto riguarda la sua identità musicale, e lo stesso si può dire per il Tunnel Club: sono fiero di aver fatto parte di entrambe queste realtà, in modi e tempi diversi. E’ stato molto importante per me. Mi sono fatto in quattro per poter dare qualcosa a quei posti, e ho anche ricevuto molto in cambio. Pensa ai Magazzini: ad un certo punto era diventato un club di rilevanza nazionale e anzi, per qualche anno proprio di rilevanza internazionale. Lo so perché c’è stato un periodo in cui ho suonato tanto all’estero semplicemente perché ero il resident dei Magazzini Generali di Milano, e questo bastava per rendermi interessante e rispettato anche fuori dall’Italia. Un tempo funzionava così, oggi mi pare funzioni molto di meno: il prestigio dell’essere resident è molto calato.
Decisamente. Soprattutto se non sei resident al Berghain o al Fabric.
Ma guarda, pure lì. Credo che oggi Craig Richards prenda le date in giro perché è Craig Richards, ha già un “nome” suo cioè, lì dove prima quello che affascinava era che fosse il resident di un club così importante.
Beh, torniamo alla domanda: legarti così tanto ai Magazzini ti ha penalizzato, in ottica di diciamo così carriera?
E’ una cosa che mi venne già detta qualche tempo fa da un collega, ed effettivamente mi fece venire un dubbio così grosso che quasi non ci dormii una notte. Però, io sono molto contento di tutto quello che ho fatto finora e di come mi sono andate le cose. Grazie alla musica, ho avuto tutto quello che volevo ottenere. “Sì, ma avresti dovuto puntare di più su te stesso”: chissà, magari è pure vero, ma la cosa ironica è che spesso mi è stato rinfacciato esattamente il contrario, ovvero il fatto di infilarmi un po’ dappertutto, di qua e di là. Cosa posso dire? Da un lato c’è stata una “miccia” che si è accesa in anni molto particolari, quando l’underground è emerso ed è finito anche in contesti grossi e molto strutturati – penso ad esempio ad MTV, che allora era veramente un gigante, il mainstream per eccellenza, che era venuto ai Magazzini a fare “MTV Clubbing”, vere e proprie serate che poi finivano nella loro programmazione tv – e anche quando c’è stato un momento di passaggio cruciale nelle musiche da club, con l’avvento della minimal da un lato o dell’electro-house dall’altro. E’ in quel momento che sono arrivate tante energie nuove, che molte persone si sono avvicinate alla club culture: non era solo questione di avere il dj di grido, no, era tutto il contesto che attirava, emozionava, attraeva nuove persone. Non sono stato io a scrivere “Body Language”, “Pleasure From The Bass” o “The Sky Was Pink”, ma io ero lì, con la fortuna di essere resident e poi direttore artistico di uno dei locali più attivi e rappresentativi di quella scena… e con quindi anche l’opportunità di portare in Italia un certo tipo di artisti, entrandoci direttamente in contatto. Che poi, molti di loro erano amici già da prima per il mio lavoro in discografia, ma su questo magari ci torniamo dopo. Non sto dicendo che i Magazzini fossero l’unico locale d’Italia, questo assolutamente no, ma era comunque in una città cruciale come Milano e con un pubblico che per anni è stato molto bello ed “educato” musicalmente. Mi ricordo una conversazione con Bruno Bolla, uno che ha fatto la storia della club culture in Italia come dj: durante i primi anni di Jetlag ai Magazzini, serata assolutamente house, facevamo numeri incredibili e li facevamo con pochissimi guest stranieri, eppure era un periodo – tra il 2000 e il 2003 – in cui la musica house sembrava passarsela un po’ male in giro. In quel periodo sulla bocca di tutti c’erano piuttosto l’hip hop (vedi come le cose vanno a cicli?) o l’indie rock, che era spinto tantissimo da Mtv; sembrava che il clubbing non interessasse più le nuove generazioni. E infatti guardavamo il pubblico, con Bruno, e ci dicevamo “Cazzo, tutto pieno imballato, ma hanno tutti trent’anni, non può durare, questo ciclo finirà”. Perché deve essere molto chiara una cosa: passati i vent’anni, le cose non sono più come prima. Esci di meno, inizi ad avere un lavoro, magari ti formi una famiglia, arrivano i figli, e comunque tu per primo non hai più i tempi di recupero di un tempo, non ce la fai ad uscire due, tre sere a settimana. Insomma, eravamo pronti al peggio, quando invece è successo che è arrivata una nuova ondata di musica pazzesca – quella che ti citavo prima – e i club si sono riempiti di ventenni, non solo il nostro club, tutti quanti. Però non voglio eludere la domanda: non so, rispondere è difficile, quello che è certo è che non ho rimorsi, non posso averne. Sicuramente ho vissuto un momento storico molto particolare in cui parecchi dj hanno saputo capitalizzare al meglio la loro posizione. E uso quasi un eufemismo. Non sto qua a farti i nomi: non mi interessa farli, per molti di loro sono anzi molto contento. Una cosa è certa: io sono ancora qua. Altri, invece, hanno avuto delle fiammate intensissime ma poi è come se fossero scomparsi. Quindi boh, difficile dire se a fare diversamente sarebbe stato meglio, nel mio caso.
Io sono convinto che sia importante costruire, e per costruire bene ci vuole tempo
Ad ogni modo sei stato uno dei primi ad emergere come “personaggio”, almeno nella generazione arrivata dalla seconda metà degli anni ’90. La cosa che trovo interessante è che tutti gli altri dj emersi come personaggi – penso a un Rocca, un Bertallot – erano più legati alla musica elettronica che piaceva ai giornalisti musicali di estrazione più rock, che poi era quella che si ascoltava non nelle discoteche ma nei centro sociali o in club completamente atipici come Maffia, Link, Brancaleone.
Bisogna conoscerla bene, questa storia. Bisognava esserci. E tu c’eri. E’ vero: di tutti quelli emersi diciamo in quel periodo lì, sono l’unico che ha preso un indirizzo più marcatamente house, ovvero verso una musica che in teoria non passava attraverso determinati circuiti “alternativi”. Ma il mio background iniziale era il Tunnel, era la Pergola, era il Maffia, insomma, esattamente quel tipo di contesto tra centro sociale e club breakbeat / drum’n’bass. E se suonavo, nei primi anni, era molto più facile andassi a suonare in un club di matrice rock o reggae, come il Babylonia di Ponderano, piuttosto che in una discoteca tradizionale. Però ad un certo punto si erano aperte delle finestre fra il mondo house tradizionale, diciamo quello delle discoteche, e quello della scena alternativa. C’era molto interesse, davvero – probabilmente più da parte del mondo house tradizionale verso queste nuove realtà che viceversa.
C’era però stato l’esperimento di Zen, al Link di Bologna, una serata house in un centro sociale vero e proprio. E infatti da molti venne vista come una cosa incomprensibile, almeno da uno dei lati della barricata, diciamo quello non-discotecaro.
Però il Link era un luogo vasto e sfaccettato, poteva permettersi di fare un po’ di tutto. Il vero interesse è arrivato proprio dal mondo di Riccione, Rimini, da quello degli after nelle discoteche: ad un certo punto ha visto questa cosa della drum’n’bass e della breakbeat e ha pensato “Caspita, è interessante, e a Londra sta funzionando, perché non proviamo anche noi”. Si sono quindi aperte delle porte; e quando le ho viste, io incuriosito sono andato a vedere, ci sono entrato. Nel farlo, non è che all’improvviso abbia cambiato genere musicale, sia chiaro. Ovvio, magari non potevo mettermi a suonare i dischi drum’n’buss duri e puri, robe della RAM di Andy C o della Virus di Ed Rush ed Optical, ma erano cose che già mi stavano stufando, anche se ovviamente avevo sempre piacere di infilarle nei miei set, perché io continuo a vedere un dj set come un viaggio dove ci sono momenti diversi, da quelli più ruvidi ed intensi ad altri più raffinati, quindi l’angolo per la drum’n’bass più cattiva poteva sempre esserci. Però ecco, sono sempre stato interessato anche a cose più morbide, a certe release breakbeat dal piglio jazzy o anche a certo big beat, così come al trip hop, e lì ti assicuro che nel mondo della house più aperta mentalmente si potevano incontrare molti incroci, molte contaminazioni. Se andavi a Londra, e io ho frequentato molto Londra (passavo le giornate ad Atlas Records, pensa che uno dei cassiera era Pete Herbert…), la contaminazione fra queste realtà era d’obbligo, era naturale. E’ in Italia che non lo era, guarda un po’. O almeno: per un po’ non lo è stata. Uno dei primi ad andare in questa direzione, a mostrare interesse verso le cose più spezzate e ad infilarle nei propri set house è stato Coccoluto…
…perché da sempre è una persona curiosa intellettualmente.
Ce l’ha sempre avuta, questa cosa. Nei suoi set house mi capitava di sentire dischi che suonavo anche io, anche se all’epoca io ero un dj “non-house”. Lui c’era, quando sono nate queste contaminazioni e questi interessi reciproci. C’era Giancarlino, ovviamente: i due hanno aperto assieme il Goa e proprio il Goa è stato decisivo nel far avvicinare questi due mondi diversi. Ma obbligatorio citare anche una persona fantastica che purtroppo non c’è più, Riccardo Petitti, resident al Brancaleone – caposaldo della scena breakbeat – ma persona con una cultura nella musica house pazzesca, e se ascoltavi bene i suoi set lo capivi subito. Io la drum’n’bass continuo ad amarla, ancora adesso appena parte una ritmica drum’n’bass sento un brivido d’emozione; ma non la drum’n’bass com’è diventata da un certo momento in poi, quando si è trasformata in una mera gara a chi ha il basso più grosso e il rullante più cattivo: qualcosa che non amo, non capisco e non voglio capire. Ma la prima drum’n’bass è ancora un “fuoco” dentro, per me. Sai cosa? Era una musica che era completamente nuova. Completamente. Porca puttana, Londra, 1993, sentivi arrivare questa musica assurda dalle macchine e davvero ti dicevi “Ma che cazzo è…”.
Ricordo. Sentivi la drum’n’bass e pensavi: questo è assurdo, questo è il futuro che plana nel presente, mai sentito qualcosa del genere prima, manco pensavo potesse esistere…
Esatto. Il futuro. Sì, tu avevi i tuoi ascolti, le tue passioni, poi però all’improvviso arrivava una musica che era qualcosa di letteralmente alieno. Oggi, e non so se faccio questo discorso per l’età, quando mai ti capita una cosa del genere? All’epoca poi c’era proprio la domanda “Ma questa musica, come cazzo si fa? In che modo”: mi ricordo io e il mio socio di allora Painé, che aveva già un campionatore, che ci mettevamo lì a tentare di capire come diavolo facessero a produrre quei suoni e quelle ritmiche lì… Oggi invece la velocità di diffusione delle informazioni ha cambiato le regole del gioco: ha tolto il mistero, e ha tolto la possibilità che una nuova scena si costruisca piano piano, passo dopo passo, prendendosi il tempo necessario. Tornando però alla drum’n’bass, ad un certo punto i suoi sviluppi avevano preso un po’ annoiarmi: non in Italia, in Italia era una cosa fresca, una scena nascente, mi entusiasmava vedere tutto questo fermento, non una cosa da grandi numeri ma sincera, compatta, entusiasta. Però in generale dal punto di vista artistico ho visto la drum’n’bass entrare progressivamente in una fase di vera e propria stagnazione creativa: forse perché in quegli anni è sempre stata una scena molto piccola, legata per lo più a Londra, dove quindi tutti conoscevano tutti e si tendeva quindi a diventare via via sempre più autoreferenziali, quello che contava non era la musica in generale ma fare il basso più grosso e il rullante più feroce del tuo collega. In quegli anni lavoravo anche alla White And Black, uno dei più importanti distributori di dischi indipendenti dell’epoca e in primis di elettronica, dove arrivava sì la drum’n’bass ma arrivava anche altro. E lì mi sono accorto che qualcosa di molto bello stava accadendo in campo deep house, specificatamente grazie alla scena francese.
Infatti ricordo che era dalla White And Black che mi arrivavano i promo della Versatile, di Gilb’r…
Non solo: c’era gente come Simon Lee, Trevor Jackson, Damian Lazarus, quindi non solo Francia ma anche Inghilterra, che aveva un modo veramente fresco e creativo di approcciarsi alla produzione, senza farsi prendere troppo dalle pippe di “come va fatta la musica house”, seguendo chissà quali Sacri Testi. C’erano loro, c’era la 2020 Vision di Ralph Lawson che è diventato un grande amico; c’era fermento, insomma, c’erano un sacco di idee interessanti. Soprattutto, non c’era quella chiusura mentale, quell’approccio conservatore che caratterizzava molta scena house italiana, dove sembrava appunto quasi di stare in chiesa, c’erano dei canoni sacri che andavano rispettati sempre e comunque, col risultato di rendere tutto un po’ vecchio, polveroso, prevedibile, poco interessante. Lì fuori si era molto più creativi, in campo house. E, aspetto da non sottovalutare, c’era molta stima verso i produttori italiani, molto genuino interesse nei nostri confronti. Cosa invece completamente assente nel mondo della drum’n’bass.
Una cosa è certa: io sono ancora qua. Altri, invece, hanno avuto delle fiammate intensissime ma poi è come se fossero scomparsi
Torniamo all’italia: quando hai iniziato a prendere questa direzione più house-centrica, tu che arrivavi invece dal mondo breakbeat e drum’n’bass, ti sei sentito in qualche modo isolato?
Ma no. A parte il fatto che fra i protagonisti di quella stagione, penso ad esempio anche ad Xplosiva oltre ai già citati, l’apertura mentale era totale. Anche per motivi di background, eh: la primissima serata che ho fatto con Xplosiva, nel 1994, era stata in un locale indie rock, capisci? Ed era pieno imballato. Di giovani. Ecco, quando sento dire “Eh, è una serata piena di ragazzini” come a dire che è piena di gente che non capisce nulla… ma chi se ne frega! Non ha senso questo discorso, davvero. Anzi: è proprio dai giovani che può arrivare l’energia che porta avanti cose nuove, evoluzioni. E’ un dato di fatto, non lo puoi mettere in discussione, è così. Tornando comunque alla domanda: nel mio “passaggio” verso contesti un po’ più a matrice house, se da un lato ho perso qualcosa dall’altro ho avuto soddisfazioni enormi. Penso ad esempio alla serata I Love America al Gasoline, che era qualcosa di molto particolare: i miei soci non erano dj ma non erano nemmeno i “soliti” PR; erano ad esempio persone come Luca Merli, il fotografo e regista, e Anna Maria Negri, all’epoca truccatrice di musicisti, e a loro interessava prima di tutto creare una bella situazione, una festa, erano fuori dalle dinamiche standard dei locali e delle serate, e questo ha creato qualcosa di veramente bello. Ma anche al Tunnel sono riuscito a portare serate deep house. E funzionava. Ma perché in quegli anni funzionava tutto.
Sì?
Sì. Tutto o quasi, ecco. Ma di sicuro era molto più facile. Chiaro, senza falsa modestia ci sarà stato anche un po’ di merito mio in questo funzionare bene, ma è vero che era un periodo in cui usciva molta più gente e c’erano molti più soldi. Ora parliamo tanto di crisi del clubbing e cose del genere, ma io vedo sempre sottovalutate queste cose basilari. Oggi uno non esce più due, tre sere alla settimana semplicemente perché non se lo può permettere. Così come oggi, ma questa è proprio una mera questione demografica, ci sono molti meno giovani in giro. Siamo una nazione che sta invecchiando, con sempre meno nascite, ed è un fenomeno che fino a quando la fascia forte dei fruitori di dancefloor era quella dei nati fino agli anni ’70 non si avvertiva, quello è stato l’ultimo periodo di boom demografico, mentre da lì in avanti – parlano i numeri – i giovani in Italia sono andati via via sempre più decrescendo. Vogliamo aggiungere altri punti importanti? Oggi, è cambiata la visione dell’entertainment, così come della socialità. Un tempo, se volevi divertirti in giro, o andavi al pub, o andavi al cinema, o andavi a ballare; e soprattutto, se le persone le volevi incontrare dovevi uscire per forza, era l’unica!, mentre oggi coi social network non è più così. Si è sempre potenzialmente in contatto coi social, anche se virtuale, e questo con più persone in contemporanea. Detto questo, sono convinto di aver fatto in questi anni delle cose decenti, perché ancora oggi ne posso constatare i frutti. Sono passati vent’anni, ma ancora mi inorgoglisce e quasi mi sorprende che ci sia gente che mi chiama a mettere i dischi; e andando in giro incontri un sacco di promoter che magari venivano a ballare alle tue serate, è anche parlando con loro che prendi coscienza di aver fatto comunque qualcosa di tangibile, qualcosa che è rimasto nella memoria delle persone, che ha lasciato un minimo di traccia. Dopodiché ripeto: quindici, venti anni fa era molto più facile fare le cose. Molto. Oggi, un dj o anche un promoter che partono da zero hanno vita molto ma molto più difficile. E’ anche vero che, rispetto al passato, hanno anche molte più scorciatoie per tentare di arrivare subito ad alti livelli. Il che non sempre è un bene.
Londra, 1993, sentivi arrivare questa musica assurda dalle macchine e davvero ti dicevi “Ma che cazzo è…”
A proposito di voler arrivare a certi livelli, nel tuo ruolo non solo di dj ma anche di responsabile di un programma dedicato alla dance su Radio Rai sei in una posizione molto “in vista”, per un giovane produttore che vuole farsi conoscere. Immagino siano in tanti a cercarti, a chiederti che i loro dischi vengano ascoltati e suonati…
Sì, ma devo dire che sono praticamente tutti molto gentili ed educati. Uno potrebbe pensare che sia circondato da gente insistente ma no, non è assolutamente così. Chissà, magari perché già sanno oggi che da un passaggio radio non ricaveranno dei soldi; un tempo passare per radio dava una svolta alle vendite dei tuoi dischi, oggi semplicemente non si vende quasi più un disco, quindi anche passare per radio non è più così decisivo, o almeno, non cambia nell’immediato le tue economie. Però ecco, ne approfitto per dire una cosa: mi scuso con tutte le persone a cui non riesco a rispondere. Ce ne sono, lo so.
Eh, immagino. Vale anche per me. Il problema è che non si tratta solo di ascoltare, ma anche di mettersi lì a dare un feedback.
Già. Tanto più che prima i promo potevano arrivarti solo in vinile o cd, oggi invece ti arrivano via chat di Facebook, via mail, via chiavetta che qualcuno ti ha allungato incontrandoti… Eh, se posso dare un consiglio: evitate le chiavette, vi prego, a meno che non conosciate bene la persona a cui la state dando. Io ho sempre dei dubbi quando si tratta di infilare una chiavetta nel mio laptop, le chiavette sono grandi portatrici di crash successivi… Ad ogni modo: sì, oggi tutto i dj e producer sono per lo più delle persone molto gentili ed educate. Noi lo eravamo molto di meno, alla loro età.
Altra domanda che non posso non farti: Top Dj. A distanza ormai di un po’ di tempo, come giudichi questa esperienza? Ne è valsa la pena andarci a partecipare come giurato? Anche perché, e credo tu lo sappia, per molti Lele Sacchi è “quello di Top Dj”.
Vero, ma fra questi molti non credo proprio ci siano i lettori di Soundwall. Se sei venuto a leggere questa intervista perché per te sono “quello di Top Dj” hai sbagliato testata, qui non troverai quello che cerchi. Per carità: ci sta che io venga identificato così da molte persone perché, è innegabile, la televisione dà una visibilità pazzesca, anche solo finendo sui canali via satellite (…quando poi, alla terza edizione, Top Dj è andato in chiaro io non c’entravo più: non ho visto com’è stata, non posso quindi dire nulla in proposito). Una cosa è certa: ogni decisione è figlia della propria epoca e del proprio contesto. Negli anni ’90, io non avrei mai accettato di partecipare ad una cosa come Top Dj. Non ne avrei sentito la necessità: potevo già comunicare benissimo con le persone che mi sarebbe piaciuto raggiungere, e questo senza bisogno di finire in televisione ma muovendomi semplicemente nel mio circuito. Il messaggio sarebbe arrivato bene a destinazione. Oggi è molto più difficile possa accadere. C’è molto più rumore di fondo, molta confusione. L’unico modo che hai per sperare di comunicare in modo efficace è poterti affidare ad un megafono piuttosto grande. Ecco, io non ho paura dei grandi megafoni. Anche perché ho sempre pensato che la qualità, quando c’è, va diffusa il più possibile. Quelle pose di “Ti sei venduto, sei andato in tv, ti sei compromesso col mainstream” non le sopportavo a quindici anni, quando andavo in skate e facevo stage diving ad ogni concerto a cui finivo, figuriamoci adesso. Io da adolescente ero nient’altro che contento che i Rage Against The Machine facessero i grandi numeri, o che i Nirvana diventassero famosi: perché per me era una vittoria, la sentivo come tale. Non è per niente vero che se arrivi in certi contesti il messaggio per forza si svilisce.
O che ti “sporchi” tu nel frequentarli.
Beh, a dire il vero un po’ di gente che si è resa ridicola quella c’è. Il problema sta tutto in quello che dichiari, in quello che sostieni all’inizio: ci sono due o tre persone della scena hip hop anni ’90, con cui ho avuto all’epoca delle discussioni belle grosse perché io ero un “venduto”, che se guardiamo a dove sono loro adesso e a cosa stanno facendo… Vedi: se tu racconti di essere un “soldato in missione”, è un problema. Che poi di che missioni stiamo parlando: lo fanno quelli dell’hip hop, ma lo fanno anche quelli legati che ne so alla techno di Detroit. Ecco, Detroit. Io ci sono stato. Più volte. Molti dei cosiddetti soldati della techno di Detroit che becchi qua, beh, a Detroit manco ci sono mai stati, e se per caso ci sono stati però non hanno mai conosciuto direttamente le persone: di che stiamo a parlare? Perché se fossero stati in città e soprattutto se avessero conosciuto le persone, sono abbastanza sicuro che capirebbero che un certo modo di fare il crociato, di essere in missione, è fuori luogo. Se proprio ti poni su posizioni davvero intransigenti, cerca di essere sicuro di sapere come stanno veramente le cose; e cerca anche di essere certo che fra cinque anni potrai ancora sostenere la stessa opinione, la stessa intransigenza. Io credo che – e qua ci ricolleghiamo anche a Top Dj – quello che io ho sempre cercato di fare è stato prima di tutto comunicare musica di qualità. Comunicarla il più e meglio possibile. Perché la musica è l’unica cosa che conta davvero. Le sottoculture e le controculture vanno benissimo, perché sono stati spesso e volentieri i luoghi dove ho incontrato la musica migliore e più interessante, ma appunto – al centro del discorso c’è sempre e comunque la musica, e una mia priorità è far conoscere quella bella a più persone possibili, non solo a chi la conosce già. Si può fare, si deve fare. Non bisogna essere snob: non bisogna pensare per principio che gli “altri” non sono in grado di capire nulla. Ok, persone che hanno il cervello completamente maciullato dalla tv ci sono, e loro sono irrecuperabili, ma non esistono solo ed unicamente loro. Ci sono quelli, e sono la maggioranza, che semplicemente non hanno avuto la fortuna di accedere ai media giusti. Io, in Rai, posso dire di avere la libertà più totale ed assoluta. Top Dj invece era un’altra cosa, era un gioco, aveva delle dinamiche diverse e, per me, delle intenzioni diverse: la mia speranza era di togliere pubblico agli chef, parlando sempre di reality, per portarli in un luogo dove potevano rendersi conto che esiste della musica che non conoscevano, ed è pure una musica bella. Potevi sentire pezzi di Âme o di A Tribe Called Quest, in Top Dj, lì dove la musica in televisione finora si era quasi sempre limitata a cose tipo Sarabanda: è o non è una cosa positiva? Io in televisione ci tornerei anche domani, a patto di poter comunicare sempre in modo corretto quello che sono e come la penso. E io, al momento, sono essenzialmente un dj. Con anche altri interessi, certo: sport, letteratura. Ma prima di tutto sono un dj.
Oggi, un dj o anche un promoter che partono da zero hanno vita molto ma molto più difficile. E’ anche vero che, rispetto al passato, hanno anche molte più scorciatoie per tentare di arrivare subito ad alti livelli. Il che non sempre è un bene
Come potremmo definirti, come dj, a livello di perimetri musicali? Quale potrebbe essere la definizione giusta?
Io trovo che la voce “house music”, nella sua accezione più vasta, possa essere un buon riassunto di dove mi colloco quando faccio il dj nei club. Perché è una definizione che può racchiudere veramente tante sfaccettature. Per me anche la techno è “house music”, ad esempio. Poi, chiaro che va benissimo usarli in modo specifico, che si tratta di due musiche differenti; ma io sia a Detroit che a Chicago ci sono stato spesso, ho parlato con molti dei protagonisti principali di entrambe le scene, ed hanno tutti un’esperienza e un’attitudine in comune. Ovvero, quella di partire dall’underground e di volerci immettere un suono molto “fisico” da un lato e molto intriso di elettronica dall’altro, anche perché negli anni ’80 l’elettronica era dappertutto, a partire dalla musica pop. Quindi ecco, “house music” per me va bene, per questo mondo, come definizione onnicomprensiva. E va bene come definizione per me: quando appunto faccio il dj nei club. Perché poi io con la musica lavoro anche in alti modi, ad esempio quando devo fare delle sonorizzazioni. Lì mi può capitare di costruire delle selezioni tutte improntate, che so, alla psichedelia anni ’60: e lo faccio con grande gioia. Perché magari mi spinge ad approfondire meglio alcuni argomenti su cui sì, un po’ di cose le so già, ma c’è sempre spazio per approfondire, e ci sono alcune committenze che mi spingono a farlo. Torniamo però alla musica da club: sinceramente, tutte le pippe e contropippe sui generi e sottogeneri non mi appassionano granché. Mi piace il termine “deep”, questo sì, e quindi uso volentieri “deep house”, ma questo perché per me “deep” non è un genere musicale ma una qualità, una attitudine: d’altro canto pure in italiano quando si dice di qualcosa o qualcuno che è “profondo” si intende che ha spessore, che è interessante, che è culturalmente stimolante e sostanzioso, che ti spinge ad averci a che fare in maniera approfondita. Ah giusto, fammi sottolineare una cosa, che ci tengo.
Vai.
La qualità è qualcosa di oggettivo. Il problema della musica leggera, dalla house al punk al pop al rap, è che non ha avuto finora una scuola critica. Questo perché la musica leggera è stata ampiamente risucchiata dal mercato, fin dagli anni ’50, e quindi è diventata prima di tutto una materia pronta per essere “marketizzata”: nell’esserlo, rappresenta prima di tutto una colonna sonora della nostra vita, qualcosa che ci tocca nell’emotività più personale (la forma più efficace di marketing è questa, da sempre). Pensa alla canzone che avevi in sottofondo mentre ti davi il tuo primo bacio: magari faceva schifo ma ehi!, era la canzone del tuo primo bacio, quindi anche se faceva schifo è bellissima comunque! Nel jazz non è così. Nella classica nemmeno. Lì una precisa scuola critica c’è. Non è che uno si può svegliare da un giorno all’altro e dire “Coltrane è una merda!”. O meglio: può…
…ma se lo dici sei fuori. Non ti prende sul serio nessuno.
Esatto. Sei considerato non attendibile. Un analfabeta di quel determinato genere musicale. Musica classica: stesso principio. Ma anche cinema – il mondo del cinema è rigorosissimo su queste cose. Nella musica leggera, invece, non c’è la scuola critica. C’è il giornalismo, questo sì: raccontano, lo fanno con un piglio antropologico, sociologico, contestualizzano, e io questo non lo voglio assolutamente sminuire, anzi, è esattamente quello che io insegno allo IED nei miei corsi sulle sottoculture e sui generi musicali. Ma la critica è un’altra cosa: è quella che dà degli ancoraggi, dei punti fissi. Gli Aqua sono merda, i Beatles no. Questa cosa che invece che chiunque può dire qualsiasi cosa, perché nella musica leggera non c’è un forte impianto critico, fa sì che si perda di vista la qualità come fattore centrale. La qualità è oggettiva. Io, mi dispiace, la vedo così.
(foto di Elen Vivienne)