Ci sono dischi di cui ci si innamora, per poi scoprire che non si tratta di casi isolati bensì di ponti che ti fanno scoprire nuovi microcosmi sonori, che prima non si sa bene per quale motivo erano sfuggiti all’orecchio, in quel marasma stimolante ma anche un po’ bulimico che è il presente musicale. E’ accaduto con “In The Mood” a firma di Massimo Amato, secondo disco col suo nome di nascita – precedentemente ci sono state le esperienze con i moniker Maxloved e Mono-Drone – edito l’anno scorso dalla Affordable Inner Space, etichetta nata dall’esperienza del collettivo di electronique.it. Di Massimo Amato ci ha colpito fin da subito la sua capacità di sintetizzare umori musicali diversi – elettronica, world music, jazz e funk – producendo un percorso coerente di elettronica suonata che si tinge di misticismo, con l’apporto di fiati, chitarre e percussioni dei multi-strumentisti con cui collabora. Nell’intervista che segue ci fa entrare dentro al suo mondo, con il garbo che lo contraddistingue. Buona lettura.
Qual è stato il tuo primo contatto con la musica?
Sono del 1964. Mio padre era un melomane e abbiamo sempre avuto giradischi a casa. Come se non bastasse mio fratello, di qualche anno più grande di me, ha fatto sempre circolare per casa molti dischi.
Che genere di dischi si mettevano sul piatto?
Mio padre, ahimè, era un verdiano. Non che odiasse Puccini, ovviamente, ma credo che di Verdi amasse anche i contenuti meta-musicali come il concetto di Patria e così via. Mio fratello invece era pazzo di Santana.
Qual è stato il primo disco che hai acquistato?
“Collage” de Le Orme, ma avevo già la cassetta. Era il 1976.
Ne viene fuori un quadro davvero singolare. Parlami della tua formazione musicale.
Se intendiamo a livello didattico, non ho formazione musicale. Non ho mai avuto insegnanti o frequentato scuole di musica. Ho approfondito negli ultimi anni i temi della musica modale e della classica indiana.
Credi che questo approccio ti abbia dato più libertà oppure, se potessi tornare indietro, cambieresti qualcosa?
Indubbiamente un po’ di teoria musicale e il solfeggio mi avrebbero fatto bene. Sotto una diversa prospettiva, come dici tu, il non avere schemi compositivi predeterminati può anche volgere in tuo favore. In ogni caso, l’assenza di confini precisi è una caratteristica della musica che suono.
Quando hai compreso di volerti cimentare in prima persona in campo musicale?
Fino a vent’anni avevo uno spazio fisso a Radio Città Futura Potenza. Poi, per anni e per motivi di lavoro, mi sono limitato a collezionare dischi e ad andare ai concerti. Alla fine degli anni ‘90 ho iniziato il mio percorso in direzione dell’elettronica suonata. Avevo un computer con 64 mega di RAM ed una Roland U20. Ho fatto circolare 3 dischi a nome di Maxloved fino al 2004, peraltro recensiti benino dalla rivista Blow Up.
Poi è arrivato l’alias Mono-Drone.
Nel 2005, sotto il nome Mono-Drone è uscito l’album “All Inclusive”, frutto di un periodo di ricerca e sperimentazione intenso. L’album, edito dalla netlabel norvegese Tibprod, registrò quasi diecimila download e un paio di splendide recensioni. Nel 2007, invece, la netlabel Laverna ha pubblicato “Muddy Notes”, un album che mi ha dato grandissime soddisfazioni. Poi, nel 2010, sempre con il nome Mono-Drone, ho autoprodotto “Lost Sunsets”, che mi piacerebbe ristampare. Nel 2014 è nato anche un progetto con Max Di Loreto e Nicola Alesini, denominato Jetsemani, che ha portato alla pubblicazione di “Come la Terra che Calpestate”.
Nel 2016 è partita l’avventura musicale con il tuo nome e cognome. Hai pubblicato per la Affordable Inner Space il disco “La Centrale Elettrica”. Mi racconti com’è andata?
Nel maggio del 2015 ho aperto per Gigi Masin un concerto al Museo della Centrale Elettrica Montemartini. Tra il pubblico c’erano Ivo D’Antoni e Massimiliano Loretucci di electronique.it a cui piacque la mia musica e quindi mi coinvolsero a registrare per la nascente Affordable Inner Space. Accettai e il novembre seguente uscì “La Centrale Elettrica”, a cui ha fatto seguito una discreta attività concertistica.
Dopo un solo anno, nel 2017, esce “In The Mood”, sempre sotto la Affordable Inner Space. Un disco che cita tanto jazz, a partire dal titolo, e che suona allo stesso tempo psichedelico, etnico, elettronico e funk. Com’è nato questo lavoro?
Affordable Inner Space is like being home (ride ndr). Molti dei pezzi di “In the Mood” sono stati suonati dal vivo prima che venissero incisi. L’idea era quella di approfondire le tematiche ritmiche de “La Centrale Elettrica” e di sviluppare quella che chiamo “improvvisazione compositiva”. Entrai in studio di registrazione con un po’ di idee e ne uscii con un doppio album. Devo dire che l’apporto di tutti i musicisti che hanno collaborato con me è stato determinante.
Parlami di questa attitudine jazz che attraversa tutta la tua produzione. E’ una cosa voluta?
Il jazz è entrato nei miei gusti abbastanza tardi. Però sono stato sempre un maniaco di soul e di rhythm & blues. In particolare, adoro il southern soul e i suono della Stax Records. Del jazz adoro l’improvvisazione e la libertà di espressione; al contrario non mi piace quando è relegato a mero canone espressivo. Le produzioni preferite del genere, per me, sono quelle degli inizi degli anni ‘70.
Qual è, invece, il tuo rapporto con l’elettronica? Dentro “In The Mood” si sente che c’è una presenza misurata ma sostanziale. Inoltre, vieni da un’avventura, quella di Mono-Drone della quale abbiamo parlato, dove l’elettronica riveste un ruolo primario.
Per anni ho suonato solo musica elettronica. “In the Mood” invece è un album contaminato da tanti suoni analogici; è ciò che mi piace indagare ora. Sostanzialmente è musica elettronica con l’apporto di fiati, chitarre e percussioni.
Ti piacciono gli Air? Il pezzo “Meaningful blue eyes” contenuta in “In The Mood” mi fa pensare alla band francese.
In un’altra intervista, per lo stesso pezzo, come ispirazione sono stati citati Boards Of Canada. Ovviamente adoro gli Air e tutta l’elettronica degli anni ’90 quindi può darsi che qualcosa si sia sedimentato in me.
Come nasce un tuo brano?
Di solito l’approccio è emotivo/emozionale. I pezzi vengono fuori in pochissime ore e poi magari non accade nulla per intere settimane. L’improvvisazione, poi, è determinante quando si tratta di incidere le parti degli altri musicisti. Io non scrivo le partiture ma cerco di trasmettere a chi suona con me il mood generale che ho in testa.
Com’è nata “All Related” contenuta in “In The Mood”? Con i suoi quindici minuti e trentuno secondi, occupa l’intera prima facciata del secondo disco. La definirei musica etnico-sciamanica.
“All Related” nasce come un loop di venti secondi. Pensare che sia divenuta una saga psichedelica mi fa sorridere. Abbiamo suonato dal vivo il pezzo molte volte prima di inciderlo. Una volta abbiamo suonato una versione di circa 35 minuti. La mia traccia psichedelica preferita, di ogni tempo, è “Dark Star” dei Grateful Dead. Penso di non dover aggiungere molto altro.
So che spesso inviti amici a casa per dare vita a delle session notturne particolarmente interessanti. Di cosa si tratta?
E’ difficile spiegare quello che succede senza richiamare gli insegnamenti della “Quarta Via” di Georges Gurdjeff. Si suona prima e dopo cena e le cose che succedono prima e dopo sono completamente diverse…
Se non sbaglio la “Quarta Via” è un concetto filosofico secondo il quale si può ottenere una sorta di risonanza con tutto ciò che ci circonda, sbaglio?
Secondo Gurdjieff la musica, attraverso le sue vibrazioni, produce sugli uomini delle alterazioni, che agiscono sia a livello fisico che su altro, vale a dire su ciò che lui definiva “vibrazioni energetiche” dei corpi. La Quarta Via punta in qualche modo all’evoluzione. Molti hanno cercato di definire quest’uomo così singolare, ma sfuggiva ad ogni spiegazione: autore di libri senza essere scrittore, autore di musiche senza essere musicista (era un suonatore di Harmonium), maestro di danza per vocazione e cuoco raffinato.
Tornando al disco, quali strumenti hai suonato per “In The Mood” e chi sono i musicisti che ti hanno accompagnato in questa avventura?
Nell’album ho suonato i miei strumenti di sempre: synth Korg e Roland, Vocoder, harmonium, santoor e melodica. Ovviamente il drum looping è stato determinante. I musicisti che mi hanno accompagnato sono:
Bass – Flavio Barbaro
Guitar – Dinraj
Oboe – Max Fuschetto
Percussion – Sandro Foà
Singing Bowls – Pietro Platania
Tenor Saxophone, Bass Clarinet – Riccardo Nebbiosi
Voice – Anna Caragnano
Si tratta di collaboratori dal grande talento e dal grande cuore. Mi hanno dato tanto e spero che le nostre strade si incrocino ancora molte altre volte.
La musica è sperimentazione ma, inevitabilmente, anche intrattenimento. Che percentuali concedi a queste due componenti?
Attualmente 30/70. Non mi ritengo un musicista sperimentale. La mia massima ambizione è quella di avere un suono personale che possa arrivare a tanti.
C’è qualcosa che ti piacerebbe fosse diverso nello scenario musicale contemporaneo?
Mi piacerebbe vivere un presente dove le esibizioni siano davvero dal vivo. Il confine tra musica registrata e musica dal vivo è ben tracciato, eppure gli addetti ai lavori fanno di tutta l’erba un fascio. Gli basta l’esibizione, non gli importa di come è fatta e di cosa ti porti sul palco. In questo modo si svilisce la qualità, passa una fruizione solo veloce e disimpegnata.
Qual è l’ultimo disco che hai messo sul piatto?
“Einfluss” di Hans Joachim Roedelius e Arnold Kasar, uscito recentemente per la Deutsche Grammophon.
Chiudiamo con un tuo suggerimento musicale. Cinque pezzi che rispondono alla tua idea di “In The Mood”.
Miles Davis “Shhhh”;
John Coltrane “Psalm”;
Pharoah Sanders “The Creator has a Masterplane”;
Alice Coltrane “Journey in Satchidananda”;
Lonnie Liston Smith “Astral Traveling”.