C’è chi le simpatie se le guadagna a colpi di sciabolate e di free drink: per carità, va benissimo, ognuno è libero di scegliere i criteri con cui si trova più a suo agio. Ma la simpatia, anzi, l’amore che proviamo da sempre nei confronti di Dancity è qualcosa che ha delle origini molto diverse. Soprattutto, sono origini che di volta in volta vengono rinnovate, rinfrescate, rese più profonde. Personalmente, mi ritrovai a parlare in termini entusiastici di Dancity ancora all’alba dei tempi (prima ancora che Soundwall nascesse, forse, dovrei controllare le date), e lo feci senza avere la più pallida idea di chi fossero le persone che lo portavano avanti. Non quindi uno scambio di favori, non un “Parla bene degli eventi degli amici tuoi”, non una faccenda di pubbliche relazioni. Pubbliche relazioni che non sono da sminuire, perché se ben gestite sono skills preziose da portare avanti e che creano valore aggiunto. Ma appunto: “valore aggiunto”. Non devono essere un valore in sé.
Il valore in sé della crew di Dancity – e ora anche di Serendipity – è quello di aver sempre cercato di fare un passo in più partendo dall’arte, dai contenuti, dalla ricerca, dalla curiosità intellettuale e dalla voglia di non cedere agli hype e alle semplificazioni da mercato. Ora che una delle più grandi “macchine da hype” dell’ultimo decennio, quella Boiler Room che per fortuna unisce ad esso anche i contenuti, sbarca al Serendipity, il prossimo sabato 16 marzo, durante un mini-tour mondiale di un format che tocca solo otto selezionatissime realtà al mondo, è giusto da un lato celebrare la cosa (anche perché la line up è fatta con gusto: JASS e Solid Blake, la leggenda “atipica” nostrana Leo Anibaldi, il talentone Chevel e gli ottimi padroni di casa Giesse e Dj Soch), dall’altro è bello sottolineare che questo sia solo il frutto di un lavoro profondo portato avanti da anni, lavoro che il panel che dà alla direzione alla Boiler Room – attento al business, ma sempre sintonizzatissimo sui contenuti e sulle striature culturali più di spessore – ha appunto voluto riconoscere come eccellenza mondiale.
Ed è un lavoro che non porta sempre riconoscimenti tangibili ed immediati. E passa anche da scelte coraggiose. Perché se della Boiler Room, popolare com’è il marchio, parlano tutti e i biglietti in prevendita vanno via come il pane, molto più difficile è spendersi per una serata in cui chiami un artista poco noto e lo fai perché ci credi e (anche) perché ti piace la storia che ci sta dietro. Proprio come ha fatto Serendipity invitando a suonare dalle sue parti Sama’: dj/producer donna (purtroppo, siamo ancora in una fase storica in cui la cosa è poco frequente), dj/producer palestinese (quindi una terra complicata, sotto molti punti di vista, e che al momento è difficile trovare “sulla mappa”). Soprattutto, ed è questa la cosa più interessante, dj/producer con uno sguardo aperto, attivo, voglioso di creare ponti e superare confini, pronto a costruire lì dove prima c’era poco o nulla. Senza farsi scoraggiare. Ci siamo fatti una breve chiacchierata con lei, una testimonianza interessante; ma il primo plauso va davvero a chi qui in Italia la invita, a chi spesso e volentieri cerca di fare delle scelte di line up non banali, a chi cerca l’artista non scontato, l’artista con una storia da raccontare e non solo una fama da ostentare.
La prima curiosità è capire quali sono stati i primi artisti di musica elettronica ad entrare nei tuoi ascolti… e poi, in generale, quali sono quelli che hanno formato i tuoi gusti e la tua sensibilità artistica.
Beh Max Cooper e Jon Hopkins prima di tutto. Che poi, di Hopkins conoscevo due album, di Cooper sì e no cinque tracce. Ma erano finiti in loop totale nei miei ascolti. Nasce tutto da lì. E ancora oggi questi due sono gli artisti che più mi influenzano. Poi con gli anni si sono aggiunti James Zabiela, Stephan Bodzin, James Holden… però c’è un prima e dopo Londra, ovviamente.
Già, perché ad un certo punto dalla Palestina ti eri trasferita a Londra.
Esattamente. E lì gli artisti da nominare e le influenze si sono chiaramente moltiplicati, improvvisamente avevo accesso a tutta la musica che volevo.
Guarda, anche noi in Italia – che comunque è un paese con un mercato forte e pure una tradizione artistica mica male nella storia dell’elettronica, vedi l’house, l’italo-disco, la scena dei rave primi anni ’90, tutte cose che ad un certo punto erano molto popolari – comunque dobbiamo scontare il fatto che la dance elettronica sia sempre una faccenda essenzialmente di nicchia, da appassionati, da fissati. Non oso immaginare in Palestina. Si poteva parlare di “scena elettronica”? O eravate veramente pochi folli isolati, qualcosa insomma di molto lontano dall’essere una “scena”?
Ovviamente la seconda. E ti dirò, più o meno è ancora così. Il massimo che sia mai stato raggiunto, come affluenza ad un evento per questo tipo di musica, penso sia stato 300 persone. Non abbiamo neppure un club vero e proprio, con una programmazione un minimo regolare. Manco uno. Capisci insomma che parlare di “scena” è ancora fuori scala, al momento.
Poi è arrivata Londra, il tuo trasferimento lì. E trovare una “scena” decisamente non era più un problema. Dimmi, che aspettative avevi sulla vita nella capitale britannica, prima di andare a viverci? Come te la immaginavi e come, poi, l’hai trovata?
Beh, direi che molto semplicemente quello che immaginavo di trovare – l’ho trovato! E le mie aspettative erano alte, altissime. E’ incredibile quanto un anno di vita a Londra o poco più mi abbia cambiato, mi abbia fatto conoscere cose, sentire suoni, incontrare persone.
A Londra ti eri trasferita per andare a studiare alla SAE, che sa essere una scuola molto seria. Magari c’era pure il rischio che ti rintanassi a studiare tutto il tempo.
Abitavo a dieci minuti dal Fabric, hai già capito (ride, NdI)… Ogni tanto ci andavo pure in pigiama, guarda! Ho fatto veramente indigestione di serate, lì. DI tutte le serate fatte, a Londra ma non solo, ce n’è una che mi ricordo in particolar modo: uscire, prendere il treno per Manchester, c’era un anniversario di Pete Tong con Zabiela e Sasha in line up, arrivare prestissimo, essere tipo la seconda persona in fila per entrare e, ovviamente, l’ultima ad andare via, non dormire, riprendere un treno, tornare a Londra. Quella serata magica mi ha dato la spinta per completare la mia primissima produzione. Il grosso del lavoro finale l’ho fatto proprio nel viaggio in treno tornando verso Londra. Comunque, ecco: non è che non prendessi sul serio gli studi alla SAE. Anzi. Ho ottenuto i miei diplomi in Audio Engineering e Music Production con tutti gli onori. Mio padre non ci credeva. Anzi, credo che non c’abbia davvero creduto finché non ha sentito il mio nome chiamato a venire sul palco a ritirare il diploma… anzi, forse nemmeno in quel momento c’ha creduto davvero!
Dopo Londra, ti sei trasferita al Cairo, in Egitto. Com’è la vita lì? E non ti parlo solo della scena musicale in sé.
Cairo è folle. E’ incasinata, veloce, stressante, è la città che non dorme mai. E infatti, proprio lì ho scoperto che in fondo non è sempre necessario dormire (ride, NdI). Di sicuro, appena arrivata lì mi sono messa a lavorare come una pazza. Non potevo non farla: Cairo è considerata la “città delle arti” per tutto il Medio Oriente, e in questo la musica ha un ruolo assolutamente prominente, sia per quanto riguarda la tradizione che per quanto riguarda la contemporaneità. E’ il posto da cui la musica nasce e si muove, oggi, ed è spesso quello da cui arrivano le forme d’arte più coraggiose ed interessanti. Questo significa che se vuoi stare lì devi darti da fare, il contesto è di alto livello, ti chiede alta qualità in quello che fai.
E una cosa molto interessante che hai fatto è stato creare Awyay, una società specializzata in diritti musicali, un territorio ancora poco battuto in quelle zone.
Esattamente. Nel nostro catalogo sono entrati gli artisti più svariati di una regione, il Medio Oriente, che è ancora alle prime armi per quanto riguarda una corretta ed efficace gestione dei diritti legati alla propria produzione musicale. Abbiamo lavorato molto sulla partica delle licenze e delle sincronizzazioni, in primis per film e documentari: da un lato abbiamo fatto modo che i diritti degli artisti venissero tutelati nel momento in cui la loro musica veniva utlizzata, dall’altro abbiamo aiutato molti documentaristi e film-maker a trovare le giuste fonti sonore da utilizzare – interessanti artisticamente e perfettamente gestibili dal punto di vista dei diritti commerciali.
Stando nel mondo occidentale, tendiamo a vedere un po’ tutto dal “nostro” punto di vista: e quindi pop, rock e anche l’elettronica sono considerati il centro dell’universo musicale contemporaneo.
Per molti versi lo sono. E sì, si parla davvero di musica che sono nate e si sono sviluppate nel mondo occidentale: sarebbe stupido negarlo. Ma al tempo stesso, sarebbe stupido non vedere e non riconoscere i contributi, passati e futuri, che possono arrivare da altre parti del mondo.
Come mai non ti sei trasferita a Berlino, ad un certo punto?
Oh, Berlino no! Mi spaventa! Ci andassi a vivere, penso che perderei completamente il senso del tempo. Perché sarei sempre a ballare. L’ultima volta che ci sono stata crede di aver ballato qualcosa come trenta ore di fila… capisci? Per me sarebbe pericolosissimo. Mi piace troppo farlo. E lì non smetterei mai. Qualche settimana fa ero lì a suonare al Mensch Meier, ho finito tipo verso le 6 del mattino, e due ore dopo ero all’ingresso del Berghain che aspettavo di entrare… capisci? No, lì non devo andare a vivere mai.
Vorrei chiederti alla fine delle dritte su artisti di elettronica egiziani. A me piace molto Zuli, per dire. Qualche altro nome che dovrei segnarmi?
Direi Hasan Abu Allam ed Abdo Kladi.
(Foto di Desiré Van Den Berg)